Casablanca si adagiava placidamente sull’oceano, e si lasciava attraversare da una fresca brezza, che le scorreva tra le strade come il sangue nelle arterie. Gli edifici color calce a cui doveva il suo nome s’immergevano in un ribollire di colori e forme figli della Storia, che parlavano arabo, portoghese, spagnolo, italiano, inglese e francese. Soldati senegalesi pattugliavano loro malgrado le strade a caccia di spie e contrabbandieri, nel disperato tentativo di “proteggere la neutralità” del regime di Petain – e cioè supportare la Germania nazista – mentre la maggior parte della popolazione, fatta di operai provenienti da tutto il mondo, sosteneva i ribelli di De Gaulle e attendeva trepidante l’invasione degli Alleati. Lì, in uno scenario che aveva già ispirato un film di Hollywood, si aggirava un giovane e impaziente calciatore, Larbi Ben Barek.
Era nato in un villaggio dalle parti di Tata, nell’entroterra sabbioso lambito dalle montagne dell’Anti Atlante, ma suo padre aveva portato presto la famiglia verso l’oceano, perché i francesi stavano investendo molto nello sviluppo industriale, e un buon falegname come lui faceva molto comodo nei cantieri del porto di Casablanca, dove venivano realizzati i battelli. E quella era diventata la sua città, Larbi Ben Barek aveva imparato a conoscerla giocando a calcio per le strade, continuando a farlo anche quando, verso i 14 anni, andò lui stesso a fare il falegname per aiutare la famiglia dopo la morte del padre. Lo sport era l’ancora di salvezza dei tanti figli di un dio minore in cerca di riscatto sociale, come era lui e com’era il suo amico d’origine iberica Marcel Cerdan, che faceva il pugile ma nel tempo libero tira anche lui calci al pallone.
Il riscatto, Ben Barek credeva di averlo finalmente trovato nel 1938, quando le sue ottime prestazioni da centravanti nell’US Marocaine avevano attirato a Casablanca l’ebreo-ungherese József Eisenhoffer, allenatore-giocatore dell’Olimpique Marsiglia: questi aveva voluto assolutamente il marocchino in Francia, convincendo il club a pagarlo 35.000 franchi per trasferirsi. Una volta nel Vecchio Continente, Eisenhoffer aveva riadattato Ben Barek a mezzala sinistra, avendo in attacco già l’ispano-algerino Emmanuel Aznar, ma il nuovo acquisto aveva lo stesso avuto un impatto impressionante sulla squadra, realizzato 12 reti stagionali e trascinando il Marsiglia al secondo posto in classifica. Poteva essere l’inizio di una grande carriera, che lo avrebbe visto entrare nel novero delle grandi stelle del calcio nordafricano – come Ben Bouali e Zatelli, che proprio l’estate prima avevano lasciato l’OM per il Racing di Parigi – ma invece arrivò la guerra.
Alla sospensione dell’attività sportiva in Francia, schiacciata sotto l’avanzata nazista, Larbi Ben Barek aveva deciso di lasciare il Paese e tornare nella più sicura Casablanca. Giocava a calcio, a basket, probabilmente aveva anche ripreso a fare il falegname per mantenersi. Sappiamo poco della sua vita in Marocco durante la guerra, ma possiamo supporre che fosse – come la maggior parte dei marocchini e delle classi umili della città – dalla parte di quelli che credevano in De Gaulle e nella sua France Libre, che proprio nelle colonie concentrava gran parte della sua propaganda anti-nazista. Possiamo immaginarlo come uno di quei neri sullo sfondo nel film di Michael Curtiz, che usciva nel 1942 proprio nello stesso anno in cui infine gli Alleati liberavano Casablanca. Nel frattempo, gli anni migliori della carriera di Ben Barek trascorrevano lontano dagli stadi europei, e l’eco del suo nome, dopo quella straordinaria stagione a Marsiglia, svaniva sotto i bombardamenti.

Ecco perché anche lui rimase sorpreso quando, nel 1945, fu contattato dai dirigenti dello Stade Français, un piccolo club di Parigi che era appena passato al professionismo e si era iscritto alla seconda divisione. Ormai trentenne o forse più – nessuno, nemmeno lui, seppe mai con certezza in che anno fosse nato – Larbi Ben Barek aveva un’altra occasione per riallacciare i nodi del destino. La società era ambiziosa, e voleva sfruttare la classe e l’esperienza del marocchino per dare solidità a una squadra giovane, affidata alla gestione di un promettente allenatore argentino che aveva giocato in rossoblù prima della guerra, Helenio Herrera. I due si capirono al volo, e non solo perché, casualmente, entrambi erano cresciuti a Casablanca, ma anche perché Ben Barek – schierato ora da regista avanzato, dietro le punte – era il giocatore ideale per il tipo di calcio che aveva in mente Herrera. Stavano iniziando anni eccezionali.
