La Rai contro Carosio: storia di un insulto razzista in diretta

L’Italia farebbe meglio a vincerla, questa partita. Anche perché l’avversario è molto più che abbordabile: Israele, all’esordio ai Mondiali, è una squadra modesta, specialmente di fronte ai campioni d’Europa in carica. Eppure è ancora 0-0, stesso risultato che si sta verificando anche a Puebla tra Svezia e Uruguay, che in virtù della differenza reti favorevole ai sudamericani piazza gli Azzurri come secondi nel girone. L’Italia, in realtà, in vantaggio ci andrebbe anche: Riva serve un cross per Burgnich che colpisce di testa e batte Vissoker, ma è in fuorigioco. E poi di nuovo un cross, alla mezz’ora del secondo tempo, e stavolta a staccare di testa c’è proprio Riva, che con una frustata mette nuovamente alle spalle del portiere israeliano. L’arbitro brasiliano De Moraes convalida, ma il guardalinee etiope Sejum Tarekegn alza la bandierina: non è gol nemmeno stavolta. Poi, però, accade qualcos’altro: non qualcosa che si vede, ma che si sente. Carosio, la voce storica del calcio italiano, ha pronunciato il primo insulto razzista della storia della nostra televisione.

La reazione della Rai è rapidissima: Carosio non può tornare a commentare l’Italia, deve tornare a Roma. A muoversi è stata addirittura la Farnesina, che ha ricevuto una comprensibile lamentela da parte dell’ambasciata etiope. È il 1970, e la Repubblica sta bene attenta a non creare casi diplomatici, soprattutto con un paese con cui ha un drammatico passato coloniale come quello di Addis Abeba: al potere nel paese africano c’è di nuovo il negus Hailé Selassié, il sovrano che era stato deposto con la forza e costretto all’esilio nel 1936, in seguito all’invasione militare italiana ai tempi del Fascismo. Il caso Carosio è molto delicato, e la televisione pubblica deve conformarsi alle necessità diplomatiche della nazione. I colleghi del giornalista siciliano, inviati in Messico per i Mondiali, però non ci stanno, e minacciano che se lui verrà richiamato in Italia loro lo seguiranno, facendo saltare tutta la trasmissione del torneo (con l’Italia che, nonostante la 0-0 con Israele, ha nel frattempo superato il turno come prima del girone, dato che l’Uruguay ha perso nel finale). La Rai trova un compromesso: Carosio resta in Messico, ma non commenterà più le partite, mentre al suo posto verrà promosso Nando Martellini.

Un avvicendamento che in realtà si sarebbe comunque dovuto realizzare di lì a poco. Nicolò Carosio aveva 63 anni ed era ormai ben avviato sulla strada della pensione, specialmente in un’epoca in cui il linguaggio televisivo stava cambiando e lui iniziava a essere un po’ fuori dai tempi, con il suo stile troppo compassato. Palermitano, figlio di un ispettore di dogana e di una pianista maltese, era divenuto giornalista sportivo quasi per caso, facendo ascoltare ai dirigenti dell’EIAR una registrazione in cui commentava un immaginario derby di Torino. Era immediatamente divenuto il primo radiocronista del calcio italiano: aveva narrato le imprese degli Azzurri campioni del mondo nel 1934 e nel 1938, inventò lo stesso linguaggio calcistico italiano, era sopravvissuto lavorativamente alla fine del Fascismo e materialmente alla tragedia di Superga (rinuncio al volo a Lisbona per assistere alla cresima del figlio), divenne il primo telecronista del calcio italiano e fu una delle voci di punta delle prime edizioni di Tutto il calcio minuto per minuto. Per farla breve: i tifosi italiani di ogni età conoscono il calcio essenzialmente attraverso la sua voce.

Cosa ha detto di così grave da venire improvvisamente cacciato, dopo una così lunga e stimata carriera? Nessun telespettatore o radioascoltatore (la cronaca della partita è stata trasmessa contemporaneamente su entrambi i media) sembra essersi accorto di nulla. O forse qualcuno sì, e le spiegazioni, in qualche modo, iniziano a uscire sui giornali, superando le riserve della Rai nel far circolare la parola esatta detta da Carosio: “Che cosa vuole, questo negraccio?”. L’insulto al guardalinee Tarekegn lascia tutti senza parole, anche nell’Italia del 1970. C’è la DC al potere con il 39%, i comunisti di Luigi Longo sono all’opposizione con quasi il 29%, i socialisti (14,5%) danno l’appoggio esterno al governo. Il caso Carosio fa parlare gli appassionati, e quando iniziano a uscire i dettagli la maggior parte del pubblico è concorde: cose del genere non si possono dire, e cacciare il telecronista è il minimo. In realtà, però, qualcosa non torna: siccome la Rai non ha chiarito quale sia stato il commento offensivo di Carosio, si sbizzarriscono le teorie, e ognuno riporta una versione diversa. Prende forma così il più clamoroso caso di allucinazione collettiva della storia del calcio italiano.

