L’Irlanda inglese di Jack Charlton

La scelta di ingaggiare Jack Charlton come allenatore aveva sollevato un polverone. L’Irlanda non aveva un tecnico dal nome così rinomato da quando, cinque anni prima, Johnny Giles aveva lasciato la panchina della nazionale dopo sette anni di lavoro; ma il nome contava poco. Charlton sarebbe stato il primo inglese a guidare la selezione della Repubblica irlandese, uno stato nato dopo un lungo e burrascoso processo d’indipendenza dal Regno Unito, che aveva lasciato rapporti piuttosto tesi tra i due vicini. L’ex difensore dei Three Lions campioni del mondo nel 1966 aveva un’esperienza manageriale limitata alle serie minori inglesi, ma era riconosciuto come un tecnico competente. Una piccola federazione come quella di Dublino sentiva di aver bisogno di uno come lui, se voleva valorizzare giocatori come Liam Brady, Mark Lawrenson e Frank Stapleton, raggiungendo così per la prima volta la qualificazione alla fase finale di un grande torneo. Le idee di Charlton erano destinate, però, a fare discutere.

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I Lancieri dell’Asia

La squadra che aveva fatto innamorare l’Europa non c’èra praticamente più. Smantellata, dopo circa un lustro di successi in patria e in Europa. Era iniziato tutto nel 1973, quando Cruijff aveva raggiunto Michels a Barcellona e l’allenatore Kovács era passato a guidare la nazionale francese. Poi anche Neeskens era andato in Catalogna, Haan era passato all’Anderlecht, Blankenburg all’Amburgo e Rep al Valencia. Nonostante l’arrivo del bomber Ruud Geels dal Club Brugge, nel 1974 l’Ajax aveva chiuso senza trofei per la prima volta dopo cinque anni, e anche la stagione seguente non avrebbe detto nulla di diverso. Il ciclo del totaalvoetbal era finito, e i Lancieri dovevano andare a caccia di nuovi talenti su cui costruire il proprio futuro. Nessuno si poteva aspettare che la squadra che aveva rivoluzionato il calcio mondiale sarebbe ripartita da due ragazzi che affondavano le proprie radici nell’Estremo Oriente.

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“Ma quale DNA?” Pensieri per un calcio migliore

Una domanda che mi viene spesso fatta, e che spesso mi pongo, è quale sia l’obiettivo (la mission, si direbbe in altri settori) di Pallonate in Faccia, e francamente è sempre difficile trovare una risposta che non sembri presuntuosa o banale. Un vecchio trucco, in casi del genere, è prendere le risposte in prestito da qualcun altro: nel suo libro Ma quale DNA? Il calcio, l’antropologia e le trappole dell’identità (Battaglia Edizioni, 2023), Bruno Barba conclude dicendo che “per crescere uno sport ha bisogno del giornalismo migliore”. Un giornalismo che, almeno in Italia, mi pare molto lontano dal dirsi realizzato. Per cui Pallonate in Faccia è la mia piccola operazione di resistenza a un racconto sportivo che si crogiola nella cronaca compulsiva, nei luoghi comuni e nelle convenzioni su cui non si riflette mai abbastanza, nel populismo più irresponsabile. Oggi più che mai, chi scrive di calcio dovrebbe partire da una visione del mondo coerente prima ancora di mettersi a guardare una partita. Il libro di Barba, che è un ricercatore di Antropologia del Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Genova, può essere un punto di partenza per cogliere spunti di riflessione su un modo più maturo di guardare il calcio.

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Jeppson, la stella milionaria e il sogno politico di Achille Lauro

La cifra fa venire il capogiro: 105 milioni di lire complessivi, di cui 75 all’Atalanta e 30 al giocatore. Soprattutto perché in Italia si starà pure iniziando a parlare di “miracolo economico”, ma gran parte della popolazione è ancora molto povera, la ricostruzione del dopoguerra non è ancora terminata, e al Sud la situazione è anche più problematica. Il suo nome è Hans Hasse Jeppson, è un attaccante scandinavo di 27 anni e in patria la gente lo chiama Guldfot, “piede d’oro”. La sorpresa è ancora più grande perché Jeppson non arrivà in una delle grandi del campionato, come l’Inter o la Juventus, ma nel Napoli, che solo due anni prima veniva nuovamente promosso in Serie A e ha tradizione abbastanza modesta nel calcio italiano. Ma sotto questo clamoroso colpo di mercato si estendono radici politiche che affiorano in maniera abbastanza evidente dal terreno delle trattive.

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Calcio, un fenomeno migratorio

È difficile raccontare il presente senza parlare della migrazione, che per certi versi è il grande elefante nella stanza del mondo (occidentale, soprattutto) in cui viviamo. Eppure se dalle strade e dai porti ci spostiamo al campo da calcio (o al campo sportivo in generale, ma qui si parla pur sempre del mero calcio) ci dovremmo rendere facilmente conto che questo sport è inscindibile dal fenomeno migratorio in ogni momento della sua storia. Il che aprirebbe un altro fronte: la migrazione non riguarda l’oggi, ma l’intera storia del nostro mondo; questo però è un tema che va lasciato necessariamente ad altri autori. Per cui torniamo al punto che ci interessa: l’essenza dellla migrazione nel calcio. Da cui discende una lezione preziosa, oggi più che mai: lo sport può e deve rappresentare un modello di società del presente, in risposta alle paranoie identitarie e xenofobe. Come ha detto Mauro Berruto, “Basta aprire la porta di una palestra o andare su un campo sportivo per verificare che lì esiste già un modello di società che funziona”, multiculturale e inclusiva.

