Nel segno di Keïta

Si dice che Keïta significhi “prendere l’eredità”: è un nome potente, che deriva dal mondo mitico e aristocratico dell’antico impero del Mali, una delle più grandi potenze della storia africana. Il suo fondatore, Sundjata Keïta, nacque storpio, imparò a camminare da solo, e infine divenne una leggenda. La sua stirpe divenne una leggenda: tra i suoi eredi più recenti c’è Salif Keïta, uno dei più noti cantanti africani al mondo. Curiosamente, tre anni prima di lui, a Bamako nasceva un altro Salif Keïta, senza alcun legame di parentela come il primo mansa del Mali, ma che a suo modo sarebbe divenuto lo stesso un sovrano, anche se stavolta nel calcio: nel 1970, sarebbe stato il primo calciatore a ricevere il Pallone d’Oro africano.

Appena due anni prima, un colpo di stato aveva deposto un altro Keïta, Modibo, comunista e primo presidente del Mali indipendente, e al suo posto era ascesa la dittatura militare di Moussa Traoré. Ma nel 1967 Salif Keïta aveva lasciato la natia Bamako per Saint-Étienne, città della Loira che ospitava il più importante club del calcio francese, allenato dal maestro Albert Batteux e con in rosa uno dei più noti calciatori africani dell’epoca, l’algerino Rachid Mekhloufi. Il Saint-Étienne si stava imponendo come il dominatore del calcio transalpino, dal suo ritorno in prima divisione a inizio decennio, frutto delle ambizioni del ricco costruttore Roger Rocher. Ma al momento dell’approdo in squadra del maliano, nessuno si aspettava che si sarebbe trattato di uno dei più importanti colpi di mercato della storia dei Verts.

Keïta era arrivato in Francia nella maniera più rocambolesca possibile: era atterrato a Paris-Orly praticamente senza nulla, a parte le lettere inviategli dai dirigenti del Saint-Étienne, che lo invitavano a venire in Francia per un provino. Erano state quelle le uniche cose che aveva potuto mostrare al tassista trovato fuori dall’aeroporto, per convincerlo che aveva bisogno di raggiungere al più presto la sede della società, che però si trovava circa 500 km più a sud. Aveva solo 21 anni, ed era stato addocchiato mentre giocava nel Real Bamako da un franco-libanese di nome Charles Dagher, che viveva in Mali e aveva vari contatti con la dirigenza del Saint-Étienne. Dagher aveva spesso raccomandato al club di visionare il ragazzo, e alla fine i Verts avevano acconsentito, contattando Keïta per dirgli di volare in Francia per un provino. L’instabile situazione politica in Mali rendeva molto difficile lasciare il Paese legalmente, così dovette espatriare in Liberia per prendere un aereo da Monrovia, dove però era stato rapinato, restando solo con il biglietto pagatogli dal club francese.

Con non poco fastidio, il presidente del Saint-Étienne accettò di saldare il conto di 1.060 franchi con il tassista: un costo spropositato per un ragazzino che arrivava da una zona dimenticata dell’Africa e che aveva ancora tutto da dimostrare. Ma non appena Batteux aveva avuto la possibilità di schierarlo in campo, tutta la dirigenza aveva scoperto che l’investimento era valso la pena: Salif Keïta era una perla rara, un attaccante dalla tecnica innata e con una rapidità formidabile, capace non solo d’integrarsi alla perfezione con il gioco offensivo dei Verts, ma addirittura di farlo evolvere naturalmente in senso più verticale. Nel giro dei tre anni successivi, erano arrivati tre scudetti, due Coppe di Francia e tre Supercoppe. Un giorno, nel marzo 1971, una selezione di giocatori del Marsiglia e del Saint-Étienne sfidò allo Stade des Colombes il grande Santos di Pelé, e Keïta disputò una partita tale che alla fine Batteux disse: “Se fosse nato in un grande paese del calcio, sarebbe stato il nuovo Pelé”.

Al Saint-Étienne dal 1967 al 1972, con 142 gol in 186 partite Salif Keïta ha incarnato il periodo d’oro della squadra di Batteux. Nel 2013, è stato nominato ambasciatore a vita del club.

“Un grande paese del calcio”. Il Mali, all’epoca, era la periferia del football, perfino in Africa. L’intero continente stava ancora cercando di scrollarsi di dosso il passato coloniale e costruire una propria via politica e sportiva, ma il Mali era molto più indietro rispetto a nazioni come il Ghana, la Costa d’Avorio o lo Zaire. Pure del Senegal, che era nato come stato nel 1960 separandosi proprio dal Mali: mentre la patria di Keïta passava attraverso crisi economiche e politiche, il vicino occidentale fioriva sotto il governo di Léopold Sédar Senghor, mentre la Nazionale raggiungeva un sorprendente quarto posto nella Coppa d’Africa del 1965. Ma in quel momento nessuna Nazionale africana poteva schierare un giocatore come Salif Keïta, che faceva la differenza in uno dei massimi campionati europei. Le sue prestazioni con il Saint-Étienne ne facevano il più importante calciatore africano al mondo, forse addirittura il più importante di sempre fino a quel momento.

