I Lancieri dell’Asia

La squadra che aveva fatto innamorare l’Europa non c’èra praticamente più. Smantellata, dopo circa un lustro di successi in patria e in Europa. Era iniziato tutto nel 1973, quando Cruijff aveva raggiunto Michels a Barcellona e l’allenatore Kovács era passato a guidare la nazionale francese. Poi anche Neeskens era andato in Catalogna, Haan era passato all’Anderlecht, Blankenburg all’Amburgo e Rep al Valencia. Nonostante l’arrivo del bomber Ruud Geels dal Club Brugge, nel 1974 l’Ajax aveva chiuso senza trofei per la prima volta dopo cinque anni, e anche la stagione seguente non avrebbe detto nulla di diverso. Il ciclo del totaalvoetbal era finito, e i Lancieri dovevano andare a caccia di nuovi talenti su cui costruire il proprio futuro. Nessuno si poteva aspettare che la squadra che aveva rivoluzionato il calcio mondiale sarebbe ripartita da due ragazzi che affondavano le proprie radici nell’Estremo Oriente.

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Jeppson, la stella milionaria e il sogno politico di Achille Lauro

La cifra fa venire il capogiro: 105 milioni di lire complessivi, di cui 75 all’Atalanta e 30 al giocatore. Soprattutto perché in Italia si starà pure iniziando a parlare di “miracolo economico”, ma gran parte della popolazione è ancora molto povera, la ricostruzione del dopoguerra non è ancora terminata, e al Sud la situazione è anche più problematica. Il suo nome è Hans Hasse Jeppson, è un attaccante scandinavo di 27 anni e in patria la gente lo chiama Guldfot, “piede d’oro”. La sorpresa è ancora più grande perché Jeppson non arrivà in una delle grandi del campionato, come l’Inter o la Juventus, ma nel Napoli, che solo due anni prima veniva nuovamente promosso in Serie A e ha tradizione abbastanza modesta nel calcio italiano. Ma sotto questo clamoroso colpo di mercato si estendono radici politiche che affiorano in maniera abbastanza evidente dal terreno delle trattive.

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La vita oltre la guerra: la storia di Aleksandar Đurić

Il kayak non è certo uno degli sport più seguiti al mondo, ma per gli appassionati, nel 1987, c’era un nome che iniziava a farsi largo, attirando l’attenzione di molti: Aleksandar Đurić. Era un ragazzo di 17 anni di un villaggio della Bosnia che due anni prima aveva conquistato il titolo juniores jugoslavo, e in quel momento era il numero 8 al mondo. Flashforward: 20 anni dopo. Lo stesso Aleksandar Đurić esordiva per la prima volta con una rappresentativa nazionale, ma stavolta non si trattava di kayak bensì di calcio, e la selezione non era bosniaca o comunque balcanica, ma quella di Singapore. Nel corso di due decenni, il mondo aveva sconvolto la sua vita, prima ancora che la sua carriera sportiva.

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Il saluto di Mark Bosnich

Ci sono occasioni che non ci si può lasciar sfuggire. Diventare un giocatore del Manchester United, fresco vincitore della Champions League, è una di queste, e il prestigio di questa chiamata è accresciuto dal fatto che i Red Devils ti vogliono per ereditare la storica maglia di Peter Schmeichel. Il danese, a 36 anni, ha deciso di trasferirsi in Portogallo allo Sporting Lisbona, e il suo trono è rimasto vacante. Mark Bosnich, 27 anni, è l’uomo scelto per prenderne il posto: un evento storico non solo per lui ma anche per tutto il misconosciuto calcio australiano. Viene da sette stagioni di buon livello all’Aston Villa, dopo che proprio lo United lo aveva portato in Inghilterra, ma il suo acquisto suscita alcuni malumori nella tifoseria. Su Bosnich, infatti, grava il sospetto di simpatie naziste.

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Géza Kertész e István Tóth: resistere all’abisso

Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, Géza Kertész e István Tóth si sarebbero ricordati di quel pomeriggio in cui si erano conosciuti. Correva l’anno 1920, la guerra era da poco terminata, e l’Ungheria era un paese nuovo e indipendente. I nazionalisti di Miklós Horthy erano usciti vincitori dal conflitto interno contro i comunisti, instaurando un governo autoritario che vedeva nel calcio un grande strumento di affermazione politica a livello internazionale. Kertész e Tóth si erano trovati a giocare assieme nella squadra del Ferencváros, la squadra della piccola borghesia conservatrice di Budapest: Tóth, maggiore di tre anni, era il vero asso della squadra, a dispetto del fisico ben poco atletico, mentre Kertész era appena arrivato dal BTC Budapest.

