Joaquim Santana, dal campo alla prigione per la causa dell’indipendenza

Quando il Benfica sollevò la sua prima Coppa dei Campioni, il 31 maggio 1961, gran parte del merito era anche suo: le Águias avevano concluso una stagione eccezionale vincendo anche il campionato, e Joaquim Santana si era imposto come il terzo miglior realizzatore stagionale della squadra con 20 gol all’attivo, secondo solo al centravanti e capitano José Águas e all’ala destra José Augusto. Quella squadra eccezionale, allenata dall’ungherese Béla Guttmann, poteva fare affidamento su uno schieramento offensivo eccezionale, con Águas e Augusto a finalizzare, il genio di Mário Coluna a impostare il gioco, e in mezzo, come mezzala destra, proprio Santana, brillante dribblomane capace di accendere le partite e unire la tecnica individuale del trequartista alla capacità realizzativa dell’attaccante puro.

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Ritorno a Kinshasa

L’indipendenza era stata tanto agognata quanto effimera. Le grandi speranze trasportate dalla voce di Patrice Lumumba si erano dissolte in fretta come il suo governo, durato pochi mesi prima di essere travolto dalla guerra civile, e lo stesso Lumumba catturato e ucciso dalle truppe del generale Joseph-Désiré Mobutu. Mentre s’impegnava a sedare i conflitti e ad assicurarsi il controllo di tutto il paese, il generale iniziava anche a pensare di rimpatriare i calciatori emigrati all’estero negli anni passati. Mobutu aveva in mente un feroce nazionalismo altamente simbolico, basato sul controllo delle risorse congolesi, fossero esse minerarie o sportive. Nel 1965, dopo aver deposto anche il Presidente Joseph Kasa-Vubu, assumeva il pieno potere, e poteva così dare il via al suo progetto: iniziava il ritorno dei calciatori a Léopoldville, che da quel momento in avanti sarebbe divenuta nota con il suo nome in lingala, cioé Kinshasa.

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Domande (e risposte) non scontate sul calcio africano

La Coppa d’Africa è iniziata, e questo per il pubblico del calcio europeo significa sostanzialmente una cosa: un mese di lamentele perché alcuni importanti giocatori si assentano dai club per disputare un torneo di cui quasi a nessuno, nel Vecchio Continente, importa qualcosa. Il fatto la Coppa d’Africa riguardi un pubblico potenziale di 1,2 miliardi di persone (in Europa siamo 746 milioni, per dire) non sembra essere abbastanza rilevante, in questo discorso. In generale, quando si parla del calcio africano ci si porta sempre dietro un bagaglio di stereotipi culturali figli del colonialismo ottocentesco di cui molte persone neppure si rendono conto. Di alcuni di questi si era già scritto nelle scorse settimane, ma la contemporaneità del torneo della CAF offre l’occasione per approfondire la questione, anche se in modo un po’ diverso dal solito. Di seguito trovate una serie di domande sul calcio africano a cui potrete provare a dare una risposta, e probabilmente scoprirete che la realtà storica è molto diversa da quello che verrebbe da pensare. Prendetelo come un piccolo gioco sui pregiudizi.

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Il calcio e gli stregoni

Renato Sanches si è rivolto a uno stregone per “guarire” da una maledizione che lo tormenta e che sarebbe la causa dei suoi numerosi infortuni. L’avete sentito dire anche voi, vero? Non c’è nulla di strano, visto che a pubblicare questa notizia, martedì mattina, è stata addirittura La Repubblica, che è poi stata ripresa dai numerosissimi siti di news che gravitano attorno alla galassia romanista, ovviamente sempre in maniera del tutto acritica. Al punto che lo stesso centrocampista è dovuto intervenire poche ore dopo per spiegare che non era assolutamente vero: il quotidiano aveva semplicemente interpretato in modo molto libero una frase di Sanches, che scherzando con un ex compagno di squadra aveva detto che forse qualcuno gli ha fatto una maledizione, visti tutti i guai fisici che sta avendo. Se avesse avuto la pelle bianca, probabilmente chiunque avrebbe colto al volo che non stava parlando sul serio. Tipo in questo recente articolo del Corriere dello Sport sulla “maledizione” di Allegri, che non aveva mai battuto in casa propria una squadra allenata da Ranieri: nessuno ha pensato neppure per un istante che sul serio fosse stato lanciato il malocchio sul tecnico della Juventus.