Riva in azione contrastato da Vissoker, in Italia-Israele dell’11 giugno 1970.

Carmelo Bene, grande nome del teatro italiano e tifoso milanista, difende Carosio in una lettera pubblicata dal giornale comunista l’Unità: dice che l’unico errore fatto dal telecronista sia stato non trattare con il consueto rispetto la terna arbitrale, premettendo il consueto “signor” prima del nome del guardalinee, come si faceva all’epoca. Più esplicito fu Enzo Tortora, ex-conduttore della Domenica Sportiva (e da tempo in pessimi rapporti con il direttore generale della Rai Ettore Bernabei, uomo della DC), che sul Resto del Carlino scrisse polemicamente che la televisione pubblica italiana avrebbe dovuto anche mettere al bando l’Aida di Verdi, poiché nel libretto di Ghislanzoni si dice: “Già corre voce che l’etiope ardisca sfidarci ancora”. Strano che nessuno citi quell’indiscutibile insulto razzista di cui, tra i tifosi, ormai tutti sembrano essere certi. Solo La Stampa, in un articolo firmato dall’inviato Paolo Bertoldi, riporta quella parola gravissima di Carosio. È un’epoca in cui nessuno si sognerebbe mai di rimandare in televisione la telecronaca di una partita, e nemmeno un estratto, eppure è tutto registrato e archiviato: basterebbe una breve visione per appurare la verità. E la verità è che, quella parola, Nicolò Carosio non l’ha mai pronunciata.

“L’arbitro aveva convalidato il punto e il guardalinee… niente convalida. Ma siamo proprio sfortunati! A parer nostro non esisteva fuorigioco e Riva aveva segnato regolarmente al 29’. Indubbiamente ci sia consentito di parlare di sfortuna che perseguita gli Azzurri.” Queste le parole trasmesse dalla televisione. E allora cosa è successo? Perché è emersa la storia dell’insulto razzista, ma soprattutto cosa ha indispettito la Rai al punto da estromettere Carosio dalle telecronache della nazionale? Se per il pubblico la colpa di Carosio è ormai appurata, nel mondo del giornalismo se ne discute ancora. Gira voce che l’autore del commento razzista sia stato in realtà Enrico Ameri, che curava la cronaca alla radio, ma anche in questo caso mancano le conferme. Che però qualcosa sia successo, non in televisione ma proprio alla radio, è la teoria che prende maggiormente piede. Ma nessuno ha sottomano le registrazioni, e così il caso si sgonfia rapidamente. Soprattutto per due motivi: il primo è che il nuovo cronista Martellini è bravo, moderno nello stile, e conquisterà i telespettatori, mentre l’Italia raggiungerà una storica finale contro il Brasile. Il secondo è che Carosio non tornerà mai più sull’argomento per tutto il resto della sua vita.

Ma quella della radio era la pista giusta. Dopo l’incontro con Israele, gli studi Rai avevano ospitato un programma di commento condotto da Mario Gismondi assieme a vari ospiti di spicco del giornalismo sportivo italiano. Durante la trasmissione, era intervenuto Antonio Ghirelli, il direttore del Corriere dello Sport, che se ne uscì una battuta di dubbio gusto: “Vista come è finita la partita, credo si possa anche scherzare e definirla come come la vendetta del Negus. Innocua, incruenta, ma noi andiamo avanti”. Insomma, c’è poco da ridere, visto che il riferimento va a una guerra che fece decine di migliaia di morti etiopi in sette mesi, e a cui seguirono cinque anni di colonialismo brutale (basti pensare alla strage di Addis Abeba del febbraio 1937). Ghirelli, ex-partigiano comunista passato ai socialisti dopo i fatti d’Ungheria del 1956, non è proprio una persona senza pregiudizi razziali, al di là della sua collocazione politica: nel 1962, un suo discutibile reportage per il Corriere della Sera, in cui descriveva la miseria dei cileni, era stato il casus belli della Battaglia di Santiago; nel 1967, commentando nell’enciclopedia Il Pallone d’Oro la messa al bando degli oriundi dalla nazionale, aveva giustificato il provvedimento sostenendo la tesi che i sudamericani non s’impegnassero per vincere, non avvertendo “l’arcano richiamo della maglia azzurra”; negli anni precedenti, scriveva sicuro che “L’idea stessa di razzismo è estranea” alla mentalità italiana.

