Il calcio italiano ha dimenticato il 25 aprile

Chi giovedì scorso ha dato un’occhiata sui social potrebbe aver notato che praticamente tutti i club portoghesi hanno pubblicato qualcosa per celebrare il Dia da Liberdade, il giorno della caduta del regime fascista di Salazar, il 25 aprile 1974. Il cinquantennale della fine della dittatura è chiaramente un evento speciale, ma in realtà ogni anno le socità lusitane non mancano di sottolineare questa ricorrenza. Il Benfica, il Porto, lo Sporting, e poi anche tutte le altre squadre anche meno in primo piano: tutte partecipano alla memoria del giorno della democrazia in Portogallo. La fine del fascismo in Portogallo cade, com’è noto, nello stesso giorno di quella italiana, dove la liberazione dal nazifascismo è avvenuta però 29 anni prima. Eppure, in Italia praticamente nessuna società di calcio professionistico sembra avvertire il bisogno di ricordare quello che è stato un momento fondamentale per la storia del nostro paese, e anche per il nostro calcio.

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Non siamo razzisti ma supercalifragilistichespiralidoso

Quando, la scorsa settimana, diedi il titolo al precedente articolo sul caso Acerbi, temevo di avere forzato un po’ troppo i toni: “Non saremo razzisti, ma ci proviamo con tutto noi stessi”. Sette giorni dopo, sembra però evidente che quella frase era stata fin troppo generosa, e soprattutto mi sono ritrovato senza più un titolo così adeguato per questa necessaria seconda parte. Qui non intende tornare nel merito di ciò che è successo in campo e della sentenza, perché il Giudice Sportivo ha preso una decisione definitiva. Prove video, audio o altre testimonianze non ce ne sono, per cui non ho elementi per discutere l’assoluzione del difensore dell’Inter. C’è però tutto un contorno di questa videnda che dimostra molto chiaramente come la questione del razzismo sia intrinsecamente inaffrontabile nel calcio italiano. E il problema è prima di tutto informativo ed educativo: nel senso che la maggior parte della gente che dovrebbe conoscere il fenomeno pare invece essere la meno informata a riguardo.

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Non saremo razzisti, ma ci proviamo con tutto noi stessi

Il caso tra Acerbi e Juan Jesus segnerà probabilmente un prima e un dopo nel rapporto tra il calcio italiano e il razzismo. Quale sarà la decisione del Giudice Sportivo, attesa già nella prossima settimana, le conseguenze sono probabilmente prevedibili: in caso di condanna, gli innocentisti quasi certamente peroreranno la causa del difensore nerazzurro paventando o complotti anti-Inter o la solita “dittatura del politicamente corretto”; in caso di assoluzione, sarà difficile, dopo quello che è circolato sui social, lavare via dal giocatore l’immagine del razzista impunito, considerati anche i precedenti non proprio edificanti del nostro calcio nel sanzionare simili comportamenti. E, ovviamente, se ci sarà la squalifica la carriera di Acerbi potrà dirsi finita: è già trapelato che l’Inter potrebbe licenziarlo, di sicuro non verrà portato agli Europei, e a 36 anni gli converrà ritirarsi e lasciar calmare le acque, nella speranza di poter rientrare nell’ambiente in un prossimo futuro.

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Stiamo assistendo alla fine del modello tedesco?

Un terremoto sta scuotendo le fondamenta del calcio tedesco: lunedì 11 dicembre, la DFL – l’organizzazione che gestisce le due leghe professionistiche del paese – ha annunciato il raggiungimento di un accordo tra i club per l’apertura a nuovi investimenti da parte dei fondi di private equity. Un fatto storico, soprattutto per il suo aspetto implicito: le dirigenze di due terzi dei club (questa la maggioranza richiesta per il via libera) hanno preso una decisione in aperta opposizione al volere dei loro tifosi, che in Germania rappresentano una fetta consistente dei soci. Non stupisce allora che pochi giorni dopo l’associazione delle tifoserie tedesche facesse uscire un comunicato da battaglia, lanciando lo slogan “Wir werden kein teil eures deals sein!”, che si è poi visto esposto in diverse curve nel successivo turno di campionato. Numerosi gruppi ultras sono rimasti in silenzio per 12 minuti all’inizio delle partite come forma di protesta, e in alcuni casi si sono verificati lanci di oggetti in campo (palle da tennis e monete di cioccolato), che hanno costretto alla temporanea sospensione di alcuni incontri. Ma questa situazione è in realtà solo la punta dell’iceberg.