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Abbattere il nazionalismo del calcio

La recente notizia della convocazione nell’Italia di Mateo Retegui (ma anche quella di Bruno Zapelli nell’U21) apre il campo a un riflessione sul senso dell’identità nazionale nel calcio di oggi, che può ovviamente interessare anche il mondo extra-campo. Il caso Retegui ha ovviamente generato le solite trite discussioni sugli oriundi, che fanno emergere come le nefaste scorie del nazionalismo ottocentesco continuino a infettare le nostre menti, sempre a rischio di evolversi verso conseguenze ben più drammatiche della polemica sportiva. Forse sarebbe ora di consegnare definitivamente al passato il naziolismo e tutti i suoi figli, e il calcio può essere un punto di partenza.

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Raoul Diagne, il primo campione afro-europeo

Il dibattito in Francia era particolarmente acceso: da un lato, c’era chi riteneva il passaggio al professionismo economicamente insostenibile per i club, col rischio che avrebbe potuto essere non il rilancio, ma addirittura il capolinea del calcio nazionale. Dall’altro, il fronte favorevole rivendicava la necessità di riconoscere contratti e stipendi regolari ai giocatori, mettendo la Francia in linea con la modernità, con un provvedimento che era già stato preso non solo nel Regno Unito o in Nord America, ma addirittura in Austria, in Ungheria, in Italia, in Spagna e in vari Paesi del Sudamerica. Di questa fazione, tra tanti stimati calciatori bianchi, c’era anche un nero, Raoul Diagne, e – incredibile ma vero – era forse il più influente di tutto il gruppo. Fu in buona parte merito suo, se nel 1932 la Francia accettò il professionismo dei calciatori.

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Nel segno di Keïta

Si dice che Keïta significhi “prendere l’eredità”: è un nome potente, che deriva dal mondo mitico e aristocratico dell’antico impero del Mali, una delle più grandi potenze della storia africana. Il suo fondatore, Sundjata Keïta, nacque storpio, imparò a camminare da solo, e infine divenne una leggenda. La sua stirpe divenne una leggenda: tra i suoi eredi più recenti c’è Salif Keïta, uno dei più noti cantanti africani al mondo. Curiosamente, tre anni prima di lui, a Bamako nasceva un altro Salif Keïta, senza alcun legame di parentela come il primo mansa del Mali, ma che a suo modo sarebbe divenuto lo stesso un sovrano, anche se stavolta nel calcio: nel 1970, sarebbe stato il primo calciatore a ricevere il Pallone d’Oro africano.

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Il ragazzo di Casablanca

Casablanca si adagiava placidamente sull’oceano, e si lasciava attraversare da una fresca brezza, che le scorreva tra le strade come il sangue nelle arterie. Gli edifici color calce a cui doveva il suo nome s’immergevano in un ribollire di colori e forme figli della Storia, che parlavano arabo, portoghese, spagnolo, italiano, inglese e francese. Soldati senegalesi pattugliavano loro malgrado le strade a caccia di spie e contrabbandieri, nel disperato tentativo di “proteggere la neutralità” del regime di Petain – e cioè supportare la Germania nazista – mentre la maggior parte della popolazione, fatta di operai provenienti da tutto il mondo, sosteneva i ribelli di De Gaulle e attendeva trepidante l’invasione degli Alleati. Lì, in uno scenario che aveva già ispirato un film di Hollywood, si aggirava un giovane e impaziente calciatore, Larbi Ben Barek.

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Ti sia lieve la terra, Omolade

Mi viene da pensare che tutto iniziò lì, quel giorno del 2001 a Terni. È ovvio che non fu così, e ragionando a mente fredda ci si arriva: vengono in mente le scritte antisemite del 1989 contro Ronny Rosenthal a Udine, e poi il manichino nero impiccato dai due tifosi vestiti da membri del Ku Klux Klan, nel 1996 a Verona contro Maickel Ferrier. Eppure, l’episodio che coinvolse l’allora diciottenne Akeem Omolade durante quel Ternana-Treviso di Serie B fu un vero punto di svolta nel rapporto tra calcio italiano e razzismo. O meglio, un punto di non ritorno.

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