Da Rovigo all’Europa: la dimenticata storia della riapertura delle frontiere in Serie A

Nel 1973, un’avvocata di nome Wilma Viscardini presenta alle autorità competenti di Rovigo, una cittadina di 50.000 abitanti nel Veneto, una denuncia contro Mario Mantero, imprenditore locale e presidente della squadra di calcio cittadina, all’epoca militante in Serie D. Mantero deve dei soldi a Gaetano Donà, un signore padovano – peraltro marito di Viscardini – che lavora a Bruxelles presso il Segretariato generale della Comunità Economica Europea. È una faccenda di poco conto, ovviamente, ma quando tre anni dopo il giudice si ritroverà a dover prendere una decisione, si renderà conto che la questione è ben più grande delle sue competenze, e dovrà chiedere l’intervento della Corte di Giustizia Europea. Da questa quisquilia, si innescherà un effetto domino che cambierà per sempre la storia del calcio in Italia.

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Il calcio italiano ha dimenticato il 25 aprile

Chi giovedì scorso ha dato un’occhiata sui social potrebbe aver notato che praticamente tutti i club portoghesi hanno pubblicato qualcosa per celebrare il Dia da Liberdade, il giorno della caduta del regime fascista di Salazar, il 25 aprile 1974. Il cinquantennale della fine della dittatura è chiaramente un evento speciale, ma in realtà ogni anno le socità lusitane non mancano di sottolineare questa ricorrenza. Il Benfica, il Porto, lo Sporting, e poi anche tutte le altre squadre anche meno in primo piano: tutte partecipano alla memoria del giorno della democrazia in Portogallo. La fine del fascismo in Portogallo cade, com’è noto, nello stesso giorno di quella italiana, dove la liberazione dal nazifascismo è avvenuta però 29 anni prima. Eppure, in Italia praticamente nessuna società di calcio professionistico sembra avvertire il bisogno di ricordare quello che è stato un momento fondamentale per la storia del nostro paese, e anche per il nostro calcio.

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La Rai contro Carosio: storia di un insulto razzista in diretta

L’Italia farebbe meglio a vincerla, questa partita. Anche perché l’avversario è molto più che abbordabile: Israele, all’esordio ai Mondiali, è una squadra modesta, specialmente di fronte ai campioni d’Europa in carica. Eppure è ancora 0-0, stesso risultato che si sta verificando anche a Puebla tra Svezia e Uruguay, che in virtù della differenza reti favorevole ai sudamericani piazza gli Azzurri come secondi nel girone. L’Italia, in realtà, in vantaggio ci andrebbe anche: Riva serve un cross per Burgnich che colpisce di testa e batte Vissoker, ma è in fuorigioco. E poi di nuovo un cross, alla mezz’ora del secondo tempo, e stavolta a staccare di testa c’è proprio Riva, che con una frustata mette nuovamente alle spalle del portiere israeliano. L’arbitro brasiliano De Moraes convalida, ma il guardalinee etiope Sejum Tarekegn alza la bandierina: non è gol nemmeno stavolta. Poi, però, accade qualcos’altro: non qualcosa che si vede, ma che si sente. Carosio, la voce storica del calcio italiano, ha pronunciato il primo insulto razzista della storia della nostra televisione.

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Non saremo razzisti, ma ci proviamo con tutto noi stessi

Il caso tra Acerbi e Juan Jesus segnerà probabilmente un prima e un dopo nel rapporto tra il calcio italiano e il razzismo. Quale sarà la decisione del Giudice Sportivo, attesa già nella prossima settimana, le conseguenze sono probabilmente prevedibili: in caso di condanna, gli innocentisti quasi certamente peroreranno la causa del difensore nerazzurro paventando o complotti anti-Inter o la solita “dittatura del politicamente corretto”; in caso di assoluzione, sarà difficile, dopo quello che è circolato sui social, lavare via dal giocatore l’immagine del razzista impunito, considerati anche i precedenti non proprio edificanti del nostro calcio nel sanzionare simili comportamenti. E, ovviamente, se ci sarà la squalifica la carriera di Acerbi potrà dirsi finita: è già trapelato che l’Inter potrebbe licenziarlo, di sicuro non verrà portato agli Europei, e a 36 anni gli converrà ritirarsi e lasciar calmare le acque, nella speranza di poter rientrare nell’ambiente in un prossimo futuro.

