Il saluto di Mark Bosnich

Ci sono occasioni che non ci si può lasciar sfuggire. Diventare un giocatore del Manchester United, fresco vincitore della Champions League, è una di queste, e il prestigio di questa chiamata è accresciuto dal fatto che i Red Devils ti vogliono per ereditare la storica maglia di Peter Schmeichel. Il danese, a 36 anni, ha deciso di trasferirsi in Portogallo allo Sporting Lisbona, e il suo trono è rimasto vacante. Mark Bosnich, 27 anni, è l’uomo scelto per prenderne il posto: un evento storico non solo per lui ma anche per tutto il misconosciuto calcio australiano. Viene da sette stagioni di buon livello all’Aston Villa, dopo che proprio lo United lo aveva portato in Inghilterra, ma il suo acquisto suscita alcuni malumori nella tifoseria. Su Bosnich, infatti, grava il sospetto di simpatie naziste.

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Géza Kertész e István Tóth: resistere all’abisso

Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, Géza Kertész e István Tóth si sarebbero ricordati di quel pomeriggio in cui si erano conosciuti. Correva l’anno 1920, la guerra era da poco terminata, e l’Ungheria era un paese nuovo e indipendente. I nazionalisti di Miklós Horthy erano usciti vincitori dal conflitto interno contro i comunisti, instaurando un governo autoritario che vedeva nel calcio un grande strumento di affermazione politica a livello internazionale. Kertész e Tóth si erano trovati a giocare assieme nella squadra del Ferencváros, la squadra della piccola borghesia conservatrice di Budapest: Tóth, maggiore di tre anni, era il vero asso della squadra, a dispetto del fisico ben poco atletico, mentre Kertész era appena arrivato dal BTC Budapest.

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Evald Mikson, il portiere che divenne un criminale di guerra

Quando David Oddsson si recò per la prima volta in visita in Israele, in qualità di Primo Ministro islandese, non si aspettava che qualcuno gli avrebbe chiesto di agire contro un criminale di guerra nazista che viveva tranquillo e beato nel suo paese. Era il 1992, e quelle erano storie che parevano appartenere a un altro mondo, lontanissimo. Se in Islanda nessuno ne parlava più, però, la stessa cosa non poteva dirsi in Israele: Efraim Zuroff, direttore del Centro Wiesenthal di Gerusalemme, consegnò al politico scandinavo un documento che conteneva tutte le accuse che da decenni l’organizzazione aveva raccolto contro Edvald Hinriksson, il cui vero nome era Evald Mikson. Da giovane era stato un calciatore in Estonia, e durante la guerra un collaborazionista dei nazisti.

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Non al denaro, non all’amore, ma al calcio

Fredda domenica di gennaio. Il Genoa riceve in casa, per la prima volta nella stagione, il Torino. I granata sono i campioni in carica e, adesso, di nuovo primi in Serie A, mentre quella di casa è un’onesta squadra di metà classifica. Anche se tra le mura amiche il Genoa è un avversario molto ostico: in stagione ha bloccato sullo 0-0 l’Inter, battuto 1-0 la Juventus, e umiliato la Roma per 3-0. Li allena una leggenda come William Garbutt, che tra gli anni Dieci e Venti ha portato i rossoblù a vincere tre scudetti, e in campo c’è un terzetto sudamericano temibile: il mediano Miguel Ortega dal Paraguay, e in avanti gli argentini José Macrì e soprattutto Juan Carlos Verdeal. Sugli spalti di Marassi, invece, tra la folla c’è un uomo distinto di nome Giuseppe De André, assieme ai suoi due figli, Mauro, di 10 anni, e Fabrizio, di 6.

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Reinaldo, il pugno della Pantera Nera contro i dittatori

C’era una nuova potenza, nel calcio brasiliano. L’Atlético Mineiro di Belo Horizonte era sempre stato una squadra di secondo piano nel panorama nazionale, e dagli anni Sessanta aveva anche perso il predomonio locale nel campionato Mineiro a favore del Cruzeiro. Ma ora le cose stavano cambiando: dopo che nel 1971 Telê Santana aveva condotto il Galo a vincere il suo primo titolo brasiliano, le ambizioni del club erano cresciute e adesso, sei anni dopo, molti erano convinti che i ragazzi ora allenati dall’ex-tecnico delle giovanili Barbatana potessero replicare l’impresa. L’Atlético Mineiro era una squadra molto giovane che praticava un calcio offensivo e spattacolare, che nessuno riusciva a battere, e che era trascinata in attacco da un ventenne implacabile, José Reinaldo de Lima. Simbolo di un’intera generazione di ragazzi brasiliani ribelli, era tanto celebrato per ciò che faceva coi piedi quanto criticato per ciò che faceva con la mano, che a ogni gol si chiudeva in un pugno e si levava al cielo.

