Un aborigeno ai Mondiali

La strada tra Peakhurst e Berlino Ovest sembrava spropositata. Calcare il campo dell’Olympiastadion faceva tremare le gambe, e quello stadio semivuoto (anche se quasi 15.000 presenti non erano certo meno del pubblico con cui erano soliti confrontarsi in Australia) amplificava ulteriormente quella sensazione abbacinante. A 23 anni, quello era il suo momento: lo aveva inseguito a lungo, aveva messo da parte il rugby – prendendosi non pochi insulti, per questo – per poter esser un calciatore squattrinato che adesso stava giocando il Mondiale. Harry Williams sentiva di far parte di una squadra di pionieri: i primi Socceroos a giocare la Coppa del Mondo. Avevano perso le prime due partite, in cui lui non era sceso in campo, e per la terza gara del girone contro il Cile speravano almeno in un pareggio. Una stoica resistenza contro i giocolieri sudamericani, che avevano bisogno di una vittoria per passare il turno. A una decina di minuti dalla fine, il ct Rašić aveva tolto Colin Curran per inserire un giocatore fresco ed energico come Williams, subito dopo che Ray Richards si era preso il secondo giallo, assestando un brutto colpo alle speranze australiane.

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Raoul Diagne, il primo campione afro-europeo

Il dibattito in Francia era particolarmente acceso: da un lato, c’era chi riteneva il passaggio al professionismo economicamente insostenibile per i club, col rischio che avrebbe potuto essere non il rilancio, ma addirittura il capolinea del calcio nazionale. Dall’altro, il fronte favorevole rivendicava la necessità di riconoscere contratti e stipendi regolari ai giocatori, mettendo la Francia in linea con la modernità, con un provvedimento che era già stato preso non solo nel Regno Unito o in Nord America, ma addirittura in Austria, in Ungheria, in Italia, in Spagna e in vari Paesi del Sudamerica. Di questa fazione, tra tanti stimati calciatori bianchi, c’era anche un nero, Raoul Diagne, e – incredibile ma vero – era forse il più influente di tutto il gruppo. Fu in buona parte merito suo, se nel 1932 la Francia accettò il professionismo dei calciatori.

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Elías Figueroa: il campione della dittatura cilena

“Sei un fascista! Sei un maledetto fascista!” gli urla qualcuno per strada. L’aria, in Cile, sta finalmente cambiando: dopo quindici anni di spietata dittatura, si terrà un referendum per la concessione di un nuovo mandato presidenziale ad Augusto Pinochet, e in tanti spingono per il No. Eppure, il mondo dello sport è piuttosto compatto per il sostegno al dittatore. “Come sportivo, come il vincente che sono stato per tutta la vita, voterò sicuramente Sì, perché voglio un paese vincente.” aveva detto pochi giorni fa. Parole che pesano come macigni: a pronunciarle è il più grande calciatore della storia cilena, Elías Ricardo Figueroa.

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Capire com’è cambiato il calcio italiano, guardando Rafael Tolói

Scorrendo la classifica degli assist di questa stagione di Serie A, tra la solita infornata di centrocampisti e attaccanti, emerge a un tratto un nome inaspettato: Rafael Tolói. Ha 29 anni, la sua famiglia è di origine trevigiana, ma lui è nato e cresciuto a Glória d’Oeste, nel Mato Grosso. E gioca difensore centrale, ecco perché sembra quasi incredibile che a metà campionato abbia già messo a segno cinque assist: tanti quanti due dei migliori registi del campionato, Marcelo Brozović e Sergei Milinković-Savić; più di Paulo Dybala, Lorenzo Insigne e Federico Chiesa; solo due in meno del romanista Lorenzo Pellegrini o del Papu Gómez, compagno di Tolói all’Atalanta e secondo in questa classifica.

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Dalla Cina col pallone

Quando atterrò a Francoforte, Gu Guangming sapeva per certo che non poteva aspettarsi un’accoglienza trionfale. Era indubbio che il suo arrivo aveva attirato la curiosità di alcuni, ma i giornalisti e qualche tifoso lo attendevano a Coblenza, a un’ora d’auto di distanza, per la presentazione col club. I suoi primi passi in Germania furono passi nella storia: era la prima volta che un calciatore cinese si guadagnava un contratto con un club occidentale. Una timida apertura nella rigida muraglia dell’Est comunista.

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Barzagli, il sottovalutato

È l’estate del 2008, e una squadra tedesca si presenta a Palermo con una ventina di milioni di euro: in cambio, vuole andarsene dall’Italia con due difensori, Cristian Zaccardo e Andrea Barzagli. Per qualcuno sembra un’esagerazione, specialmente per i 12 milioni che vengono proposti per il secondo, per qualcun altro un peccato, che due giocatori così debbano andarsene in un campionato minore invece che restare nella Serie A. Un anno dopo, la squadra tedesca – il Wolfsburg – alza a sorpresa il titolo di campione di Germania: Zaccardo ha giocato ventidue partite, Barzagli quarantacinque, senza mai essere sostituito. In Italia, non se ne accorge praticamente nessuno.

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