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“Il calcio come esperienza religiosa”: un incantesimo del calcio italiano

Giochiamo a carte scoperte: nelle recensioni non si fa mai, ma ogni tanto sarebbe bello se il recensore spiegasse il motivo per cui ha deciso di approcciarsi al libro di cui sta scrivendo. Il primo input alla lettura di Il calcio come esperienza religiosa di Andrea Novelli (Ultra Sport, 2023) mi è arrivato dal titolo, che era quasi identico a quello di un saggio di Marc Augé del 1982 (Football. Il calcio come fenomeno religioso, edito in Italia da EDB nel 2016), di cui avevo già discusso in passato. Siccome i legami tra calcio e religione su uno degli aspetti del pallone che ritengo più interessanti e ancora troppo superficialmente conosciuti, il libro di Novelli mi aveva subito attirato, e avevo così completamente ignorato il suo sottotitolo fino a che non mi sono trovato tra le mani l’opera stessa: 19 aprile 1989, il giorno che ha cambiato la storia del calcio italiano.

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Che cos’è un tifoso: “A guardia di una fede”

C’è qualcosa di incredibilmete fotogenico, in Claudio Galimberti, più comunemente noto come il “Bocia”, l’ultras più conosciuto e discusso della storia italiana. Paradossale, se pensiamo che la sua fama se l’è conquistata tutta sul campo, non certo grazie ai media. In un’epoca in cui il calcio entrava nel business neoliberista e nella sua fase iper-mediatizzata, lui è riuscito a guadagnarsi l’ostinata fama del ribelle proprio là in quel luogo attorno al quale sembra ruotare tutta la sua esistenza, lo stadio di Bergamo. A guardia di una fede, il documentario di Andrea Zambelli presentato negli scorsi giorni, non è però una biografia di Galimberti, ma uno spaccato del tifo dell’Atalanta nella sua epoca d’oro. Una storia di tifosi, città e polizia che diventa emblematica non solo per il suo eccezionale centro di gravità – il Bocia, appunto – ma anche perché in questi anni, i suoi anni, Bergamo e l’Atalanta sono divenute protagoniste della cronaca, nel bene e nel male.

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Il caso Demba Seck

Un giovane calciatore di Serie A, due denunce, un magistrato che potrebbe aver coperto il giocatore per ragioni di tifo, la totale indifferenza del suo club e delle istituzioni calcistiche italiane, i discorsi e le iniziative di facciata contro la violenza sulle donne. Il caso di Demba Seck, 22enne attaccante del Torino accusato di revenge porn e minacce, è un altro episodio emblematico della cultura dello stupro che pervade il mondo del calcio, che soprattutto in Italia germoglia in un sistema del tutto incapace di accorgersene, tantomeno di affrontare qualsivoglia tematica sociale. Come un anno fa con il caso di Manolo Portanova, anche oggi si è deciso di scrivere un articolo per approfondire una vicenda ancora non abbastanza nota.

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L’anglo-italiano: una storia del calciomercato

6-0. È la peggior sconfitta della storia inglese. Per gli italiani, che sono campioni del mondo in carica, è una vittoria storica, che vendica il 2-3 subito a Wembley nel 1934. Ovviamente è tutta una fantasia: ad affrontarsi non sono state due nazionali, ma delle selezioni locali, da una parte un gruppo di soldati britannici e dall’altra dei ragazzi di Soverato, vicino Catanzaro. I soldati sono arrivati da qualche mese: nell’estate del 1943 hanno iniziato a bombardare la zona, per neutralizzare l’insidiosa batteria di contraerea locale, poi sono sbarcati e hanno occupato la città. La guerra si sta mettendo abbastanza bene, dopo l’8 settembre l’Italia ha abbandonato la Germania e si è ritirata dal conflitto. Soverato adesso è già nelle retrovie, e il calcio è il modo migliore per passare il tempo. In questa zona così remota del Sud Italia, i soldati alleati hanno trovato un ragazzo di 18 anni che gioca in porta e che sa parlare inglese, che ha fatto da tramite per organizzare la partita. Il suo nome è Gigi Peronace, e mentre la guerra si avvia verso la fine lui inizia a porre le basi per rivoluzionare il mondo del calcio.

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La protesta solitaria della Lazio contro il regime franchista

Cinque colpi di fucile risuonano in tre diversi angoli della Spagna, in una mattina di fine settembre. A Hoyo de Manzanares, piccola località rurale a nord di Madrid, la Guardia Civil fucila tre ragazzi – José Luis Sánchez-Bravo, José Humberto Baena Alonso e Ramón García Sanz – membri dell’organizzazione comunista Frente Revolucionario Antifascista y Patriota. Contemporaneamente, presso il cimitero di Cerdanyola, altra cittadina ma a nord di Barcellona, i proiettili abbattono Juan Paredes Manot, detto Txiki, militante di ETA. Un suo compagno, Ángel Otaegui Echeverría, veniva fucilato nello stesso momento in un carcere di Villalón, piccola località a nord di Valladolid. Nell’Europa del 1975, la Spagna fascista è l’unico paese in cui ancora si eseguono condanne a morte contro gli oppositori politici. La notizia suscita sdegno in tutto il mondo, nelle organizzazioni di sinistra e non solo, fino ad arrivare a Roma, nella sede di un club di calcio.

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