Joaquim Santana, dal campo alla prigione per la causa dell’indipendenza

Quando il Benfica sollevò la sua prima Coppa dei Campioni, il 31 maggio 1961, gran parte del merito era anche suo: le Águias avevano concluso una stagione eccezionale vincendo anche il campionato, e Joaquim Santana si era imposto come il terzo miglior realizzatore stagionale della squadra con 20 gol all’attivo, secondo solo al centravanti e capitano José Águas e all’ala destra José Augusto. Quella squadra eccezionale, allenata dall’ungherese Béla Guttmann, poteva fare affidamento su uno schieramento offensivo eccezionale, con Águas e Augusto a finalizzare, il genio di Mário Coluna a impostare il gioco, e in mezzo, come mezzala destra, proprio Santana, brillante dribblomane capace di accendere le partite e unire la tecnica individuale del trequartista alla capacità realizzativa dell’attaccante puro.

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Il calcio nei bairros portoghesi di Rafael Leão

Almada guarda in faccia Lisbona, dall’altro lato del Tago; alle sue spalle, scendendo nell’entroterra verso sud, sulla strada per Setúbal, si entra nei quartieri più periferici e poveri della capitale portoghese: Jamaica, Princesa, Cucena, i bairros della zona di Seixal, dove peraltro sorge l’importante scuola calcio del Benfica. Quartieri molto popolosi, a forte immigrazione, spesso degradati, che sono alcune delle zone socialmente più problematiche del Portogallo. È questo lo scenario che ha dato i natali a Rafael Alexandre da Conceição Leão, nato proprio ad Almada nel 1999 ma cresciuto di fatto a Jamaica, e che oggi gioca come attaccante nel Milan.

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La contromaledizione di Béla Guttmann

Questa storia la conosciamo tutti: è forse la più famosa leggenda del calcio, che perseguita il Benfica da quasi sessant’anni. Nel 1962, subito dopo aver portato il club di Lisbona ad alzare la sua seconda Coppa dei Campioni, l’allenatore ungherese Béla Guttmann s’incontrò con i dirigenti e chiese un aumento di salario, che gli venne negato. I rapporti tra le parti si ruppero inaspettatamente, e Guttmann decise di licenziarsi, aggiungendo le nefaste parole: “Il Benfica non riuscirà a diventare campione d’Europa per almeno un secolo!” E così fu.

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Bruno Fernandes, campione di provincia a Novara

Il Manchester United ha annunciato l’accordo con il trequartista Bruno Miguel Borges Fernandes dello Sporting Lisbona, per una cifra complessiva di 80 milioni di euro. È il colpo del calciomercato invernale, è la coronazione di un sogno per un giocatore dalla carriera insolita e, a soli 25 anni, già parecchio lunga. Finalmente approdato in una grande, nello stesso club che diciassette anni prima diede il via alla consacrazione di un altro talento lusitano dello Sporting, Cristiano Ronaldo. Soprattutto, è la storia di un ragazzo che ha iniziato la sua rincorsa al calcio che conta dalla provincia italiana, da Novara.

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La meravigliosa visione del Boavista

Sembrava quasi fatta. La semifinale d’andata era stata sensazionale, e il Boavista aveva sfiorato la vittoria al Celtic Park, uno stadio ritenuto quasi inespugnabile; dopo quel 1-1, mancava solo un agevole ritorno in casa. Qualificandosi, non solo le Panteras avrebbero raggiunto la prima finale europea della loro storia, ma avrebbero anche dato vita a uno storico match tutto portoghese contro i rivali cittadini del Porto, che avevano praticamente già fatto fuori la Lazio. Invece, dopo ottanta minuti di dominio e occasioni sprecate, Henrik Larsson spezzava i sogni di gloria del Boavista e mandava gli scozzesi alla loro prima finale europea dal 1970. Iniziava così il tramonto di una favola.

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La rivoluzione dei garofani e del pallone

Grândola è una cittadina del Sud, l’antica città dei Mori, la Terra della Fraternità. Così cantava Zeca Afonso, rifacendosi alla storica cooperativa operaia della città, nata negli anni Cinquanta e duramente repressa dal regime fascista di Salazar. Per quella canzone, Afonso passò diversi guai con la PIDE. Nel 1974, tre anni dopo la pubblicazione – e l’immediata messa al bando – del brano, esso tornava a suonare inaspettatamente alla mezzanotte del 25 aprile sulle onde di Rádio Renascença, come un segnale in codice per tutti gli antifascisti: iniziava la Rivoluzione dei Garofani, e il regime portoghese aveva le ore contate.

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Il mio nome è Nessuno

Ninguém aveva gli occhi grandi e arrotondati, la pelle nerissima da africano purosangue, e una zazzera arricciata sul cranio. Quante di quelle persone a cui lustrava le scarpe dalla mattina alla sera sapevano il suo vero nome? Nessuno, probabilmente. Nessuno era anche il nome con cui era conosciuto – Ninguém, in portoghese, significa appunto “nessuno” – ma non era una citazione omerica, piuttosto una condanna, per la verità comune a molti ragazzi come lui, nati nel ghetto di Mafalala a Lourenço Marques, Mozambico. Poco più in là stavano i quartieri degli indiani, arrivati via nave da Goa, e poi, lontanissimi, i quartieri ricchi e puliti di quegli esigui bianchi che si erano trasferiti laggiù per gli affari coloniali.

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