“Il calcio è di destra, noi allenatori di sinistra siamo vittime della legge del risultato, che fa sì che il calcio sia conservatore. Essere progressisti significa superare la gabbia del risultato. A sinistra c’è l’Utopia: lavorare a un progetto e cercare di realizzarlo andando oltre le sconfitte.”
Óscar Washington Tabárez
Óscar Washington Tabárez ha iniziato a essere chiamato El Maestro prima ancora di avere trent’anni, anche se in campo – dove si disimpegna come difensore centrale – è tutto tranne che elegante. Quel soprannome, che molti anni dopo cadrà a fagiolo per la sua eccezionale carriera da allenatore, non lo deve alle sue doti da calciatore, ma piuttosto a ciò che fa fuori dal rettangolo verde: a differenza di molti suoi colleghi, qualche anno fa ha terminato gli studi e intrapreso una carriera di maestro elementare, che poi è il modo in cui si guadagna veramente da vivere nell’Uruguay degli anni Settanta.
Sono anni difficili: la povertà figlia della crisi economica degli anni Cinquanta, che ha definitivamente visto tramontare il sogno di quella che era considerata la “Svizzera del Sudamerica”, è degenerata in uno scontro politico sempre più radicale, fino a che nell’estate del 1973 il presidente Juan María Bordaberry, con l’appoggio dei militari, non ha sciolto il parlamento e sospeso i diritti costituzionali. La dittatura fascista in Uruguay non ha fatto altro che difendere lo status quo, marginalizzando i movimenti di sinistra senza rilanciare l’economia del paese. E di questi tempi, Tabárez gioca a calcio e insegna ai bambini: gira varie scuole dei quartieri poveri di Montevideo, come La Teja, Paso de la Arena e soprattutto Villa del Cerro, periferia industriale popolata soprattutto da lavoratori dei macelli e da operai delle fabbriche di frigoriferi.
Non parla mai di politica, se non in privato, perché non è un’epoca in cui si possa parlare liberamente di certe cose. Ma è un uomo colto, che ascolta Franz Liszt e legge Eduardo Galeano, suo connazionale e grande appassionato di calcio, che sta girando il mondo come esule, prima in Argentina e poi in Spagna. Anche dopo aver appeso gli scarpini al chiodo e aver deciso di diventare allenatore, Tabárez continua a fare il maestro, e addirittura viene nominato direttore della scuola N°30 “Antonio Dionisio Lussich”. È bravo nel suo lavoro, e nel 1983 lo mettono addirittura alla guida della Nazionale Under-20, con cui vince la medaglia d’oro ai Giochi Panamericani. Andrà avanti a fare il maestro elementare fino al 1987, quando la sua carriera d’allenatore prenderà il sopravvento, con l’offerta di un contratto da parte del club più ricco e importante dell’Uruguay, il Peñarol.

Nel frattempo, la dittatura è caduta. Nel 1980 il plebiscito che doveva servire a legittimare il regime venne bocciato dal 56% dei votanti, e questo aprì la strada verso la democratizzazione, così cinque anni dopo ci fu il ritorno alle libere elezioni. Ma la dittatura aveva lasciato segni profondi in Uruguay: 116 morti stimate e 172 desaparecidos, almeno 6.000 persone incarcerate per dissidenza politica, che in un paese che non arriva ai 3 milioni di abitanti significano un prigioniero politico ogni 450 persone. Di queste 6.000 persone, 67 erano bambini, a cui non sono state risparmiate le torture destinate ai prigionieri adulti. La semi-sconosciuta dittatura uruguayana è stata una delle più feroci mai viste nel Novecento.
