Storia del tifo razzista a Verona

“Oggi gli ultras veronesi sono fra i più scalmanati d’Italia: tirano petardi persino sulle tribune e sui pompieri che stanno pronti a bordo campo con gli idranti aperti.” – Roberto Bianchin (1989)

“Dirceu ora non sei più straniero, Napoli ti ha accolto nel continente nero”. Inizia così la storia del razzismo nel calcio italiano, secondo alcuni; di sicuro, inizia così quella del razzismo nel curva dell’Hellas Verona. Era il 1983, e pochi se ne accorsero: il calcio italiano viveva da tempo di sfottò tra tifoserie, la xenofobia contro i meridionali era una consuetudine radicata e tollerata nella nostra società, e francamente l’accento dello striscione sembrava cadere soprattutto su Dirceu José Guimarães, brillante ala sinistra brasiliana – di pelle bianca, a scanso di equivoci – che proprio in estate aveva lasciato gli Scaligeri per il Napoli.

Eppure, qualcosa si muoveva sotto la superficie. Nel 1979 si era formata la Liga Veneta, embrione di quella Lega Nord che avrebbe fatto dell’antimeridionalismo una delle sue prime bandiere. Ma, come ha spiegato Giulia Siviero su Il Post, fin dagli anni Settanta Verona era stata il crocevia dell’estrema destra italiana: la Rosa dei Venti, il Fronte Nazionale dell’ex-terrorista Franco Freda, Ordine Nuovo, la banda Ludwig, il Fronte della Gioventù, Azione Giovani.

Questi ultimi due, in particolare, funsero da associazioni giovanili che rifornirono le Brigate Gialloblù, la principale formazione della curva veronese. Ben presto, i gruppi di estrema destra come Verona Front, Hellas Army e Gioventù Scaligera divennero i più influenti all’interno delle Brigate; l’alleanza con i gruppi hooligans inglesi – in particolare con gli Headhunters del Chelsea, notoriamente legati ai neonazisti e ai nazionalisti britannici – rese il tifo organizzato dell’Hellas uno dei più efficaci e in vista d’Italia. E uno dei più violenti.

Per tutti gli anni Ottanta, cori e striscioni contro i “terroni” napoletani crebbero esponenzialmente, ma tutta la vicenda – che oggi è degenerata, estendendosi a gran parte degli ultras del Nord, e confluendo in quel fenomeno chiamato “discriminazione territoriale” – viene derubricata a semplice folklore da stadio: celeberrimo resta infatti il battibecco che porterà i partenopei a esporre lo striscione “Giulietta è ‘na zoccola”.

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Il 23 febbraio 1986, gli striscioni razzisti anti-napoletani della curva dell’Hellas vengono mostrati sulla RAI a Domenica Sprint, e vengono fatti ascoltare anche i cori con tanto di testo in sovraimpressione: scoppiano le prime polemiche.

Nel frattempo, però, Verona era diventata per un momento anche capitale del calcio italiano: nel 1985, la formazione veneta, trascinata dai gol del danese Preben Elkjær Larsen, conquistava un inatteso scudetto. Il momento più glorioso della storia dell’Hellas, però, segnò anche l’inizio del suo periodo più critico, e divenne un punto di non ritorno: le ambizioni – di potere, non sportive – delle Brigate Gialloblù condussero al “saccheggio di Brescia”, poco prima del Natale 1986, quando i tifosi scaligeri devastarono la città lombarda durante una trasferta. Gabriele Sboarina, sindaco di Verona, annunciò dure misure repressive, e il presidente Ferdinando Chiampan arrivò a minacciare la chiusura della curva e il ritiro della squadra dal campionato.

Agli inizi di febbraio, dodici capi ultras dell’Hellas finirono in manette: la Procura contestò loro di aver pianificato diverse spedizioni punitive contro le tifoserie avversarie. Negli appartamenti degli arrestati vennero requisiti coltelli a serramanico, catene, pistole lanciarazzi e simboli nazisti; alcuni di loro risultarono iscritti al Fronte della Gioventù. Sarebbe dovuta essere la mossa che decapitava la Brigate Gialloblù, ma non sortì gli effetti sperati: l’indomani degli arresti, uno striscione al Bentegodi annunciava “Non 12 ma 5000 colpevoli”, in esplicita solidarietà ai leader finiti in carcere. Gli arresti e le condanne – le prime per associazione a delinquere contro un gruppo ultras in Italia – divennero come medaglie al valore.

Il 22 aprile 1989, gli ultras scaligeri colsero al volo un’altra occasione per dimostrare alla città e al mondo del calcio che, al Bentegodi, comandavano loro: in occasione dell’amichevole della Nazionale contro l’Uruguay, l’inno italiano venne bersagliato di fischi, così come il minuto di silenzio previsto per la tragedia di Hillsborough, avvenuta sette giorni prima; sia lo stadio che il municipio vennero tappezzati di scritte contro i meridionali, esprimendo appieno il crescente spirito leghista del Veneto. La Federcalcio, allora, decise che la Nazionale non avrebbe mai più giocato a Verona.

