Una mappa del tifo politico del calcio in Israele

Giovedì sera un gruppo di tifosi del Maccabi Tel Aviv, in trasferta ad Atene per una gara di Conference League contro l’Olympiakos, ha aggredito una persona che sembra portasse con sé una bandiera palestinese. Il fatto ha riportato l’attenzione sulla politicizzazione del calcio in Israele, un argomento generalmente poco conisciuto in Europa se non per alcuni casi eclatanti, come quello dell’Hapoel Tel Aviv (per via del noto gemellaggio col St. Pauli) e quello, di segno ideologico totalmente opposto, del Beitar Gerusalemme. In realtà la mappa del tifo politico in Israele è ben più variegata, e per certi versi anche molto distante dallo stesso fenomeno in Italia e in buona parte dell’Europa, dove di solito i club di primo piano sono quelli coi tifosi ufficialmente meno schierati. In Israele, invece, sono proprio le squadre più seguite quelle che hanno le caratterizzazioni politiche più evidenti.

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Perché Israele non gioca la Coppa d’Asia

La recente impresa della nazionale palestinese, che per la prima volta nella storia ha superato la fase a gironi della Coppa d’Asia, ha portato molti tifosi a domandarsi come mai a questa competizione non partecipi anche Israele, che geograficamente è un paese mediorientale. Com’è noto, la federazione ebraica fa parte della UEFA, la confederazione europea: disputa le qualificazioni agli Europei, si gioca la qualificazione ai Mondiali tra le nazionali del Vecchio Continente, e i suoi club competono regolarmente nei tornei UEFA. La ragione di questa stranezza è facilmente intuibile alla luce del lungo conflitto israelo-palestinese, ma non è sempre stato così, anzi: fino al 1968, Israele si era sempre piazzato sul podio della Coppa d’Asia, vincendola anche nel 1964, e la sua unica presenza ai Mondiali, nel 1970, era stata proprio in rappresentanza della confederazione asiatica AFC. Il punto di svolta nella storia del calcio israeliano si è verificato nel 1974, ma le radici di questo evento sono chiaramente molto complesse.

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Israele, Palestina e le contraddizioni politiche del calcio europeo

Il conflitto israelo-palestinese dura da decenni, eppure nel 2023 sembra aver raggiunto un livello di intensità del dibattito mai visto prima. La prospettiva del mondo del calcio non può che essere molto parziale e riduttiva rispetto alla complessità di ciò che sta avvenendo, ma può almeno fornire un piccolo esempio di come questo dibattito si sia radicalizzato, mettendo in crisi molti dei principi politici e dei valori che la società occidentale (e il suo sport) hanno sempre vantato. La tanto decantata separazione tra sport e politica si è infatti rivelata una volta di più del tutto inadeguata a rispondere alle necessità della società contemporeanea.

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La squadra delle spie per combattere i comunisti

Al 42° minuto, Pak Doo-ik cambiava la storia del calcio. Il gol dell’attaccante coreano gelò l’Italia e consentì alla Corea del Nord di ottenere la prima vittoria di una nazionale asiatica ai Mondiali, e anche la prima qualificazione alla fase a eliminazione diretta nella storia delle selezioni orientali. È una vicenda che in molti conoscono, soprattutto in Italia, così come si sa che, al turno successivo, i coreani sfiorarono l’impresa storica di raggiungere la semifinale, andando sul 3-0 dopo mezzora contro il Portogallo, per poi venire ribaltati dal ciclone Eusébio. L’impresa asiatica non fu però uno shock solo in Italia, ma anche dall’altra parte del mondo, al di sotto del 38° parallelo, dove Pyongyang era il nemico e quell’exploit era uno smacco al proprio onore che il governo di Seul non poteva tollerare.

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Cosa vuole davvero l’Arabia Saudita?

Anche se il calciomercato è finito, l’Arabia Saudita aleggia ancora come un fantasma sopra l’Europa pallonara. L’ultima ricca campagna acquisti dei club sauditi, in particolare quelli controllati dal PIF, ha lasciato un segno profondo sugli equilibri e la sicurezza del calcio del Vecchio Continente, e anche se alla fine Messi, Mbappé, Kroos e Salah ha detto di non essere interessati alle offerte della Saudi Pro League, la sensazione comunque è che qualcosa di grosso sia successo, e che nelle prossime finestre di mercato questa situazione si riproporrà. Dei timori e delle speranze del calcio europeo attorno alla fragorosa irruzione saudita si è già scritto qui e qui, ma è forse giunto il momento di fare una riflessione ben più ampia su quali siano i reali obiettivi di Riad. Da un paio d’anni almeno, anche qui in Italia sia parla spesso di sportwashing, ma questo in realtà rappresenta solo una fetta della torta araba.