I primi anni Settanta sono stati il suo momento d’oro, iniziato con la conquista del Pallone d’Oro africano nel 1970, e proseguiti con la straordinaria stagione seguente, che lo vide lottare testa a testa con Josip Skoblar per la Scarpa d’Oro. Alla fine, lo jugoslavo del Marsiglia prevalse con 44 reti a 42, ma Salif Keïta divenne il primo calciatore con una nazionalità africana ad arrivare così in alto in una competizione individuale europea. La storia del calcio nel continente stava entrando in una nuova fase della sua storia, e oltre a questo la stella del Saint-Étienne stava mettendo il Mali sulle mappe, almeno su quelle del pallone. Nel 1972, fu il trascinatore assoluto della Nazionale allenata dal tedesco Karl-Heinz Weigang fino alla finale della Coppa d’Africa, persa contro il Congo-Brazzaville, nelle cui fila militava l’altro grande attaccante africano dell’epoca, François Mpélé dell’Ajaccio.

Raggiunto ormai il livello di una grande star internazionale, decise che meritava di più, innanzitutto a livello di stipendio, ma il presidente Rocher non la pensava allo stesso modo. A questo conflitto si aggiunse un problema legato al suo passaporto, dato che Rocher voleva fargli assumere la nazionalità francese per liberare un posto da straniero in rosa, mentre Keïta non aveva alcuna intenzione di farlo. Nell’estate del 1972, decise di rompere con il Saint-Étienne e trasferirsi all’Olympique Marsiglia, ma la dirigenza dei Verts si appellò alle autorità e riuscì a farlo squalificare per sei mesi. Rientrò nella seconda metà della stagione, in tempo per qualificare la squadra alla Coppa UEFA e rifilare una doppietta al suo vecchio club, condendo l’impresa con un gesto dell’ombrello rivolto al suo ormai ex-presidente Rocher. Ma la Francia gli stava stretta, e così pensò di passare il confine e di accordarsi col Valencia.

La situazione dei Blanquinegres non era semplice: il ciclo di Alfredo Di Stéfano, che aveva riportato il club al titolo nazionale nel 1971, era ormai al termine e la punta maliana era stata presa per rilanciare la squadra e riportarla a competere ai massimi livelli del campionato. Le cose, però, non andarono come sperato, a causa dei frequenti infortuni patiti da Keïta, di un atteggiamento tattico meno adatto alle sue doti, e alla scelta di farlo giocare da centravanti invece che da mezza punta. Nella Spagna del crepuscolo del Franchismo, inoltre, soffrì una certa mancanza di fiducia figlia di vecchi pregiudizi sui calciatori africani, che erano ben radicati anche all’interno dello spogliatoio del Valencia. Quino, suo compagno di squadra, arrivò a lamentarsi in un’intervista ad As dicendo: “Le altre squadre si sono tutte rinforzate, noi no, e anzi abbiamo un nero che non tocca palla!”.

A sinistra con la maglia del Valencia (34 gol in 76 presenze, dal 1973 al 1976), a destra con quella dello Sporting Lisbona (43 gol in 67 presenze, dal 1976 al 1979).

La maggior parte delle cose che potete leggere in giro su Salif Keïta riguarda la sua eccezionale carriera da calciatore, di vero pioniere del football africano alla conquista dell’Europa. Ma forse quella più realmente significativa riguarda ciò che ha fatto dopo, a partire da quando nel 1979 lasciò lo Sporting Lisbona – dove aveva vinto una Taça de Portugal – per trasferirsi negli Stati Uniti a giocare con il New England Tea Men e, contemporaneamente, studiare marketing e iniziare a lavorare in banca. Divenne un imprenditore, in particolare nel settore alberghiero, e uso i suoi guadagni per sostenere la crescita del calcio nel proprio Paese. Di fatto, dopo aver messo il Mali sulla mappa del pallone, lavorò per farcelo restare.

Nel 1994 fondò a Bamako una scuola al calcio all’avanguardia, tra le più progredite del continente, che presto divenne il centro nevralgico attorno a cui riorgranizzare la Federcalcio locale, che infatti nel 2005 venne affidata direttamente alla sua gestione. Si andava formando una nuova generazione di giovani talenti maliani, come Mamadou Diallo, Mahamadou Diarra, Cheik Diabaté e ovviamente Seydou Keïta, nipote di Salif Keïta, tutti emersi dalla sua scuola calcio a Bamako, la città da cui era dovuto fuggire per avere una speranza nel calcio. Nuove generazioni che, nel 2012 e nel 2013, permisero al Mali di chiudere due volte al terzo posto in Coppa d’Africa, ottenendo i migliori risultati dall’edizione del 1972.

Fonti

FAURE Anthony, Salif Keita, l’inoubliable Panthère noire, Le Parisien

GIRAUD David, Africa’s Football Legends: Salif Keita, The Africa Report

JUILLARD Patrick, Football, Salif Keita, la “panthère noire” de Bamako, Mondafrique

MAGALLÓN Fernando, ‘La perla negra de Mali’ no cuajó en el Valencia, AS

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