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Evald Mikson, il portiere che divenne un criminale di guerra

Quando David Oddsson si recò per la prima volta in visita in Israele, in qualità di Primo Ministro islandese, non si aspettava che qualcuno gli avrebbe chiesto di agire contro un criminale di guerra nazista che viveva tranquillo e beato nel suo paese. Era il 1992, e quelle erano storie che parevano appartenere a un altro mondo, lontanissimo. Se in Islanda nessuno ne parlava più, però, la stessa cosa non poteva dirsi in Israele: Efraim Zuroff, direttore del Centro Wiesenthal di Gerusalemme, consegnò al politico scandinavo un documento che conteneva tutte le accuse che da decenni l’organizzazione aveva raccolto contro Edvald Hinriksson, il cui vero nome era Evald Mikson. Da giovane era stato un calciatore in Estonia, e durante la guerra un collaborazionista dei nazisti.

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Non al denaro, non all’amore, ma al calcio

Fredda domenica di gennaio. Il Genoa riceve in casa, per la prima volta nella stagione, il Torino. I granata sono i campioni in carica e, adesso, di nuovo primi in Serie A, mentre quella di casa è un’onesta squadra di metà classifica. Anche se tra le mura amiche il Genoa è un avversario molto ostico: in stagione ha bloccato sullo 0-0 l’Inter, battuto 1-0 la Juventus, e umiliato la Roma per 3-0. Li allena una leggenda come William Garbutt, che tra gli anni Dieci e Venti ha portato i rossoblù a vincere tre scudetti, e in campo c’è un terzetto sudamericano temibile: il mediano Miguel Ortega dal Paraguay, e in avanti gli argentini José Macrì e soprattutto Juan Carlos Verdeal. Sugli spalti di Marassi, invece, tra la folla c’è un uomo distinto di nome Giuseppe De André, assieme ai suoi due figli, Mauro, di 10 anni, e Fabrizio, di 6.

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Reinaldo, il pugno della Pantera Nera contro i dittatori

C’era una nuova potenza, nel calcio brasiliano. L’Atlético Mineiro di Belo Horizonte era sempre stato una squadra di secondo piano nel panorama nazionale, e dagli anni Sessanta aveva anche perso il predomonio locale nel campionato Mineiro a favore del Cruzeiro. Ma ora le cose stavano cambiando: dopo che nel 1971 Telê Santana aveva condotto il Galo a vincere il suo primo titolo brasiliano, le ambizioni del club erano cresciute e adesso, sei anni dopo, molti erano convinti che i ragazzi ora allenati dall’ex-tecnico delle giovanili Barbatana potessero replicare l’impresa. L’Atlético Mineiro era una squadra molto giovane che praticava un calcio offensivo e spattacolare, che nessuno riusciva a battere, e che era trascinata in attacco da un ventenne implacabile, José Reinaldo de Lima. Simbolo di un’intera generazione di ragazzi brasiliani ribelli, era tanto celebrato per ciò che faceva coi piedi quanto criticato per ciò che faceva con la mano, che a ogni gol si chiudeva in un pugno e si levava al cielo.

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Aveva ragione Paul Ince

Lui gioca a calcio, e sa da anni che nel suo mestiere bisogna prendersi gli applausi come i fischi. Ma c’è un limite che non può essere superato, che è quello della schifosa parola con la ‘n’ che centinaia di tifosi avversari gli riversano addosso. Così, Paul Ince si ferma e risponde con un applauso sarcastico ai sostenitori della Cremonese. L’arbitro, Graziano Cesari, gli va incontro e lo ammonisce: non si provocano i tifosi, dice il regolamento. “Penso che in Italia la Federazione dovrebbe prendere delle decisioni forti. – spiega Ince, intervistato dopo il match – Il rischio è che i giocatori di colore, e nel mondo ce ne sono tanti di bravi, abbiano dei dubbi a venire in Italia. Non sarebbe un bene per questo calcio”. È il 6 aprile 1996, e questo ragazzo inglese di 28 anni ha dato un allarme. Nessuno lo ascolterà.

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Il pallone nelle mani di Macron

“È una pessima idea politicizzare lo sport”. È iniziato così, con queste parole, il Mondiale di Emmanuel Macron, Presidente della Repubblica francese, parlando a margine di un incontro avvenuto a Bangkok il 17 novembre, tre giorni prima del calcio d’inizio del torneo. Ed è finito con lui in campo, un mese e un giorno dopo, a consolare Kylian Mbappé dopo la finale persa, e subito dopo negli spogliatoi a dire ai giocatori della Francia di essere orgogliosi per aver fatto sognare milioni di loro connazionali. Un video, per intenderci, che è stato reso pubblico dallo stesso Macron sui propri canali social ufficiali. Oggi, il Presidente francese rappresenta meglio di tutti l’ipocrisia dei politici che parlano di sport.

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