Un aborigeno ai Mondiali

La strada tra Peakhurst e Berlino Ovest sembrava spropositata. Calcare il campo dell’Olympiastadion faceva tremare le gambe, e quello stadio semivuoto (anche se quasi 15.000 presenti non erano certo meno del pubblico con cui erano soliti confrontarsi in Australia) amplificava ulteriormente quella sensazione abbacinante. A 23 anni, quello era il suo momento: lo aveva inseguito a lungo, aveva messo da parte il rugby – prendendosi non pochi insulti, per questo – per poter esser un calciatore squattrinato che adesso stava giocando il Mondiale. Harry Williams sentiva di far parte di una squadra di pionieri: i primi Socceroos a giocare la Coppa del Mondo. Avevano perso le prime due partite, in cui lui non era sceso in campo, e per la terza gara del girone contro il Cile speravano almeno in un pareggio. Una stoica resistenza contro i giocolieri sudamericani, che avevano bisogno di una vittoria per passare il turno. A una decina di minuti dalla fine, il ct Rašić aveva tolto Colin Curran per inserire un giocatore fresco ed energico come Williams, subito dopo che Ray Richards si era preso il secondo giallo, assestando un brutto colpo alle speranze australiane.

La tensione era palpabile. All’epoca, Williams nemmeno ci pensava che stava facendo la storia: lui in quanto individuo, non solo come componente di una squadra. Era il primo aborigeno a giocare una partita della Coppa del Mondo di calcio. Ma quel 23enne terzino sinistro pensavo solo all’emozione di giocare una partita della massima competizione internazionale del suo sport preferito: era troppo giovane per avere una piena coscienza politica. Se si voleva parlare di politica, poi, quella partita ne era già sovraffollata. I giovani studenti in Australia parlavano da tempo del Cile, dove i dissidenti del regime di Pinochet venivano chiusi dentro uno stadio da calcio e torturati. Il governo laburista di Gough Whitlam sosteneva Allende, che era stato rovesciato da un sanguinoso colpo di stato, e in quei mesi stava cercando di ottenere il rilascio di alcuni prigioni politici per farli trasferire come profughi in Australia. A febbraio, i lavoratori dell’aeroporto di Sydney avevano inscenato una grossa protesta contro il transito dell’aereo di un generale cileno. Anche quel giorno a Berlino Ovest, poco dopo l’inizio del secondo tempo, un gruppo di ragazzi aveva fatto irruzione in campo sventolando una bandiera cilena con su scritto “Chile Socialista!”.

Harry Williams non si interessava particolarmente di politica, a quei tempi. Era nato in un sobborgo della zona meridionale di Sydney da due genitori di origini Wiradjuri, un popolo aborigeno nativo del Nuovo Galles del Sud. Appartenendo a un gruppo etnico storicamente marginalizzato nella società bianca australiana ancora negli anni Cinquanta, faceva parte di una famiglia molto umile di lavoratori. Quando era ancora un bambino, i suoi genitori, i fratelli e le sorelle decisero di emigrare più a sud, nello Stato di Victoria, mentre per qualche ragione lui rimase a Sydney assieme agli zii. Qui, un suo coetaneo che viveva dall’altro lato della strada lo convinse un giorno a seguirlo al campo dove andava a giocare a calcio assieme ad altri ragazzini. Si conoscono pochi dettagli di quel periodo, ma è facile immaginare che il quartiere, come molte periferie delle grandi città australiane, fosse popolato principalmente da aborigeni e da immigrati europei, prevalentemente slavi, italiani e ungheresi.

Erano solo loro a giocare a calcio in quel paese, dove gli sport favoriti erano di gran lunga il rugby e, in seconda battuta, il football australiano. Il calcio era uno sport per immigrati, quelli che venivano generalmente chiamati wogs, un epiteto razzista che connotava principalmente gli immigrati provenienti dal Mediterraneo, ma che in un senso più esteso andava a identificare negativamente chiunque non fosse wasp, cioè un bianco anglosassone. Era uno degli sterotipi che circolavano attorno ai calciatori: che non fossero veri australiani, e che più in generale non fossero nemmeno veri uomini, ma degli effeminati. Questo aveva fatto sì che il calcio in Australia fosse un fenomeno, per quanto di nicchia, più aperto e multiculturale rispetto ad altri sport. Un aborigeno come Williams, in quel contesto, non stonava poi così tanto rispetto al melting-pot culturale che occupava un normale campo da calcio. In più, si accorse che il pallone rotondo gli piaceva più quello ovale: quando un amico di famiglia venne a casa sua a consigliargli di lasciare perdere quello “sport da femminucce” e venire a giocare a rugby con lui, Williams disse di no.

Williams in azione contro il Giappone, in un’amichevole del 1971.

Durante gli anni della scuola, giocava per il Western Suburbs, ma una volta diplomatosi cambiò squadra, trasferendosi al St. George Budapest, la squadra del distretto, fondata ovviamente da immigrati ungheresi. Con il calcio non si mangiava, e così come tutti i calciatori d’Australia di quell’epoca anche Harry Williams dovette trovarsi un altro lavoro, diventando un impiegato presso il locale ufficio delle imposte. Al monotono lavoro da scrivania, affiancava un’insospettabile carriera da terzino sinistro, segnalandosi rapidamente come uno dei migliori giocatori del campionato in quel ruolo, grazie a un’eccezionale velocità e a una tecnica insolita per un giocatore difensivo. Da ragazzino, Williams era stato in realtà un’ala, quindi aveva un’impostazione principalmente offensiva. Il merito di averlo trasformato in un terzino era stato di Frank Arok, uno jugoslavo di origini magiare che era stato anche vice-allenatore del Vojvodina prima di emigrare in Australia. Privato del terzino titolare Roger Hillary a causa di un infortunio, Arok promosse Williams titolare nel nuovo ruolo, e il suo impatto sul St. George Budapest fu immediato.