Lo Stade Français raggiunse subito la promozione nella massima serie e arrivò anche fino a una sorprendente semifinale di Coppa di Francia; poi, nelle due annate successive, chiuse due volte in quinta posizione in classifica, mettendosi in mostra come una delle squadre migliori del campionato. Ma la Francia, ora che ci aveva passato un po’ di tempo, gli sembrava molto diversa da come se la ricordava: avevano sconfitto i nazisti, ma gli insulti e le occhiatacce che riceveva per il colore della sua pelle erano un affare quotidiano. Il mondo stava cambiando: quelli come lui, negli anni Trenta erano celebrati in quanto simbolo dell’integrazione della madrepatria con le sue colonie. Ora, le varie rivolte indipendentiste del Maghreb avevano ribaltato la percezione dei nordafricani: neri, musulmani, che parlavano l’arabo tanto quanto il francese, erano visti sempre più come qualcosa di diverso e lontano dalla Francia bianca e conservatrice.
Quando, nel 1948, l’Atlético Madrid offrì 17 milioni di franchi – la più alta cifra mai pagata in Spagna per un calciatore – lo Stade Français accettò, e pure Ben Barek fu assolutamente d’accordo: per un giocatore della sua età, che credeva di essere ormai a fine carriera, le prospettive economiche e tecniche offerte dai Colchoneros erano irrinunciabili. La stampa parigina s’indignò – un giornale sportivo titolò addirittura “Vendete la Tour Eiffell, ma non Ben Barek!” – ma i dirigenti del calcio transalpino lo snobbarono in maniera sdegnata; uno di loro, Berdignans, arrivò a dichiarare: “Ben Barek non è soggetto alla nazionalità francese, anche se qualche volta ha giocato in Nazionale. Per tanto non c’è da discutere se sia il caso di trattenerlo tra di noi”.
Il miracolo Stade Français seguì Ben Barek a Madrid, dato che al club spagnolo si aggiunsero progressivamente Marcel Domingo in porta, Henry Carlsson in mediana ed Helenio Herrera in panchina, mentre i rossoblù di Parigi entravano in declino. Quattro moschettieri francesi per rilanciare le ambizioni di una squadra che, nel giro di un lustro, fu in grado di conquistare due scudetti e una Coppa Eva Duarte. Il centrocampista marocchino si rivelò, anche in quella circostanza, il geniale regista di un attacco spettacolare (tre volte secondo miglior attacco del campionato): dimenticato dal calcio francese, Ben Barek era divenuto un idolo incontrastato di quello spagnolo. Nel 1953, ormai quasi quarantenne, incrociò il presidente del Marsiglia Jean Robin, che gli chiese se volesse tornare nel club che per primo aveva creduto in lui: Ben Barek tornò, acclamato dai tifosi, e portò l’OM a una finale di Coppa di Francia.

L’epilogo di questa storia si svolge il 7 ottobre 1954 al Parco dei Principi di Parigi: la Nazionale francese scende in campo per un’amichevole benefica contro una selezione dei migliori calciatori nordafricani, tra cui anche Ben Barek; l’obiettivo è raccogliere fondi per la ricostruzione in Algeria, colpita da un violento terremoto. La Francia, nonostante il brutto Mondiale estivo, è attesa a una comoda vittoria, e invece i magrebini s’impongono per 3-2, con il pubblico parigino che si ritrova a osannare, dopo sei anni, proprio l’ex-stella dello Stade Français. Il trionfo è tale che il ct Jules Bigot inserirà il suo nome nei convocati per la prossima partita della Nazionale, dieci giorni dopo: una chiamata che suona come un modo per scusarsi per il modo in cui Ben Barek era stato a lungo sottostimato e ignorato dalla Federcalcio. Una rivincita a metà, perché durante quella partita s’infortunerà e capirà che la sua vita da calciatore è ormai conclusa.
Sì, la Francia sta cambiando. Un mese dopo l’amichevole del Parco dei Principi, l’Algeria si ribella al dominio francese e dà il via a una guerra che segnerà l’inizio della decolonizzazione. Nell’estate del 1955, Larbi Ben Barek lascerà il Vecchio Continente, ripassando il Mediterraneo e andando a giocare proprio in Algeria. Un anno dopo rientrerà finalmente in Marocco, proprio quando il Paese dichiara la propria indipendenza dalla Francia.
Fonti
–AFFOLTI Stefano, Ben Barek, la Perla Nera marocchina che ispirò Pelé, Gente di Calcio
–DJELLIT Nabil, Larbi Ben Barek, la mémoire retrouvée, France Football
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