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Aveva ragione Paul Ince

Lui gioca a calcio, e sa da anni che nel suo mestiere bisogna prendersi gli applausi come i fischi. Ma c’è un limite che non può essere superato, che è quello della schifosa parola con la ‘n’ che centinaia di tifosi avversari gli riversano addosso. Così, Paul Ince si ferma e risponde con un applauso sarcastico ai sostenitori della Cremonese. L’arbitro, Graziano Cesari, gli va incontro e lo ammonisce: non si provocano i tifosi, dice il regolamento. “Penso che in Italia la Federazione dovrebbe prendere delle decisioni forti. – spiega Ince, intervistato dopo il match – Il rischio è che i giocatori di colore, e nel mondo ce ne sono tanti di bravi, abbiano dei dubbi a venire in Italia. Non sarebbe un bene per questo calcio”. È il 6 aprile 1996, e questo ragazzo inglese di 28 anni ha dato un allarme. Nessuno lo ascolterà.

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Il pallone nelle mani di Macron

“È una pessima idea politicizzare lo sport”. È iniziato così, con queste parole, il Mondiale di Emmanuel Macron, Presidente della Repubblica francese, parlando a margine di un incontro avvenuto a Bangkok il 17 novembre, tre giorni prima del calcio d’inizio del torneo. Ed è finito con lui in campo, un mese e un giorno dopo, a consolare Kylian Mbappé dopo la finale persa, e subito dopo negli spogliatoi a dire ai giocatori della Francia di essere orgogliosi per aver fatto sognare milioni di loro connazionali. Un video, per intenderci, che è stato reso pubblico dallo stesso Macron sui propri canali social ufficiali. Oggi, il Presidente francese rappresenta meglio di tutti l’ipocrisia dei politici che parlano di sport.

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2003, la scoperta del calcio in Qatar

Quando atterrò all’Aeroporto Internazionale di Doha, Gabriel Omar Batistuta probabilmente non ci pensava nemmeno al fatto di essere un pioniere, di stare scrivendo la Storia. Pensava piuttosto al contratto su cui aveva apposto la propria firma: 8 milioni di dollari in due anni dall’Al-Arabi, poco meno di quanto l’Arsenal offriva a Patrick Vieira, uno dei più forti centrocampisti al mondo. Batistuta grande lo era stato, ma la sua ultima stagione, tra Roma e Inter, aveva messo in luce come a 34 anni non fosse più un giocatore al livello della Serie A. Sarebbe potuto tornare romanticamente in Argentina, o avrebbe potuto cercare un buon contratto in Giappone o negli Stati Uniti, e invece aveva scelto il Qatar.

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Belounis, una storia di calcio e kafala in Qatar

L’Île-de-France è un nazione nella nazione, quell’area geopolitica che abbraccia Parigi e che da sola produce probabilmente più calciatori di talento di qualunque altra zona della Francia e alla pari di tanti veri e propri stati europei. Talmente tanti calciatori che non tutti riescono a sfondare in patria, e devono cercare fortuna all’estero, a volte anche in campionati di secondo piano. Inizia così il girovagare di Zahir Belounis, attaccante di origine algerina nato e cresciuto a Saint-Maur-des-Fossés – in una cittadina in cui circa il 15% della popolazione, quando lui era ragazzo, era composto da immigrati – che all’inizio degli anni Duemila ha iniziato a viaggiare tra le serie minori transalpine, poi in Malesia, Svizzera e infine Qatar. Si dice talvolta che il sogno di ogni nomade moderno sia la vita tranquilla dello stanziale: Belounis, in Qatar, finì per trovarsi costretto a rimanere.

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Fratello, dove sei?

Mancavano meno di venti minuti: Ardiles gli diede la palla e si buttò in area, pronto a chiudere l’uno-due. Invece Leopoldo Luque stoppò secco di destro, e la palla fece un saltello; quando alzò la testa, i difensori erano ancora troppo lontani: peggio per loro. Un rimbalzo, e poi premette il grilletto del suo piede. Baratelli volò come se l’avessero sparato da un cannone, e toccò terra stordito dal boato del Monumental: Argentina 2 – Francia 1. Con quella vittoria, l’Albiceleste era certa del passaggio del turno, anche se restava da decidere se sarebbe stata prima o seconda nel girone, nella terza sfida con l’Italia. Festeggiarono, e la mattina dopo Luque ricevette la visita dei famigliari – per sapere se si era fatto male seriamente al braccio durante la partita, pensò. Il padre e lo zio si avvicinarono scuri in volto. “Leo, il Chaco ha avuto un incidente e s’è ammazzato”.

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