Anche Rale Rašić, un altro jugoslavo che si era trasferito anni prima a Melbourne ed era divenuto ct della nazionale nel 1969, si interessò presto a lui. Poche settimane dopo il suo debutto in campionato, Harry Williams si trovò già convocato per i Socceroos, consolidando il proprio posto in rosa durante un tourne dell’Asia orientale tenutasi proprio quell’anno. Così arrivò a giocare le qualificazioni ai Mondiali del 1974, e poi anche la Coppa, subentrando in quella partita finale del girone. Il suo era il compito forse più delicato dell’intera squadra, in quel momento, perché doveva riuscire a contenere il numero 7 cileno Carlos Caszely, un attaccante di caratura internazionale che, in quel momento, vestiva la maglia degli spagnoli del Levante. Williams aveva dalla sua le energie di chi era appena entrato in campo e quella rapidità che certo non era il punto di forza del suo avversario. Grazie anche al suo apporto, l’Australia riuscì a tenere lo 0-0 anche in inferiorità numerica: i Socceroos lasciavano il Mondiale, ma avevano raccolto il primo storico punto della loro storia internazionale.

Come detto, all’epoca il terzino del St. George Budapest non ci pensava nemmeno al fatto di essere stato il primo aborigeno a giocare la Coppa del Mondo. Per i ragazzi come lui, cresciuti fuori dalle riserve in cui gli indigeni australiani erano stati confinati dal colonizzatori bianchi, l’identità etnica era spesso un concetto sfuggente. Non era stato certo il primo calciatore aborigeno della storia australiana: alla fine degli anni Cinquanta, l’Adelaide Croatia era arrivato addirittura a schierare un terzetto di calciatori indigeni, Gordon Briscoe, John Moriarty e Charlie Perkins, ma di loro il giovane Harry Williams non aveva mai sentito parlare. Iniziò a scoprirli solo nel corso degli anni Settanta, anche se non come sportivi, bensì come attivisti. In quegli anni Perkins si faceva strada nella politica australiana, segnalandosi come la più importante voce dei nativi. Proprio nell’anno dei Mondiali, aveva fatto scalpore quando era stato sospeso dal suo incarico istituzionale nello stato dell’Australia Occidentale per aver definito la coalizione del governo locale “i più grandi partiti razzisti che questo paese abbia mai visto”. Nello stesso periodo, Moriarty e Briscoe avevano lanciato Identity, la più importante rivista sulla cultura aborigena in circolazione.

Da lì in avanti, anche Harry Williams iniziò a riflettere sulle sue origini e su cosa volesse dire essere degli sportivi aborigeni in Australia. Il suo caso – con quelli di Briscoe, Moriarty e Perkins – confermava come il calcio fosse un terreno ideale per l’integrazione delle persone native attraverso lo sport, ma tra tutti i giovani praticanti pochissimi arrivavano a giocare continuativamente ad alti livelli. Le paghe misere non erano sicuramente attraenti, e per questo il soccer non poteva rappresentare un modo per affrancarsi dalla povertà, come invece capitava in altri paesi. Una volta, Johnny Warren, il capitano della nazionale, disse a Williams che il talento dei giovani aborigeni era una risorsa troppo importante per essere trascurata come invece avveniva. Qualcosa andava fatto. Williams andò avanti a giocare fino alla fine degli anni Ottanta, vestendo la maglia dell’Inter Monaro, dopo un breve passaggio dal Canberra City. Una volta ritiratosi, ebbe il tempo per dedicarsi a tempo pieno alla sua comunità.

Harry Williams con la maglia dell’Australia ai Mondiali del 1974.

Lanciò così la Harry Williams Cup, un torneo di calcio giovanile aperto esclusivamente ai calciatori aborigeni provenienti da tutta l’Australia. Sempre sul fronte del calcio, divenne in seguito ambasciatore della Charles Perkins Soccer Academy. Lavorò inoltre per l’amministrazione di Canberra, dirigendo l’Indigenous Services and Cultural Diversity Unit. Quella per la difesa della cultura e della storia dei popoli nativi australiani, dagli aborigeni agli isolani dello Stretto di Torres, è una battaglia lunga e complicata. Dai tempi di Williams, un solo altro aborigeno è arrivato a giocare stabilmente in nazionale – Jade North, tra il 2002 e il 2013 – e nessun altro ha più giocato una partita dei Mondiali. La lotta resta difficile anche fuori dal calcio: nel 2023, il referendum costituzionale per garantire maggiori diritti alle popolazioni indigene è stato bocciato con oltre il 60% dei voti contrari. La strada rimane ancora molta lunga.

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Fonti

BUTLER Dan, The remarkable story of the only Aboriginal man to represent the Socceroos at the World Cup, NITV

COONEY James, Meet the Socceroo legend you’ve NEVER heard of… Harry Williams turned his back on rugby league to make history in Australian football and become the first Indigenous Australian EVER to play at a World Cup, Daily Mail

GORMAN Joe, Socceroos v Chile World Cup match recalls a painful history, The Guardian

GRECO SCHWARTZ Samuel, Jade North & Harry Williams share their stories to mark NAIDOC Week, Football Australia

Harry Williams, Australian Institute of Aboriginal and Torres Strait Islanders Studies

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