“Il calcio è semplice” ripete insistentemente. È diventato il suo mantra, ormai. Mantra è una parola in sanscrito che nel linguaggio comune ha assunto il banale significato di una parola o frase che viene ripetuta in continuazione, ma in realtà si traduce come”strumento del pensiero”, e indica un’espressione sacra, una formula d’invocazione agli dèi: ogni volta che la si pronuncia, si richiama una manifestazione divina e ultraterrena, che altrimenti difficilmente avverrebbe. Pronunciare un mantra è prima di tutto un atto di fede. E non si può descrivere diversamente il senso che questa frase ha assunto ormai per Massimiliano Allegri, nella sua crociata contro il calcio moderno.
Il calcio polarizza, lo sappiamo bene. Ma in quanto grande collettore di atteggiamenti e tendenze sociali è a sua volta una lente con cui guardare al nostro mondo extra-sportivo, e in quest’ottica appare chiaro che esiste una contrapposizione tra i cosiddetti “giochisti” – fautori di un calcio tecnico e offensivo, barocco e moderno, allievi ideali di Guardiola – e i “risultatisti” – per i quali invece al centro della prestazione c’è il risultato, l’essenzialità. Quando questi concetti sportivi si estendono e si estremizzano, arriviamo a trovarci davanti ai progressisti e agli innovatori da un lato, e ai tradizionalisti e ai conservatori dall’altro. Da che punto la si guardi, è evidente che il modo in cui vediamo la società e quello in cui vediamo lo sport finiscono per sovrapporsi. E Allegri, in questa battaglia, si è schierato da tempo con i conservatori, prima a livello puramente tattico, e poi anche sotto il profilo comunicativo.
In realtà, per lui si è trattato di una mossa di vero e proprio trasformismo alla Depretis: discepolo dello zonista Giovanni Galeone, si era affermato, prima a Cagliari e poi più moderatamente al Milan, come un tecnico propositivo e votato a un gioco ben più elegante rispetto a quello per cui è conosciuto oggi. Il confronto con la pressione del risultato, specialmente nella Juventus del post-Conte, lo ha fatto cambiare, fino al punto di rottura manifestatosi probabilmente con il litigio con Daniele Adani ai microfoni di Sky Sport nell’aprile 2019. In quell’occasione, il tecnico della Juventus abbracciò per la prima volta una strategia comunicativa tipica del moderno populismo politico: “Stanno diventando tutti teorici. Io sono un pratico, non un teorico”. La contrapposizione tra i teorici e i pratici è un pallino della destra dell’ultimo decennio, ben incarnata dal Matteo Salvini che criticava i “professori” come Monti e Fornero e predicava la “rivoluzione del buonsenso”.
La retorica della semplicità, però, è precedente all’eliminazione subita contro l’Ajax, come chiarisce bene il titolo del libro del tecnico toscano, È molto semplice, ironicamente uscito in commercio solo sette giorni prima della sconfitta di Torino contro i Lancieri di Amsterdam. In quelle poche pagine, Allegri chiariva bene la sua ideologia, che ruota tutta attorno alla difesa della semplicità del calcio contro chi vuole inutilmente complicarlo. Parafrasando, della democrazia contro la tecnocrazia: un concetto trasversale che faceva molta presa all’inizio dello scorso decennio, ma che presto è maturato in una negazione della competenza e della specializzazione, esaltando chi ragiona “col buonsenso” contro chi lo fa in base a studi approfonditi (ma, se vogliamo, anche del sapere pratico contro quello dei libri). Non a caso, “semplice” è stata la parola d’ordine di Beppe Grillo durante l’ascesa del M5S: “È semplice: li mandiamo a casa tutti” (ad Annozero, nel 2011); “Il nostro programma è semplice! Semplicissimo!” (su Facebook, nel 2013); “La Costituzione è stata scritta in modo semplice, e allora perché ho bisogno di un costituzionalista che mi spieghi qualcosa che potrei capire da me?” (in un comizio a Palermo, nel 2016).
La semplicità come forma di ribellione politica a un mondo che non si comprende più, che è figlia di molte problematiche del nostro tempo, prima tra tutte la crisi del prestigio e della qualità dei media, che accomuna sia quelli generalisti che quelli sportivi. Un tempo veicolo privilegiato d’informazione e di lettura del mondo, si ritrovano oggi sommersi in un’alta marea di blog, siti, post, tweet, podcast, video di YouTube e altre cose che determinano la cosiddetta “sovrabbondanza informativa”. La pluralità delle fonti comporta una maggiore responsabilità da parte di ognuno di noi, e richiede un’educazione alla complessità che fino a ora non era mai stata così tanto necessaria. Davanti a questa frattura, è emerso il moderno populismo, come reazione alla complessità generata da un momento di crisi. Nella storia di Allegri, la crisi è stata quella di un sistema di gioco ritrovatosi sempre meno al passo coi tempi nell’ultimo decennio, ma anche quella della realtà di una Juventus tanto dominante in Italia quanto incapace di mettere in bacheca l’agognata Champions League. A quel punto, le scelte erano due: confrontarsi con la complessità della situazione, o negarla.