Molti anni dopo, nel 2019, Óscar Tabárez sarà una delle personalità uruguayane che parteciperanno al progetto culturale Imágenes del Silencio, facendosi fotografare con le immagini di alcune delle persone sparite tra il 1973 e il 1985. In questo momento è allenatore della Nazionale, e senza dubbio la figura più stimata del calcio locale. Tra le sue mani stringe la foto di Juan Pablo Recagno Ibarburu, un ragazzo di Montevideo che nei primi anni Settanta dovette attraversare il Rio de la Plata per sfuggire alla repressione politica, e nel 1976 fu arrestato a Buenos Aires. Aveva 26 anni, e da allora di lui non si è più saputo nulla. Sua madre, Luz Ibarburu, è divenuta un simbolo delle madri uruguayane che chiedevano di conoscere la sorte dei propri figli scomparsi; è morta nel 2006, pochi giorni prima che Tabárez venisse nominato ct della Celeste, senza mai conoscere la verità.
In Uruguay, Tabárez è una figura che travalica il concetto stesso di sport, o per meglio dire che lega lo sport alla politica come solo Galeano prima di lui è riuscito. La sua ascesa alla guida della Nazionale – la seconda, dopo la breve esperienza tra il 1988 e il 1990 – è coincisa con la resurrezione politica e sociale del paese, rilanciata dalle vittorie elettorali del Frente Amplio, il principale partito della sinistra locale. Tra il 2010 e il 2015 esso ha espresso la maggioranza di governo guidata da José Mujica, ex-guerrigliero Tupamaros che durante la dittatura si fece 12 anni di carcere, chiuso in isolamento in una specie di pozzo. Mujica e Tabárez diventano due figure quasi sovrapponibili, un po’ perché appartengono alla stessa generazione e anche un po’ perché entrambi sono legati al barrio di Paso de la Arena, dove il ct ha insegnato e dove il presidente è invece cresciuto. Da un lato, l’Uruguay implementa alcune importanti riforme, come l’istituzione dei matrimoni omosessuali, la depenalizzazione dell’aborto e la legalizzazione delle droghe leggere, mentre il tasso di disoccupazione e quello di povertà crollano; dall’altro, la Nazionale torna a giocare regolarmente i Mondiali (nel 2010 arriva addirittura quarta: miglior risultato da quarant’anni) e conquista finalmente Copa América che mancava dal 1995.
El proceso di Tabárez nel calcio ha incarnato alla perfezione lo spirito del tempo ed è divenuto metafora politica, e d’altronde El Maestro non ha mai nascosto le sue simpatie elettorali, come quando alle elezioni del 2014 supportò pubblicamente la candidatura frenteamplista di Tabaré Vázquez. E tutto ciò gli ha anche causato critiche, specialmente negli ultimi anni, che hanno visto il calo di popolarità della sinistra e, quasi a farlo apposta, anche quello di risultati della sua Nazionale. Il rischio di mancare la qualificazione ai Mondiali per la prima volta dal 2006, legittimato dalla batoste subite a ottobre 2021 in Argentina e Brasile, lo ha messo al centro delle contestazioni della stampa conservatrice, che lo accusa di aver ormai fatto il suo tempo (proprio come il Frente Amplio). Da sinistra diverse voci si sono logicamente levate in sua difesa, tra cui anche quelle di illustri personaggi politici come il sindaco di Salto Andrés Lima, e Miguel Fernández Galeano, referente sanitario sulla pandemia del Frente Amplio. Tutto inutile, però, perché il 19 novembre il ct ha ricevuto infine il benservito da parte della Federazione.

La storia di Óscar Washington Tabárez ha segnato un’epoca, non solo per i risultati che ha ottenuto ma per come essi sono stati percepiti dalla popolazione: quella di un paese minuscolo che però vanta due titoli mondiali e quindici continentali. E che ha sempre cercato di essere un po’ diverso da ciò che gli sta attorno, fin dai tempi in cui Isabelino Gradín faceva fuoco e fiamme in campo, mentre nel resto del Sudamerica ai neri non era permesso di giocare in Nazionale. Il calcio può essere cultura, può essere coscienza, può essere un esperimento pedagogico.