Non sapremo mai se lui avvertisse una qualche contraddizione, anche solo un piccolo fastidio, sapendo che stava per andare a lavorare per uno dei più ricchi imprenditori italiani. Possiamo immaginare che avesse ormai da tempo imparato a separare l’esigenza di una carriera felice e di successo dal suo retroterra politico, che infatti rimase sempre piuttosto segreto. Nell’estate del 1960, Helenio Herrera Gavilán atterrava a Milano per andare ad allenare l’Inter, apprestandosi a dare vita a una delle più grandi squadre di tutti i tempi. Sarebbe stata una strada lunga e tortuosa, che l’avrebbe costretto a rivedere molti dei suoi principi di gioco, ma ormai il Mago aveva imparato che la vita è fatta di compromessi. Non male, comunque, per il figlio di un immigrato anarchico in esilio in un altro continente.
Dovevano essere i primi del Novecento. Paco Herrera e Maria Gavilán erano una giovane e povera coppia andalusa, lui falegname e lei donna delle pulizie, che era appena sbarcata a Buenos Aires. Ufficialmente immigrati, come ce n’erano tanti; tecnicamente esuli, perché Paco era un anarchico: l’Andalusia di inizio secolo era una delle grandi patrie dell’anarchismo europeo, con un movimento fortemente radicato all’interno della vasta popolazione contadina e che già aveva condotto ad alcune rivolte popolari. La monarchia borbonica addossava agli anarchici andalusi la responsabilità della crescente instabilità politica nel Paese, denunciando l’esistenza di una fantomatica organizzazione criminale e terrorista – la Mano Negra – da agitare come sparaucchio davanti alla popolazione: nel 1884, sette anarchici vennero condannati a morte tramite garrota nella piazza centrale di Jerez de la Frontera, in seguito a un processo farsa. Qualche decennio dopo, il clima non era migliorato, e la repressione borbonica aveva convinto Paco e Maria a fare i bagagli ed emigrare in Argentina.
La loro nuova casa si chiamava Palermo, il barrio popolare nel nord-est di Buenos Aires che era divenuto un luogo di rifugio per tanti esponenti della sinistra radicale europea. Lì, nel 1910, era nato loro figlio Helenio. Non che l’Argentina fosse il Paradiso in Terra, chiariamoci: il governo conservatore, sentendosi sempre più minacciato dai movimenti operai, socialisti e anarchici – di cui sicuramente gli Herrera facevano parte – aveva inasprito la repressione politica. Così, nonostante nel 1916 i radicali progressisti di Hipólito Yrigoyen vincevano le elezioni inaugurando un’era di riforme sociali, la famigliola andalusa partì nuovamente, subito dopo la fine della guerra in Europa, stavolta in direzione del Marocco. Casablanca, dove si stabilirono, era una città portuale che stava vivendo un grande boom economico, un milieu cosmopolita e in espansione: berberi, arabi, portoghesi, spagnoli, italiani e francesi affollavano le sue strade, attirati dalle grandi possibilità che offriva.
Per integrarsi più rapidamente, mentre ancora imparava il francese, Helenio si affidò al linguaggio universale del calcio, e subito entro nei ragazzi del Racing Casablanca, che in quel momento era la principale squadra della regione. Le sue origini argentine lo rendevano un oggetto calcistico particolarmente curioso, ma aveva poco della fama estrosa che la sua origine si portava appresso: non era certo elegante come Adolfo Baloncieri, l’asso del Torino che si era formato a Rosario, ma aveva un fisico robusto che lo rendeva un valido difensore centrale. Al punto che, un giorno che era appena maggiorenne, venne notato da un osservatore in visita dalla Francia, che lo raccomandò al Club Français di Parigi. E così, il giovane figlio degli Herrera tornava in Europa, in un Paese sicuramente più liberale di quello da cui erano fuggiti vent’anni prima i genitori, per inseguire una vita che forse avrebbe potuto diventare meno misera di quanto un umile ragazzo proletario di Casablanca potesse sperare.

Sarebbe inutile stare a raccontare per filo e per segno la sua esperienza da calciatore in Francia, anche perché se ne sa poco. L’unica cosa da dire è che, nell’inseguire il suo sogno di libertà e stabilità, Helenio Herrera si ritrovò senza volerlo sotto i bombardamenti di Parigi, calciatore sul viale del tramonto in un Paese occupato dai nazisti. Non sappiamo come passò quegli anni, lui che comunque era pur sempre figlio di suo padre; un suo compagno di squadra, con cui aveva giocato per un poco nei primi anni Quaranta al Red Star, era Rino Della Negra, giovane attaccante e operaio figlio di immigrati italiani, che sotto l’occupazione decise di darsi alla macchia e divenire partigiano, fino a che non venne catturato e fucilato nel febbraio del 1944. È bello pensare che, una volta finita la guerra, Helenio Herrera sia passato almeno una volta a lasciare dei fiori sulla sua tomba, presso il cimitero d’Ivry.