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L’Arabia Saudita sarà come la Cina?

Lunedì, con la notizia del passaggio di Sergej Milinković-Savić all’Al-Hilal, l’Arabia Saudita si è ripresa le prime pagine dei giornali sportivi italiani, riproponendo una domanda a cui si era già provato a rispondere: sarà lì il futuro del calcio, e non più in Europa? Da un lato abbiamo i catastrofisti, secondo cui ormai la vecchia Europa è finita e tra qualche anno finiremo a guardare su Sky i grandi campioni che giocano nella Saudi Pro League. Dall’altro, gli iper-ottismisti, secondo cui la bolla saudita è destinata a scoppiare come quella cinese (e come molte altre che abbiamo visto in precedenza, a dire il vero). Su quest’ultimo punto vale la pena fare qualche riflessione aggiuntiva, cercando di mettere in ordine similitudini e differenze, ma soprattutto ragionando in maniera equilibrata.

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I Lancieri dell’Asia

La squadra che aveva fatto innamorare l’Europa non c’èra praticamente più. Smantellata, dopo circa un lustro di successi in patria e in Europa. Era iniziato tutto nel 1973, quando Cruijff aveva raggiunto Michels a Barcellona e l’allenatore Kovács era passato a guidare la nazionale francese. Poi anche Neeskens era andato in Catalogna, Haan era passato all’Anderlecht, Blankenburg all’Amburgo e Rep al Valencia. Nonostante l’arrivo del bomber Ruud Geels dal Club Brugge, nel 1974 l’Ajax aveva chiuso senza trofei per la prima volta dopo cinque anni, e anche la stagione seguente non avrebbe detto nulla di diverso. Il ciclo del totaalvoetbal era finito, e i Lancieri dovevano andare a caccia di nuovi talenti su cui costruire il proprio futuro. Nessuno si poteva aspettare che la squadra che aveva rivoluzionato il calcio mondiale sarebbe ripartita da due ragazzi che affondavano le proprie radici nell’Estremo Oriente.

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La vita oltre la guerra: la storia di Aleksandar Đurić

Il kayak non è certo uno degli sport più seguiti al mondo, ma per gli appassionati, nel 1987, c’era un nome che iniziava a farsi largo, attirando l’attenzione di molti: Aleksandar Đurić. Era un ragazzo di 17 anni di un villaggio della Bosnia che due anni prima aveva conquistato il titolo juniores jugoslavo, e in quel momento era il numero 8 al mondo. Flashforward: 20 anni dopo. Lo stesso Aleksandar Đurić esordiva per la prima volta con una rappresentativa nazionale, ma stavolta non si trattava di kayak bensì di calcio, e la selezione non era bosniaca o comunque balcanica, ma quella di Singapore. Nel corso di due decenni, il mondo aveva sconvolto la sua vita, prima ancora che la sua carriera sportiva.

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Abbattere il nazionalismo del calcio

La recente notizia della convocazione nell’Italia di Mateo Retegui (ma anche quella di Bruno Zapelli nell’U21) apre il campo a un riflessione sul senso dell’identità nazionale nel calcio di oggi, che può ovviamente interessare anche il mondo extra-campo. Il caso Retegui ha ovviamente generato le solite trite discussioni sugli oriundi, che fanno emergere come le nefaste scorie del nazionalismo ottocentesco continuino a infettare le nostre menti, sempre a rischio di evolversi verso conseguenze ben più drammatiche della polemica sportiva. Forse sarebbe ora di consegnare definitivamente al passato il naziolismo e tutti i suoi figli, e il calcio può essere un punto di partenza.

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2003, la scoperta del calcio in Qatar

Quando atterrò all’Aeroporto Internazionale di Doha, Gabriel Omar Batistuta probabilmente non ci pensava nemmeno al fatto di essere un pioniere, di stare scrivendo la Storia. Pensava piuttosto al contratto su cui aveva apposto la propria firma: 8 milioni di dollari in due anni dall’Al-Arabi, poco meno di quanto l’Arsenal offriva a Patrick Vieira, uno dei più forti centrocampisti al mondo. Batistuta grande lo era stato, ma la sua ultima stagione, tra Roma e Inter, aveva messo in luce come a 34 anni non fosse più un giocatore al livello della Serie A. Sarebbe potuto tornare romanticamente in Argentina, o avrebbe potuto cercare un buon contratto in Giappone o negli Stati Uniti, e invece aveva scelto il Qatar.

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