Nella tribuna radiofonica, però, c’era stato chi andò anche oltre Ghirelli. Eugenio Danese, iconica firma de Il Tempo, aveva aggiunto: “Non vogliamo essere cattivi ma il guardalinee era etiope, dunque un africano”. Come a dire che l’essere africani debba indurre una certa sfiducia, quando si parla di conoscenza delle regole del calcio. Fu probabilmente questa trasmissione che era stata ascoltata da Laiketsion Petros, un ingegnere etiope residente a Roma, che aveva scritto una lettera pubblicata su Il Messaggero due giorni dopo la partita. Petros non denunciò alcun comportamento razzista, ma delle frasi di pessimo gusto, “sia del radiocronista che di altre persone”, e in particolare citò proprio il commento di Ghirelli. “A parte il fatto che il Negus si è già vendicato, – ribatteva – perdonando e dimenticando il passato, e oggi Italiani ed Etiopici vivono sia in Italia che in Etiopia nella migliore delle armonie, sia nel lavoro che nello sport, ritengo che questa frase detta a 20 milioni circa di radioascoltatori, sia veramente di pessimo gusto e del tutto priva di qualsiasi fondamento”.

La telecronaca originale di Carosio. Da notare come, per rivalutare Carosio, il giornalista Massimo De Luca suggerisca una qualche forma di corruzione di Tarekegn da parte degli israeliani.

Cosa successe tra questa lettera e l’esautorazione di Carosio, non è dato saperlo. La cosa più probabile è che questa e forse altre segnalazioni giunsero all’ambasciata d’Etiopia a Roma, i cui funzionari non avevano però modo di verificare chi e in quale circostanza avesse pronunciato l’insulto, non disponendo di registrazioni. Le segnalazioni erano probabilmente confuse, non specificavano correttamente l’autore, la trasmissione e nemmeno il media esatto su cui era avvenuto il fatto. Ciò che era certo era che la responsabilità era della Rai, che controllava sia la radio che la televisione italiane. L’ambasciata contattò la Farnesina per lamentarsi, e da qui la protesta giunse ai vertici della Rai. Perché non si verificò la responsabilità di Carosio non si può sapere. O forse lo si fece, ma con il caso che era ormai montato può essere che si decise di eleggerlo a capro espiatorio. La Rai non poteva punire gli ospiti di una trasmissione, che non erano suoi dipendenti, e promettere di non chiamarli più come opinionisti non avrebbe probabilmente sedato le polemiche. “Far fuori” Carosio avrebbe avuto un effetto diverso, e sarebbe stato forse anche meno problematico per l’azienda, dato che il cronista era ormai vicino alla pensione e il suo avvicendamento con Martellini era nell’ordine delle cose.

La coda di questa storia ci porta all’inizio degli anni Dieci del Duemila, quando è stata finalmente resa pubblica l’innocenza del cronista siciliano. Diverse testate ne hanno approfittato per attualizzare la vicenda, parlando di “fake news”, “razzismo inesistente”, “bufala”, “razzismo fake”, fino addirittura a “razzismo dem”, nell’ambito del dibattito contemporaneo molto popolare a destra contro la cosiddetta “woke culture”, o “cancel culture” o semplicemente il “politicamente corretto”. Ma se l’accusa contro Carosio era assolutamente falsa, che il caso Tarekegn (sarebbe più corretto chiamarlo così, a questo punto) abbia coinvolto commenti inappropriati (quello di Ghirelli), se non addirittura proprio razzisti (quello di Danese), è indiscutibile. Questa storia ci racconta di un mondo del giornalismo che si fece attirare dalla notizia scandalistica e la cavalcò, al punto che proprio un rispettabile quotidiano (La Stampa, peraltro un giornale all’epoca piuttosto conservatore) avvalorò la tesi di un inesistente insulto razzista pronunciato da Carosio, che divenne poi verità popolare in assenza della capacità dei media di smentirla. Anche perché smentirla avrebbe significato far emergere la responsabilità di altri due mostri sacri del giornalismo sportivo italiano, coinvolgendo dunque altre testate. Si prese, invece, la scelta più comoda per salvare la faccia di tutti.

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Fonti

CASTELLANI Massimiliano, Mexico 70. Nicolò Carosio e quell’insulto mai pronunciato, Avvenire

DE LUCA Massimo, E Carosio non disse mai «quel negro…» al guardalinee etiope, Il Corriere della Sera

LANZA Cesare, Quella volta che mi disse / Nicolò Carosio, La mescoLanza

1 commento su “La Rai contro Carosio: storia di un insulto razzista in diretta”

  1. Che poi questa storia non è molto diverso da quello che succede oggi proprio nell’ambito della cancel culture, dove a sentire i destrorsi sembra che ci sia una lobby “delle minoranze” che fa le pulci a tutto quello che viene detto e scritto, quando invece l’unica cosa che succede è che qualcuno cerca di appropriarsi di giuste battaglie per rifarsi un’immagine.

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