Abbattere il nazionalismo del calcio

La recente notizia della convocazione nell’Italia di Mateo Retegui (ma anche quella di Bruno Zapelli nell’U21) apre il campo a un riflessione sul senso dell’identità nazionale nel calcio di oggi, che può ovviamente interessare anche il mondo extra-campo. Il caso Retegui ha ovviamente generato le solite trite discussioni sugli oriundi, che fanno emergere come le nefaste scorie del nazionalismo ottocentesco continuino a infettare le nostre menti, sempre a rischio di evolversi verso conseguenze ben più drammatiche della polemica sportiva. Forse sarebbe ora di consegnare definitivamente al passato il naziolismo e tutti i suoi figli, e il calcio può essere un punto di partenza.

Calcio e multiculturalismo

Se c’è una cosa che il calcio di oggi può spiegarci bene è senz’altro che il nostro mondo è ormai innegabilmente a-nazionalistico. Gli stati esistono ancora, e con essi le federazioni, i campionati e le selezioni nazionali, ma lentamente si stanno scollando dalle vecchie idee di identià nazionale. L’immigrazione fa sì che oggi il guineense Ansu Fati possa essere una stella della Spagna, così come il mezzo senegalese Leroy Sané lo sia della Germania, giusto per fare due esempi. Le identità etniche (termine più corretto) mutano col tempo, e ciò non è un frutto (avvelenato, secondo la destra) della modernità, ma un fatto storico che si verifica da sempre. Gli italiani, così come sono stati concepiti nell’Ottocento, non esisterebbero senza la sovrapposizione di migrazioni millenarie, dagli indoeuropei all’espansione romana, dalle invasioni germaniche all’afflusso degli schiavi africani e asiatici del Rinascimento. Ogni migrazione rimescola e ridefinisce le identità, e così i celti diventano romani, che diventano longobardi, che diventano franchi, che diventano piemontesi, che diventano infine italiani, e che magari oggi si sentono anche un po’ europei.

La storia calcistica italiana è stata interessata soprattutto dal fenomeno migratorio di ritorno, quello dei già citati oriundi. Figli di immigrati in Sudamerica che venivano richiamati in Italia per giocare in Nazionale: furono fondamentali per costruire la grande Serie A, contribuendo alle ambizioni fasciste sul calcio, e fecero vincere due Mondiali all’Italia, prima di diventare sgraditi nel dopoguerra, accusati di mancanza di spirito patriottico e scarso impegno. È sempre interessante sottolineare come fu il nazionalismo fascista a dare grande impulso agli stranieri in nazionale (per scopi chiaramente utilitaristici), mentre fu nella prima epoca repubblicana che si bandirono prima gli oriundi dalla Nazionale e poi tutti gli stranieri dalla Serie A (1966).

Oggi, il calcio rappresenta molto bene un mondo che è indiscutibilmente multiculturale. E non vale solo per i paesi europei: il Marocco, con giocatori come lo spagnolo Hakimi o l’olandese Ziyech, ha raggiunto il quarto posto agli ultimi Mondiali. Dal Senegal dei primi anni Duemila, le nazionali africane hanno scelto di rinforzarsi attraverso i propri oriundi, giocatori nati e cresciuti in Europa come Riyad Mahrez, ma che non avendo trovato spazio nelle selezioni del Vecchio Continente possono optare per quelle d’origine dei genitori. Sempre più spesso, l’identità etnica non è più univoca, sia per ragioni di passaporto che, più semplicemente, per questioni culturali e scelte di vita: quanti giovani italiani si sono trasferiti a lavorare nel Regno Unito e oggi, magari dopo dieci anni, hanno a tutti gli effetti un’identità ibrida? Nessuno li obbliga a scegliere tra una nazionalità e l’altra, come avviene con gli sportivi, per cui la questione è sempre passata inosservata.

Pierre-Emerick Aubameyang, Pallone d’Oro africano nel 2015, è nato in Francia da padre gabonese e madre spagnola, e ha trascorso l’adolescenza in Italia. Dopo aver esordito con la selezione giovanile transalpina, ha optato per il Gabon.