Ma la verità è che le cose più importanti chiaramente le fece dopo la fine della guerra, quando nel 1945 venne chiamato ad allenare una delle squadre in cui aveva passato più tempo da giocatore, lo Stade Français. I rossoblu sognavano di salire in prima divisione e di mettersi alle spalle gli anni difficili del conflitto: Herrera colse al volo l’occasione per dare alla squadra un gioco che era l’esatto opposto di quello che lui aveva praticato da ragazzo, invece che rude e fisico sarebbe stato fluido e tecnico. Una cosa che gli riuscì anche piuttosto facile, potendo contare su un fenomeno come Larbi Ben Barek in regia; che era pure un suo concittadino, anche lui di Casablanca e anche lui straniero in terra straniera. Il loro sodalizio consentì allo Stade Français di raggiungere una straordinaria semifinale di Coppa di Francia e la promozione nella massima serie al loro primo anno. Nelle due stagioni successive, forte anche dell’aggiunta in attacco dell’ungherese István Nyers, lo Stade Français si piazzò due volte al quinto posto in classifica.
Perché, nel 1948, sentisse che la Francia gli stava stretta e che dovesse trasferirsi in Spagna, probabilmente è destinato a restare un altro mistero della vita di Herrera. Forse avvertiva il bisogno di ricollegarsi con la terra dei propri genitori, sebbene questa in quel momento si trovasse stretta sotto una feroce dittatura fascista. Forse, credeva che il progetto dello Stade Français fosse ormai naufragato, dopo le cessioni di Ben Barek e Nyers. Sta di fatto che a un certo punto passò i Pirenei e si accasò brevemente al Real Valladolid. Poi, nel 1949, proprio il figliol prodigo Ben Barek fece il suo nome ai dirigenti dell’Atlético Madrid, e si ritrovò in una delle squadre più ambiziose di Spagna. I suoi Colchoneros furono di fatto la prosecuzione del sogno interrotto dello Stade Français, avendo in rosa, oltre al talento sopraffino di Ben Barek, anche un portiere eccezionale come Marcel Domingo e un gran centrocampista come Henry Carlsson, entrambi lanciati da Herrera in Francia. Arrivarono subito due scudetti, e poi una Coppa Eva Duarte, fino a che nel 1952 Herrera non decise di cambiare aria.
A questo punto, la sua carriera si ritrovò un po’ in una palude, ristagnando tra Malaga, Deportivo La Coruña, Siviglia (dove comunque fece una finale di coppa nazionale) e Belenenses (dove poté allenare il grande Matateu), quindi nel 1958 firmò col Barcellona. Si ritrovò tra le mani uno straordinario ricettacolo di talento che aveva solo bisogno di una mente in grado di organizzarlo: un portiere come Antonio Ramallets, Joan Segarra a reggere la difesa, e poi dei fenomeni in attacco come Ramón Villaverde, Evaristo de Macedo, Eulogio Martínez e ovviamente il divino László Kubala. Per completare l’opera, Herrera non dovette far altro che accentrare tutta la manovra nei piedi del giovane regista Luisito Suárez, che aveva conosciuto pochi anni prima a La Coruña, e il gioco era fatto: il Barcellona risorse da cinque anni di buio, conquistando subito una Coppa delle Fiere e poi, con l’aggiunta prima di Sándor Kocsis e poi di Zoltán Czibor, mise in bacheca due scudetti e una seconda Coppa delle Fiere.

Il Barcellona di Helenio Herrera era divenuto la prima squadra a fermare il Grande Real Madrid che in quegli anni sbriciolava avversari in giro per l’Europa, e che si era trasformato bene o male nel simbolo del regime franchista (non foss’altro per le note simpatie politiche del suo presidente Santiago Bernabéu). Per cui, nel sottobosco della debole ma ancora viva opposizione alla dittatura, specialmente nella Catalogna che era stata una delle roccaforti della Repubblica, il Barcellona di Herrera andava assomigliando a qualcosa di più di una squadra di calcio: era una forma di resistenza. E anche se nessuno lo sapeva, l’artefice di quel capolavoro era un cinquantenne anarchico che aveva girato mezzo mondo: più o meno consapevole che fosse, aveva posato la sua pietra nelle fondamenta della rivoluzione.
Nell’estate del 1960, gli screzi con la prima donna Kubala avevano infine convinto il Mago ad accettare la proposta dell’Inter del petroliere Angelo Moratti, e trasferirsi in Italia. La rivoluzione cambiava casa e obiettivi, ora molto più sportivi che politici: spodestare Juventus e Milan dal trono della Serie A. Durante la sua lunga esperienza in Italia, per la quale è oggi molto più ricordato che per tutto quanto avvenuto prima, Helenio Herrera non parlò mai di politica, mantenendo sempre il suo cortese riserbo. Quando morì, nel 1997 a Venezia, lo seppellirono nel settore evangelico del cimitero monumentale di San Michele, perché aveva sempre detto che gli piaceva quell’isola, e quello era l’unico modo per lasciare i suoi resti a riposare lì: non aveva mai voluto battezzarsi e, fino all’ultimo istante di vita, era stato un ateo convinto. Tempo dopo, a una radio spagnola, sua moglie Fiora Gandolfi rivelò: “Helenio, come suo padre, era un anarchico”.
Fonti
–GUTIÉRREZ MOLINA José Luis, Andalucía y el anarquismo (1868-1936), Revista Ayer
–HAUGSTAD Thore, The incomparable legacy of Helenio Herrera, These Football Times
–La vedova Herrera sulla tomba: «Helenio dimenticato da tutti», Il Corriere Adriatico
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