L’uomo ch’è venuto da lontano/ ha la genialità di uno Schiaffino/ ma religiosamente tocca il pane/ e guarda le sue stelle uruguaiane. – Paolo Conte
Siamo un paese di emigranti. Lo sappiamo tutti, anche se a molti spesso fa comodo dimenticarlo. Ci sono italiani di ogni nazionalità, sparsi in buona parte del mondo, figli di emigranti che, a volte, fanno anche il percorso all’indietro, e diventano emigranti per la seconda volta. Li chiamano oriundi, un termine dal suono latino che si usa per indicare qualcuno che “trae origine” dalla cultura e dalla nazione italiana; un termine bruttissimo che imbastardisce lo stupendo melting-pot di una persona che ha due o tre patrie diverse, riducendolo a una sola di esse.
Nel calcio si parla spesso di oriundi, specialmente quando un ct deve mettere assieme la rosa della nazionale per il prossimo appuntamento. Negli ultimi tempi, i nomi più gettonati sono stati quelli di Jorginho, Eder, Franco Vazquez, e Thiago Motta, sudamericani che per origine, per permanenza nel nostro paese, o per matrimonio, finiscono a ottenere la cittadinanza e diventano così eleggibili per la nazionale. E, ovviamente, ogni volta saltano fuori quelli per cui “l’Italia agli italiani” come Roberto Mancini, che nel 2015 se la prese con la convocazione di Eder nell’immediato post-partita di un Sampdoria-Inter in cui l’italo-brasiliano aveva segnato il gol decisivo per gli avversari, e in cui l’Inter del patriottico Mancini era scesa in campo con due giocatori italiani su undici. A Mancini si era poi subito accodato Andrea Mandorlini, per ricordarci che lui è “per gli italiani veri”. Tre anni dopo, Mancini siede sulla panchina azzurra e a quanto pare ha cambiato idea: nei suoi primi convocati per l’Italia figuravano ben due oriundi: i brasiliani Jorginho ed Emerson Palmieri.

E dire che l’uso massiccio degli oriundi in nazionale è opera del regime fascista: tralasciando Ermanno Aebi – primo oriundo de facto dell’Italia, che era svizzero per parte di padre, ma era nato a Milano e a calcio ha giocato sempre e solo con l’Inter, venendo naturalizzato nel 1920 – e il dimenticato Eugenio Mosso – l’attaccante argentino del Torino che disputò un’amichevole contro la Svizzera nel 1914 – su 58 oriundi della storia del calcio italiano, 27 hanno giocato tra gli anni Venti e Trenta. Di questi, cinque presero parte alla vittoria del Mondiale casalingo del 1934 (il brasiliano Amphiloquio Guarisi, che giocò solo una partita, e gli argentini Atilio José Demaria, Enrique Guaita, Luis Monti e Raimundo Orsi) e uno a quella del 1938 (l’uruguaiano Miguel Andreolo). Un altro, Renato Cesarini, lasciò un segno indelebile nella storia del calcio italiano, dando il nome al gol allo scadere.
Nel 1926, quando il regime ristrutturò il calcio italiano e inaugurò il professionismo, la Carta di Viareggio stabiliva un piano per la chiusura delle frontiere e la rigida italianizzazione di tutti i club del paese, da raggiungersi entro il 1928. Eppure, nel 1929 furono undici gli stranieri a sbarcare in serie A, proseguendo a ritmo regolare per tutto il decennio: tutti oriundi, nati all’estero ma di origine italiana; un’idea, pare, di Edoardo Agnelli, patron della Juventus. Gli oriundi, di fatto, trasformarono il calcio italiano in ciò che conosciamo oggi: mentre i club sudamericani venivano letteralmente saccheggiati, la Serie A cresceva in prestigio e spettacolo; nel 1934, le squadre argentine si rifiutarono di concedere i giocatori all’Albiceleste vicecampione del mondo, per paura che i rivali italiani approfittassero della trasferta per una nuova campagna di calciomercato, e l’Argentina disertò il Mondiale.

Se sotto il Fascismo gli oriundi erano ben visti, in quanto “italiani di ritorno” (un vanto del regime era anche quello di aver fatto tornare in Italia chi, sotto i precedenti governi, era stato costretto a emigrare), fu nel dopoguerra che iniziò a verificarsi un’inversione di rotta. Preda di un’improvviso rigurgito nazionalista sportivo – o forse puro campanilismo paranoico da tifoso – l’opinione pubblica italiana iniziò a convincersi che gli oriundi non fossero attaccati alla maglia italiana in quanto stranieri, e che quindi non s’impegnassero in campo. Come se un calciatore che, avendo liberamente scelto di giocare per l’Italia, scenda poi in campo deciso a perdere, a fare brutta figura, a prendersi gli insulti.
Il quartetto delle meraviglie composto da Pepe Schiaffino, Miguel Montuori, Dino Da Costa e Alcides Ghiggia fece parte della compaggine azzurra che tornò sconfitta da Belfast nel 1958, venendo eliminata per la prima volta dai Mondiali. Poi arrivò il periodo degli Angeli dalla faccia sporca Antonio Angelillo, Humberto Maschio e Omar Sivori, di Angelo Sormani e di José Altafini: ovvero, la clamorosa eliminazione dai Mondiali del 1962. Gli oriundi divennero il capro espiatorio per le delusioni azzurre, e furono banditi dalla nazionale; la teoria fu smentita quattro anni più tardi, quando una squadra “puramente italiana” finì maltratta dalla Corea del Nord, senza che stavolta ci fossero scorrettezze o arbitri permissivi di mezzo. Manco a dirlo, la Federazione reagì in maniera ancora più xenofoba: si vietò l’acquisto di qualsiasi giocatore straniero in Serie A.
Decenni più tardi, fu Mauro German Camoranesi a sfatare il tabù degli oriundi: nel suo match d’esordio, in amichevole a Genova, uno striscione recitava “Sì al Codino [Roberto Baggio, ndr], no all’argentino. Vergogna!”; pochi giorni prima, Francesco Toldo aveva salutato la convocazione dell’ala destra della Juventus chiarendo subito la sua posizione: “La nazionale agli italiani.” Tre anni dopo, Camoranesi vinceva il Mondiale da protagonista (il terzo vinto con gli oriundi in campo, su quattro) e, pur archiviando le polemiche sul suo conto, non riuscì a smentire l’antistorico pregiudizio verso i figli degli emigranti. Perché in Italia, lo straniero è sempre responsabile di tutti i mali, nel calcio e fuori.
Fonti
–AA VV, Oriundi: Una storia (quasi) italiana, Storie di Calcio
–AA VV, Tutti gli oriundi della Nazionale, Italia 1910
–ANTONELLI Filippo, Gli oriundi: una questione vecchia quanto la Nazionale, Polinice
–OLIVA Alessandro, Basta un Osvaldo per riaprire la querelle oriundi-Lega-Nazionale, Linkiesta
-VALERI Mauro, Che razza di tifo: Dieci anni di razzismo nel calcio italiano, Donzelli Editore
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