Le nazionali come i club

Il caso del Marocco citato poco sopra è molto particolare. La Federcalcio nordafricana ha sviluppato un rete di scouting in Europa molto organizzata, che gli permette di individuare giovani talenti di origini marocchine da convincere a optare per i Leoni dell’Atlante. In questo processo, in realtà, l’identità nazionale gioca un ruolo determinante, ma è sotto gli occhi di tutti che il Marocco agisca in maniera non dissimile da quella di un club di calcio, che cerca di anticipare gli avversari (in questo caso, le nazionali europee) mettendo “sotto contratto” il prima possibile un grande talento. Questo, oggi, sta diventando un elemento molto presente nel calcio.

Di recente, anche le nazionali sudamericane hanno iniziato a seguire questa strada. Nel novembre 2021, a sorpresa il ct dell’Argentina Scaloni ha convocato Matías Soulé, 18enne attaccante delle giovanili della Juventus: Soulé, arrivato a Torino ancora minorenne, ha passaporto italiano e la Federcalcio di Buenos Aires era interessata a “bloccarlo” prima che potesse essere convocato dall’Italia. La stessa cosa è stata fatta l’anno seguente con Valentín Carboni dell’Inter, e attualmente è in atto una vera e propria disputa tra l’Albiceleste e la Spagna sulla stellina del Manchester United Alejandro Garnacho, nato e cresciuto a Madrid ma con passaporto argentino per parte di madre: ha giocato 3 partite con l’U18 delle Furie Rosse, e poi 5 con l’U20 argentina. La Federcalcio di Buenos Aires ha oggi una rete di scouting internazionale ben ramificata e “aggressiva”, come conferma in caso di Nicolò Meringolo, 16enne difensore della Juventus nato e cresciuto a Pinerolo, già nelle selezioni giovanili azzurre ma recentemente convocato dall’U15 argentina. All’ultimo Sudamericano U20, l’Albiceleste schierava lo spagnolo Nico Paz, ma poi c’erano anche la Colombia con l’inglese Alexei Rojas e l’Uruguay con lo spagnolo Álvaro Rodríguez.

L’Italia è la prima federazione europea che cerca di strappare dei giocatori a una sudamericana, invertendo la tendenza. Ma di certo non possiamo ignorare che questo “calciomercato delle nazionali” sia già presente all’interno dell’area UEFA. La Turchia ha spesso fatto ricorso a oriundi tedeschi e olandesi (Hakan Çalhanoğlu, Orkun Kökçü, Halil Dervişoğlu), ma anche selezioni più blasonate non sono immuni da questo fenomeno. Lo dimostra il caso di Jamal Musiala, nato in Germania ma cresciuto nel Regno Unito: ha iniziato a giocare nell’U15 dell’Inghilterra, poi si è trasferito all’U16 della Germania, poi ha cambiato idea ed è tornato a giocare per l’Inghilterra fino all’U21, e infine nel 2021 ha optato per la nazionale maggiore tedesca. La stessa Inghilterra è stata coinvolta in una disputa con l’Irlanda per Jack Grealish e Declan Rice, nati e cresciuti nel Regno Unito da immigrati irlandesi, che dopo una lunga trafila nelle giovanili dell’Éire hanno infine deciso di optare per i Three Lions. Aymeric Laporte, nato e cresciuto in Francia, dopo cinque anni nelle giovanili transalpine è diventato spagnolo nel 2021 grazie ai bisnonni baschi. L’Italia, da questo punto di vista, è rimasta finora molto indietro, anche a causa di una ignobile legge sulla cittadinanza, e si è lasciata scappare talenti come Kristjan Asllani e Yunus Musah.

Zidane Iqbal, astro nascente del Manchester United, è stato conteso tra la nazionale del Pakistan, terra d’origine del padre, quella dell’Iraq, terra d’origine della madre, e quella inglese, paese in cui è nato e cresciuto. A gennaio 2022 ha optato per l’Iraq.

L’identità nazionale non esiste

Riprendo in prestito, parafrasando leggermente, il titolo di un saggio di François Jullien (L’identità culturale non esiste, Einaudi, 2016) per arrivare al nocciolo della questione. Davanti a tutto il processo descritto fin qui, a molti tifosi potrebbe essere salito un certo fastidio per la totale arbitrarietà delle identità nazionali e, quindi, della composizione delle nazionali di calcio. Ci si potrebbe anche lamentare che, alla fine, i calciatori sono tutti mercenari che non “sentono” la maglia del paese che rappresentano, e che sono mossi unicamente da interessi economici o di carriera. Il punto che voglio sottolineare è che non solo in un certo senso ciò è proprio vero, ma che è anche giusto che sia così.