Chiariamoci: qui nessuno sostiene che Allegri non comprenda la complessità del gioco; la questione non è infatti tattica, ma comunicativa. Non è il calcio attendista e poco spettacolare a fare di lui un populista, ma la retorica con cui lo difende davanti ai media. E dire che nel 2018, dopo la conquista del settimo titolo consecutivo dei bianconeri, Christian Rocca scriveva su La Stampa che la Juve di Allegri era “un antidoto al populismo imperante”, perché aveva saputo costruire i propri successi (non solo sportivi) su programmazione e competenza. Ma un anno dopo, sul Corriere della Sera, Tommaso Pellizzari ribaltava la prospettiva e per primo accostava la filosofia allegriana a quella salviniana: “insistere nel proporre soluzioni semplici a problemi complessi”. Allegri ha scelto di reagire così alla crisi, e ha preso una decisione politica, cioè che afferisce a una precisa visione del mondo: si pone come un “pratico”, cioè un “uomo del fare” (storica citazione berlusconiana), ponendosi al livello del cittadino comune. Parla “alla pancia” del tifoso, seccato da gente che va in tv a fare discorsi con toni da intellettuali che lui non capisce, quando invece nel calcio basta passarsi bene la palla e tirare in porta.
L’eliminazione contro l’Ajax (antitesi filosofica alla sua Juventus) e il successivo scontro con Adani (portavoce televisivo del bel gioco, e quindi nemesi mediatica numero 1 dell’allenatore toscano, incarnazione dei “teorici”) hanno fatto da catalizzatori e radicalizzatori del pensiero di Allegri, alimentando la sua guerra contro il calcio tatticamente moderno. Una guerra che ha combattuto anche attraverso alcuni assalti alla cieca, tipo quando a dicembre 2019 diceva a Mario Sconcerti che il calcio stava diventando più fisico a causa dei giocatori africani e che stava tornando di moda il gioco in contropiede; o quando, lo scorso marzo, criticava la costruzione dal basso citando come esempio positivo il Manchester City di Guardiola, che giocherebbe sui lanci lunghi del portiere. Anche qui, la strategia comunicativa è abbastanza lampante: dimostrare un assunto predeterminato scegliendo specifici episodi isolati dal contesto (in questo caso, la capacità di Ederson di effettuare passaggi lunghi precisi, ignorando che l’opzione preferenziale del City resta la costruzione dal basso), che non è diverso da chi cita un crimine commesso da un immigrato per dimostrare che tutti gli immigrati delinquono.
Il terzo tratto che qualifica l’autonarrazione di Allegri come populista è il frequente ricorso al capro espiatorio, una tattica che nella politica viene usata come alternativa al discorso costruttivo: all’assunzione di responsabilità, si preferisce addossarne altre a soggetti terzi. Gli esempi dal mondo della politica non mancano, ovviamente, e anche in quello del calcio non si è da meno, ma la particolarità dei discorsi che sempre più spesso fa l’allenatore della Juventus è che i capri espiatori diventano i suoi stessi giocatori. Nel famoso litigio con Adani, Allegri aveva esordito sostenendo che contro l’Ajax l’unico problema era stato subire non il gioco degli olandesi ma giusto quattro ripartenze, “La prima ripartenza sbaglia una palla Pjanić, la seconda ne sbaglia una De Sciglio…”. Dopo poche partite dal suo ritorno a Torino, Allegri ha fatto discutere per le sue critiche ingenerose a De Ligt e Chiesa, e ancora dopo il recente pareggio contro la Sampdoria si è lamentato molto duramente del diciannovenne Miretti. Sebbene non abbia mai sostenuto di non avere colpe, davanti alla stampa Allegri ha sempre individuato con maggiore precisione le responsabilità dei suoi giocatori rispetto alle proprie.

A questo punto, però, la vera questione diventa capire perché Allegri abbia imboccato questa strada. Negli ultimi tempi alla Juventus si è senza dubbio sentito messo in discussione a prescindere dai trofei vinti, e si è ritrovato suo malgrado confinato nella parte del retrogrado. Astutamente, invece che cambiare di posto ha deciso di mettercisi comodo, captando il diffuso fastidio dei tifosi italiani nei confronti di fenomeni moderni come il tiki-taka e la costruzione dal basso, dovuto alla pulsione essenzialmente tradizionalista che pervade la nostra società. Una scelta di campo naturale, per un tecnico che come lui vive di conflitti (e non è il solo, ovviamente: basta pensare a Mourinho, altro maestro del populismo applicato al discorso calcistico) e che tutto sommato sembra trovarsi a suo agio nelle contrapposizioni nette.
Chi lo critica, oggi tende a definirlo come irrecuperabile. Se così fosse, bisogna vedere se Allegri proseguirà lungo le tappe del percorso populista che già conosciamo, quelle messe in mostra in tutto il loro splendore da Donald Trump. Se la sua esperienza alla Juventus dovesse nuovamente concludersi con una delusione, si ribellerà forse all’esonero, paventando un complotto contro di sé e chiamando a raccolta i pochi fedelissimi adepti rimastigli per guidare un furioso assalto alla Continassa? O forse il calcio dimostrerà inaspettatamente di essere un microcosmo che ha mantenuto una proprià serietà e dignità rispetto all’ormai degenerata politica, e Allegri ne approfitterà per staccarsi dal personaggio che si è creato e, finalmente libero, tornare a essere solo un allenatore di calcio.