Ma ciò che fu più surreale, fu la reazione della città. L’assessore allo sport, il democristiano Graziano Rugiardi, giustificò quanto avvenuto dicendo che i fischi “rientrano nella logica del calcio”. L’Arena, il principale quotidiano locale, scrisse che “I veronesi non vanno confusi con chi ha fischiato l’inno”. Mario Zwirner, conduttore del telegiornale di Tele Nuovo, si spinse a dire che “Non siamo il pubblico beota del Meridione”, adducendo la colpa ai calciatori che prendono troppi soldi, invece che ai tifosi; “Chi paga ha il diritto di fischiare”. Una difesa collettiva, non molto dissimile da quella presa sui social dalla società dell’Hellas Verona in seguito ai ben più recenti cori razzisti contro Franck Kessie del Milan.

All’epoca, solo il presidente Chiampan si era messo di traverso al tifo neonazista dell’Hellas. Durante il ritiro a Cavalese, nell’agosto 1989, gli ultras decisero di devastare il paese, giusto per chiarire la propria posizione; un anno dopo, Chiampan lasciava la presidenza e poi anche la proprietà, sull’orlo del fallimento. Nel 1991, anche le Brigate Gialloblù si scioglievano, riformandosi però sotto nuovo nome. E nulla cambiò, anzi.

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Per il caso Ferrier, furono processati personaggi come Alberto Lomastro – leader del gruppo Banda Loma e vicino a Forza Nuova – e Yari Chiavenato – capo della sezione veronese di Forza Nuova e poi esponente della Lega Nord. Nel 2003 furono assolti per insufficienza di prove.

Nel 1996, quando il club era sul punto di acquistare il difensore olandese Maickel Ferrier, che sarebbe divenuto il primo nero della storia dell’Hellas Verona, due tifosi comparvero sugli spalti del Bentegodi con i cappucci del Ku Klux Klan, esponendo un fantoccio dalla pelle nera e con indosso i colori sociali del Verona, impiccato a una balaustra. La totale assenza di reazione da parte della società e delle istituzioni sancì quell’episodio come il punto di approdo del percorso di affermazione politica degli ultras veronesi.

E così, nel 2001, sembrò abbastanza naturale quando il nuovo presidente Giambattista Pastorello, di fronte all’ipotesi di uno scambio di attaccanti tra il veronese Bonazzoli e il parmense di origini camerunensi Mboma, disse che i suoi tifosi non glielo avrebbero permesso: “Purtroppo la mia è una tifoseria fatta male, almeno per quanto riguarda i giocatori di colore”. La società provò poi a smentire, ma i casi di giocatori di pelle scura “tagliati” senza chiare motivazioni non erano pochi: dopo Ferrier, anche i trasferimenti di Reinaldo e Bietek erano stati bloccati, in seguito a una contastazione dei tifosi, nel 1996, e la stessa cosa si era ripetuta tre anni più tardi con Zé Maria.

A tutto questo, si aggiungevano i cori razzisti, tra i primi sentiti negli stadi italiani. Non più solo contro i napoletani, ma ora anche contro i neri: proprio in occasione di un match contro il Parma, il pubblico scaligero se l’era presa in particolare con Fabio Cannavaro e con Lilian Thuram. Quelli contro il francese nato in Guadalupa furono i primi “buu” urlati contro un giocatore di colore in Serie A, un evento che ormai è diventato una tradizione comune a molte tifoserie.

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Croce celtica e svastica nazista fanno bella mostra, indisturbate, tra le bandiere gialloblù della Curva Sud dello stadio Bentegodi.

È impossibile non rivedere nella storia del tifo ultras dell’Hellas Verona le radici dei problemi di quello attuale. Sulle rive dell’Adige è andato lentamente formandosi un codice comunicativo da stadio radicalizzato verso l’estrema destra, prendendo lentamente il sopravvento nell’intera città. Se negli anni Ottanta governava la DC, e nel 2001 fu la sindaca di Forza Italia Michela Sironi a paventare la chiusura dello stadio contro i tifosi razzisti, dal 2007 la città è divenuta dominio della Lega Nord, e oggi è comunemente descritta come “lo spazio ideale per l’estrema destra” o “l’incubatrice dell’odio”.

Da Ferrier a oggi, il tifo scaligero non ha fatto che ribadire le sue posizioni estremiste, senza fare il minimo passo indietro. Nell’ottobre 2012, i cori contro Piermario Morosini, calciatore del Livorno tragicamente morto in campo; nel settembre 2013, uno striscione di solidarietà ai neonazisti greci di Alba Dorata, e poco dopo il coro ironico durante il minuto di silenzio per il morti di Lampedusa; nel giugno 2014, una grande svastica per celebrare la fine del campionato; i cori nazisti durante la festa per la promozione, qualche mese fa, e via così.

Esiste un legame sempre più forte tra l’estrema destra veronese e la Curva Sud, che ormai travalica anche i confini dello stadio: nel maggio del 2008, la città veneta è stata sconvolta dal brutale omicidio di Nicola Tommasoli, pestato a sangue da un gruppo di coetanei, tutti ragazzi di buona famiglia, ultras dell’Hellas e neofascisti. Va da sé che una generalizzazione dell’intera tifoseria veronese sarebbe impossibile e anche fuorviante; ciò che però è innegabile è che le prime avvisaglie della deriva di una città verso l’ultradestra erano emerse allo stadio, lontano da occhi indiscreti, diverso tempo fa.

 

Fonti

DILEMMI Andrea, “Heil Hellas!”: tenere la destra in curva, Venetica

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