Il Mondiale di Menotti

“C’è un calcio di sinistra e uno di destra. I più generosi, i più artistici, i più colti sono sempre stati di sinistra. Un calcio aperto, vicino alla gente, l’orgoglio della rappresentatività e dell’appartenenza… Tutto ciò che predico suona più di sinistra che di destra. Poi c’è un altro calcio, a cui non importa della gente ma solo del risultato.” – César Luis Menotti

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L’allenatore e il giornalista nazista: quando Radomir Antić si scontrò con Hermann Tertsch

“Si sa che Hermann Tertsch è una nazista da tutta la vita”. Con queste parole, pubblicate nel settembre del 1995 sul magazine di El Mundo, la stagione calcistica spagnola si apre con un caso clamoroso. L’autore è uno degli uomini del momento nella Liga, intervistato per l’occasione dalla giornalista Carmen Rigalt: si chiama Radomir Antić, è uno jugoslavo della Vojvodina di 44 anni, e in estate ha assunto l’incarico di allenatore dell’Atlético Madrid, una nobile decaduta del calcio iberico ansiosa di tornare tra i grandi. L’oggetto del commento – il “nazista” – si chiama appunto Hermann Tertsch ed è uno dei più noti giornalisti di Spagna: ha solo 37 anni, ma da anni lavora per le principali testate del paese ed è diventato uno degli inviati più stimati e attenti della cronaca internazionale, e da qualche tempo è la firma di El País dal teatro balcanico, dove sta seguendo la sanguinosa guerra civile locale.

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Hiddink contro i nazisti

Il 9 febbraio 1992 si scrive una piccola ma significativa pagina della storia del calcio in Spagna. Allo stadio Lluís Casanova di Valencia si gioca una partita di metà campionato tra la squadra di casa, terza in classifica, e la sorpresa Albacete, neopromossa e quinta nella Liga, imbattuta da undici partite. Ma la storia dell’incontro non la fa tanto quel che succede in campo dopo il fischio d’inizio, ma bensì quando avviene oltre i bordi del rettangolo verde giusto prima del via. L’allenatore del Valencia, un 45enne olandese di nome Guus Hiddink, si avvicina a un membro del personale dello stadio durante il riscaldamento e gli indica un punto ai limiti del campo, oltre il fallo laterale, dove ci sono le transenne che separano i tifosi ospiti dal prato. “Togliete subito quella cosa, se no non si gioca” dice secco Hiddink. Quella cosa è una bandiera con una svastica.

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Géza Kertész e István Tóth: resistere all’abisso

Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, Géza Kertész e István Tóth si sarebbero ricordati di quel pomeriggio in cui si erano conosciuti. Correva l’anno 1920, la guerra era da poco terminata, e l’Ungheria era un paese nuovo e indipendente. I nazionalisti di Miklós Horthy erano usciti vincitori dal conflitto interno contro i comunisti, instaurando un governo autoritario che vedeva nel calcio un grande strumento di affermazione politica a livello internazionale. Kertész e Tóth si erano trovati a giocare assieme nella squadra del Ferencváros, la squadra della piccola borghesia conservatrice di Budapest: Tóth, maggiore di tre anni, era il vero asso della squadra, a dispetto del fisico ben poco atletico, mentre Kertész era appena arrivato dal BTC Budapest.

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Max il populista

“Il calcio è semplice” ripete insistentemente. È diventato il suo mantra, ormai. Mantra è una parola in sanscrito che nel linguaggio comune ha assunto il banale significato di una parola o frase che viene ripetuta in continuazione, ma in realtà si traduce come”strumento del pensiero”, e indica un’espressione sacra, una formula d’invocazione agli dèi: ogni volta che la si pronuncia, si richiama una manifestazione divina e ultraterrena, che altrimenti difficilmente avverrebbe. Pronunciare un mantra è prima di tutto un atto di fede. E non si può descrivere diversamente il senso che questa frase ha assunto ormai per Massimiliano Allegri, nella sua crociata contro il calcio moderno.

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Herrera, il mago anarchico

Non sapremo mai se lui avvertisse una qualche contraddizione, anche solo un piccolo fastidio, sapendo che stava per andare a lavorare per uno dei più ricchi imprenditori italiani. Possiamo immaginare che avesse ormai da tempo imparato a separare l’esigenza di una carriera felice e di successo dal suo retroterra politico, che infatti rimase sempre piuttosto segreto. Nell’estate del 1960, Helenio Herrera Gavilán atterrava a Milano per andare ad allenare l’Inter, apprestandosi a dare vita a una delle più grandi squadre di tutti i tempi. Sarebbe stata una strada lunga e tortuosa, che l’avrebbe costretto a rivedere molti dei suoi principi di gioco, ma ormai il Mago aveva imparato che la vita è fatta di compromessi. Non male, comunque, per il figlio di un immigrato anarchico in esilio in un altro continente.

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Tabárez, un simbolo sociale in Uruguay

“Il calcio è di destra, noi allenatori di sinistra siamo vittime della legge del risultato, che fa sì che il calcio sia conservatore. Essere progressisti significa superare la gabbia del risultato. A sinistra c’è l’Utopia: lavorare a un progetto e cercare di realizzarlo andando oltre le sconfitte.”

Óscar Washington Tabárez
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La rivoluzione tradita

Inghilterra, fine anni Sessanta. La patria della palla lunga, calciata alta verso ali veloci o poderosi centravanti. Calcio verticale, che somma scontri fisici denunciando le sue comuni origini con il rugby: calcio inglese, fresco campione del mondo. In questo mondo, Brian Clough è un misconosciuto eretico, un ex-centravanti classico e implacabile che a 29 anni ha dovuto ritirarsi per irrevocabile decisione di un legamento crociato, che ora sta sulla panchina di un club dei bassifondi della Second Division, il Derby County.

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Rivoluzionare la Germania

Il punto più basso di una storia è quello che precede la risalita e il lieto fine. Il punto più basso di Joachim Löw è la notte del Capodanno del 2003: per la prima volta nella sua vita, la passa da disoccupato. Era stato uno dei più promettenti allenatori della storia tedesca, ma in men che non si dica si era trovato nel dimenticato e, a 43 anni, non era del tutto sbagliato dire che il meglio, per lui, fosse ormai alle spalle.

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