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L’effetto Moneyball nel calcio

Ci sono film che riescono a diventare qualcosa di più di semplici prodotti d’intrattenimento, ma arrivano a essere vasti fenomeni culturali. Uno dei casi più evidenti è quello di Moneyball (in italiano, L’arte di vincere), pellicola del 2011 di Bennett Miller con Brad Pitt protagonista, ispirata alla vera vicenda della squadra di baseball degli Oakland Athletics di inizio anni Duemila. È uno dei film sportivi più belli di sempre, e uno dei pochi prodotti cinematografici che hanno seriamente influenzato il mondo reale che li aveva ispirati: il “metodo Moneyball” è diventata una locuzione di grande successo sulla stampa sportiva di mezzo mondo. In un’epoca in cui le disuguaglianze tra ricchi e poveri, anche tra le società sportive e non solo tra gli individui, sono in costante aumento, la vicenda degli Athletics è la dimostrazione che con idee, intuizione e metodo è possibile ribaltare il fattore economico. Non stupisce allora che uno degli sport più diseguali da questo punto di vista, com’è appunto il calcio europeo, sia stato rapidamente sedotto dalla storia di Billy Beane.

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Tutto il razzismo del caso Lukaku

Siamo ancora qui a parlare di razzismo in Serie A. Personalmente, credevo di aver concluso questa parentesi due settimane fa con questo articolo, ma negli ultimi giorni ho realizzato che non è bastato. La retorica apparentemente innocente che si è sviluppata attorno al caso di Romelu Lukaku ha messo in evidenza la necessità di destrutturare, in uno spazio più lungo di un tweet, discorsi e ragionamenti che, all’atto pratico, sono implicite legittimazioni degli episodi razzisti che ormai sono ampiamente fuori controllo nel calcio italiano. Spero che le righe che seguono possano aiutare a mettere in chiaro una volta per tutte la mia visione su questa situazione, e che possano aiutare qualche persona a ragionare un po’ sui suoi riflessi pavloviani.

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La vita oltre la guerra: la storia di Aleksandar Đurić

Il kayak non è certo uno degli sport più seguiti al mondo, ma per gli appassionati, nel 1987, c’era un nome che iniziava a farsi largo, attirando l’attenzione di molti: Aleksandar Đurić. Era un ragazzo di 17 anni di un villaggio della Bosnia che due anni prima aveva conquistato il titolo juniores jugoslavo, e in quel momento era il numero 8 al mondo. Flashforward: 20 anni dopo. Lo stesso Aleksandar Đurić esordiva per la prima volta con una rappresentativa nazionale, ma stavolta non si trattava di kayak bensì di calcio, e la selezione non era bosniaca o comunque balcanica, ma quella di Singapore. Nel corso di due decenni, il mondo aveva sconvolto la sua vita, prima ancora che la sua carriera sportiva.

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Sfogo contro il vittimismo dei tifosi

Questo articolo è in realtà molto personale, e chiedo fin da subito scusa ai lettori e alle lettrici per non aver prodotto, come avviene di solito, un contenuto strettamente collegato alla storia del calcio e della politica. Ma c’è un problema che negli ultimi mesi è divenuto fastidiosamente rilevante, nelle interazioni del sottoscritto sui social network: le ossessive e immotivate lamentele di alcuni utenti offesi dal fatto che si desse notizia, sebbene nella maniera più neutrale possibile, di casi di discriminazioni avvenuti da parte di alcuni tifosi italiani. Si tratta di una minoranza di persone, fortunatamente, ma talmente costante che più volte ho meditato se non fosse meglio smettere del tutto di dare notizie del genere relative alla Serie A. Non volendo arrivare a una simile assurdità, che sarebbe una sconfitta personale, ho deciso di ricorrere a questo spazio per sfogarmi.

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Appunti per una Storia del calcio

Negli anni, Pallonate in Faccia è cresciuto e si è evoluto da un semplice blog di storytelling calcistico a un progetto più ampio sulla storia del calcio, un aspetto ben rappresentato dal podcast. Tutto questo mi ha portato a leggere e studiare molto, e a riflettere sulla storia del calcio, anche solo per crearmi delle strutture mentali attorno a cui organizzare il lavoro, un’esigenza personale per rendere tutto l’argomento più “controllabile”. Mi sono trovato dunque a mettere giù una sorta di periodizzazione della storia del calcio, chiaramente soggettiva e arbitraria, mutuando la periodizzazione della Storia vera e propria (quella cosa per cui abbiamo una Storia Antica, una Storia Medievale, una Storia Moderna, e così via). Giunto ormai praticamente alla fine del primo secolo di vita del pallone nella narrazione del podcast, ho deciso di condividere con voi questo schema, sperando di ricevere input, correzioni o suggerimenti per precisarlo ulteriormente (potete scrivermi sempre a questi contatti).

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