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Superlega e populismo: il discorso politico nel calcio europeo

Il ritorno di fiamma – per ora molto mite – della Superlega si è consumato nella giornata di giovedì 21 dicembre 2023, quando la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha emesso una sentenza contro il monopolio di UEFA e FIFA sul calcio del Vecchio Continente. Una sentenza “epocale”, secondo alcuni – principalmente italiani – alla pari del caso Bosman. La possibilità di una rinascita del progetto Superlega ha però portato con sé prese di distanza più che adesioni, e anche questa volta, così come due anni e mezzo fa, il vento della rivoluzione è sembrato piuttosto una leggera brezza. Quello che succederà non lo possiamo sapere, ma ciò che invece è successo e può essere analizzato e discusso è l’affascinante uso che le parti in causa hanno fatto del linguaggio, rafforzando stili e idee già visti nell’aprile 2021, e che mostrano una spiccata evoluzione della politica del calcio europeo verso quel populismo oggi imperante nella politica extra-sportiva.

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Il caso Demba Seck

Un giovane calciatore di Serie A, due denunce, un magistrato che potrebbe aver coperto il giocatore per ragioni di tifo, la totale indifferenza del suo club e delle istituzioni calcistiche italiane, i discorsi e le iniziative di facciata contro la violenza sulle donne. Il caso di Demba Seck, 22enne attaccante del Torino accusato di revenge porn e minacce, è un altro episodio emblematico della cultura dello stupro che pervade il mondo del calcio, che soprattutto in Italia germoglia in un sistema del tutto incapace di accorgersene, tantomeno di affrontare qualsivoglia tematica sociale. Come un anno fa con il caso di Manolo Portanova, anche oggi si è deciso di scrivere un articolo per approfondire una vicenda ancora non abbastanza nota.

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Il calcio italiano non ha la minima idea di cosa fare contro violenza sulle donne

Una maglia speciale, i capitani che leggeranno una poesia, un pallone rosso: sono queste le idee messe in campo dalla Serie A e dalla Serie B per questa giornata dei campionati, per sensibilizzare sul tema della violenza sulle donne dopo il drammatico caso del femminicidio di Giulia Cecchettin. Sia chiaro: queste iniziative, per quanto simboliche, è tendenzialmente sempre meglio farle che non farle, e di certo non ci si può attendere che sia il calcio a risolvere i problemi sociali del paese. Bisogna però anche riconoscere che esiste una fastidiosa stereotipizzazione nel modo in cui il principale sport italiano si confronta con questa e altre tematiche, che finisce per farne emergere l’assoluta vacuità, soprattutto davanti a casi di cronaca così sconvolgenti.

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Israele, Palestina e le contraddizioni politiche del calcio europeo

Il conflitto israelo-palestinese dura da decenni, eppure nel 2023 sembra aver raggiunto un livello di intensità del dibattito mai visto prima. La prospettiva del mondo del calcio non può che essere molto parziale e riduttiva rispetto alla complessità di ciò che sta avvenendo, ma può almeno fornire un piccolo esempio di come questo dibattito si sia radicalizzato, mettendo in crisi molti dei principi politici e dei valori che la società occidentale (e il suo sport) hanno sempre vantato. La tanto decantata separazione tra sport e politica si è infatti rivelata una volta di più del tutto inadeguata a rispondere alle necessità della società contemporeanea.

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Cosa vuole davvero l’Arabia Saudita?

Anche se il calciomercato è finito, l’Arabia Saudita aleggia ancora come un fantasma sopra l’Europa pallonara. L’ultima ricca campagna acquisti dei club sauditi, in particolare quelli controllati dal PIF, ha lasciato un segno profondo sugli equilibri e la sicurezza del calcio del Vecchio Continente, e anche se alla fine Messi, Mbappé, Kroos e Salah ha detto di non essere interessati alle offerte della Saudi Pro League, la sensazione comunque è che qualcosa di grosso sia successo, e che nelle prossime finestre di mercato questa situazione si riproporrà. Dei timori e delle speranze del calcio europeo attorno alla fragorosa irruzione saudita si è già scritto qui e qui, ma è forse giunto il momento di fare una riflessione ben più ampia su quali siano i reali obiettivi di Riad. Da un paio d’anni almeno, anche qui in Italia sia parla spesso di sportwashing, ma questo in realtà rappresenta solo una fetta della torta araba.

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L’Arabia Saudita sarà come la Cina?

Lunedì, con la notizia del passaggio di Sergej Milinković-Savić all’Al-Hilal, l’Arabia Saudita si è ripresa le prime pagine dei giornali sportivi italiani, riproponendo una domanda a cui si era già provato a rispondere: sarà lì il futuro del calcio, e non più in Europa? Da un lato abbiamo i catastrofisti, secondo cui ormai la vecchia Europa è finita e tra qualche anno finiremo a guardare su Sky i grandi campioni che giocano nella Saudi Pro League. Dall’altro, gli iper-ottismisti, secondo cui la bolla saudita è destinata a scoppiare come quella cinese (e come molte altre che abbiamo visto in precedenza, a dire il vero). Su quest’ultimo punto vale la pena fare qualche riflessione aggiuntiva, cercando di mettere in ordine similitudini e differenze, ma soprattutto ragionando in maniera equilibrata.

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