Sportivamente parlando, il calcio per selezioni nazionali è stato una deviazione rispetto alle origini della disciplina. Il calcio nasce come sport per club; le nazionali arrivarono solo in seguito e come diretta conseguenza della cultura nazionalista di fine Ottocento (come ho spiegato in un episodio del podcast, qui). Tutti volevano vedere il proprio paese rappresentato anche nel proprio sport preferito, così da poter dimostrare sul rettangolo verde la superiorità del proprio popolo sugli altri, in questa guerra simulata. Perché alla fine il nazionalismo è questo: i discorsi sull’identità, sul “sentirsi italiani” (o francesi, o argentini) sono solo favolette nate per convincere la gente a farsi ammazzare di buon grado nella prossima guerra. E su queste fantasie ancora oggi la gente di massacra, come vediamo quotidianamente: ci si ammazza per stabilire il confine geografico tra due nazionalità, usando come metro dei concetti convenzionali destinati a mutare nel tempo.

Ci si scandalizza dei “calciatori mercenari” (ovviamente un termine del gergo militare, che si riferisce a chi fa guerra per denaro invece che per amor patrio), quando in realtà è normale che sia così. Gioco per chi mi offre l’opportunità più vantaggiosa: la possibilità di vincere trofei e competere ad alti livelli, oppure quella di essere titolare, o più banalmente per un trattamento o rapporto personale migliore. Ed è una questione di scelte e opportunità di carriera (perché il calciatore è un lavoro, non una missione): nessuno chiama “mercenario” o “traditore” l’italiano che va a lavorare per l’azienda tedesca, paga le tasse lì e magari, dopo qualche anno, prende anche anche la cittadinanza. Coi calciatori, invece, ancora permane questo relitto culturale ottocentesco secondo cui gli sportivi “rappresentano la nazione” (e non tanto lo stato, si badi bene). Sono soldati incaricati di difenderci nella guerra simulata che chiamiamo sport. E proprio per questo ci sono ancora resistenze, nei casi più estremi, a vedere afrodiscendenti in maglia azzurra: perché, pur avendo il passaporto (concetto giuridico), non vengono ritenuti parte della nazione (concetto “di sangue”). È questo che i razzisti rinfacciano a Paola Egonu, per dire. È giunto il momento di chiudere i conti col nazionalismo, a partire dal mondo dello sport.

Per cui aboliamo le nazionali di calcio? No, non dico questo. Penso che le squadre nazionali siano un bello strumento per misurare un movimento sportivo, inteso come il progetto di una federazione (che a volte, ma non sempre, corrisponde a uno stato: basti pensare a Inghilterra, Scozia, Galles e Irlanda del Nord). Si potrebbe obiettare che la convocazione di un argentino che non ha letteralmente mai visto l’Italia, come Retegui, falsi i reali valori del movimento calcistico italiano, ma non sono d’accordo. Il lavoro di una Federcalcio non è strettamente legato a ciò che viene “cresciuto” nel proprio territorio. Se no, ad esempio, potremmo convocare anche gli italiani di seconda generazione ancora sprovvisti di cittadinanza, ma oggettivamente formati nel nostro sistema calcio. O, caso ancora più evidente, si dovrebbero assumere come commissari tecnici solo allenatori locali e non stranieri. Il valore di un movimento (ma, appunto, preferirei parlare del progetto di una federazione) è dato anche dalla capacità di scouting di talenti internazionali in possesso del giusto passaporto. Per superare la fase del calcio nazionalista, allora, è necessario questo cambio di prospettiva.

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5 pensieri riguardo “Abbattere il nazionalismo del calcio”

  1. Mi hai fatto molto riflettere su questo argomento, ed ammetto che, come dire, “mi hai convinto”. Aggiungo che il “fastidio” di vedere afrodiscendenti in maglia azzurra, come scrivi, deriva anche dal fatto che non siamo mai riusciti a fare i conti col nostro passato di potenza imperialista e coloniale.

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