Non siamo razzisti ma supercalifragilistichespiralidoso

Quando, la scorsa settimana, diedi il titolo al precedente articolo sul caso Acerbi, temevo di avere forzato un po’ troppo i toni: “Non saremo razzisti, ma ci proviamo con tutto noi stessi”. Sette giorni dopo, sembra però evidente che quella frase era stata fin troppo generosa, e soprattutto mi sono ritrovato senza più un titolo così adeguato per questa necessaria seconda parte. Qui non intende tornare nel merito di ciò che è successo in campo e della sentenza, perché il Giudice Sportivo ha preso una decisione definitiva. Prove video, audio o altre testimonianze non ce ne sono, per cui non ho elementi per discutere l’assoluzione del difensore dell’Inter. C’è però tutto un contorno di questa videnda che dimostra molto chiaramente come la questione del razzismo sia intrinsecamente inaffrontabile nel calcio italiano. E il problema è prima di tutto informativo ed educativo: nel senso che la maggior parte della gente che dovrebbe conoscere il fenomeno pare invece essere la meno informata a riguardo.

Una settimana fa si era parlato di alcuni interventi discutibili fatti da noti giornalisti sportivi italiani sulla vicenda Acerbi. Professionisti esperti come Giancarlo Dotto, Carlo Laudisa e Ivan Zazzaroni avevano condannato il razzismo e si erano spinti a considerare già colpevole il giocatore dell’Inter, ma nelle loro opinioni avevano dimostrato, in maniera differente, una completa ignoranza sul tema. Dotto aveva pensato bene di dedicare una corposa parte del suo articolo alle “colpe” di Juan Jesus; Laudisa aveva proposto sul social X una “blackface riparatoria” per Acerbi; e Zazzaroni aveva chiesto di perdonare il giocatore interista per rispetto alla sua carriera. Un cerchiobottismo paradossale, in cui gli autori hanno finito sostanzialmente per dire quasi esclusivamente tutto ciò che sarebbe stato meglio non dire. Bisogna aggiungere che, purtroppo, anche dopo la sentenza di martedì scorso, che ha chiuso il caso a livello giuridico, non sono mancate uscite inspiegabili da parte della stampa sportiva.

L’esempio migliore è l’articolo di Elisabetta Esposito uscito sulla Gazzetta dello Sport giovedì 28 marzo, in cui si prova a ricostruire il motivo per cui si è arrivati a un’assoluzione per il difensore dell’Inter. “Provare” è un verbo necessario, dato che l’intero pezzo si basa su supposizioni, ipotesi dell’autrice e su nessuna indiscrezione o informazione diretta su quanto avvenuto esattamente. Viene da domandarsi il senso di un articolo del genere, che promette di fare chiarezza su una vicenda dai contorni ancora molto indefiniti. Esposito non sa dire quale sia la versione difesa da Acerbi davanti al procuratore federale Chiné (“si parla del famoso «Ti faccio nero»”: ma chi ne parla?), ma non ha problemi nell’ammettere che il giocatore italiano “era decisamente preparato” a rispondere alle domande. Per contro, Juan Jesus ha peccato di “un’ingenuità buona”, perché ad esempio non ha portato con sé un avvocato. Come ha risposto in seguito l’agente del brasiliano Roberto Calenda, il giocatore del Napoli non era tenuto a rivolgersi ad alcun avvocato, cosa che non è nemmeno prevista dalle regole, dato che non è lui l’imputato e che non era nemmeno parte in causa nel procedimento.

L’articolo di Esposito, pur con tutte le gentili parole che rivolge a Juan Jesus, sposta implicitamente colpe e responsabilità su di lui, dipingendo invece un ritratto molto più positivo di Acerbi. Al brasiliano viene addirittura rimproverato di aver firmato il verbale della deposizione probabilmente senza averlo capito, dato che è scritto “in una lingua che non è la sua” (Juan Jesus ha passato in Italia 12 dei suoi quasi 33 anni di vita). Un puntualizzazione peraltro discutibile, perché implica che in qualche modo la sua testimonianza avrebbe potuto essere stata alterata nei verbali: personalmente, mi sembra una cosa gravissima da pensare. Non si capisce nemmeno perché una simile cosa sarebbe dovuta accadere, dato che la mancata squalifica di Acerbi non è stata dovuta a ciò che ha detto il brasiliano, ma dall’assenza di ulteriori conferme. Perché allora parlare delle sue proprietà linguistiche? Da questo punto di vista, dunque, l’articolo di Esposito è un sequel perfetto di quello di Dotto della settimana prima: è il giocatore che ha denunciato l’insulto razzista a essere maggiormente messo sotto esame.

Juan Jesus ai tempi dell’Inter, dov’è arrivato nel gennaio del 2012.

Il che è paradossale, se pensiamo che noi nemmeno conosciamo la versione ufficiale di Acerbi (quel “Ti faccio nero” è un’ipotesi di ciò che, secondo la Gazzetta, il giocatore avrebbe detto all’Inter, mai confermata da nessuna delle parti). Inoltre, il fatto che a livello comunicativo e di preparazione sia stato impeccabile è alquanto discutibile, e lo conferma l’intervista di venerdì al Corriere della Sera. In questa occasione, Acerbi insiste di non aver rivolto insulti razzisti a Juan Jesus, ma aggiunge anche che, se un arbitro dovesse annotare ogni cosa che si dicono i giocatori in campo, “diventa tutto condannabile, anche gli insulti ai serbi”. Una frase da cui emerge chiaramente che, per Acerbi, insultare una persona per via della sua appartenenza a uno specifico gruppo etnico non sia considerabile razzismo. Probabilmente si riferisce ai frequenti casi in cui, in Serie A, giocatori serbi sono stati bersagliati dal pubblico con cori che li chiamavano “zingari”. Nel maggio 2023, il Giudice Sportivo Gerardo Mastrandrea (lo stesso che ha assolto Acerbi martedì) aveva disposto la chiusura della Curva Nord Pisani dell’Atalanta proprio per aver rivolto simili cori a Dušan Vlahović, che sono stati ritenuti “cori beceri e insultanti di discriminazione razziale”.

Le parole dell’intervista non sono ovviamente condannabili su un piano di giustizia sportiva, ma denotano chiaramente il pensiero di Acerbi: per lui, insultare i serbi in quanto tali non è razzismo, nonostante nel calcio italiano questo non sia generalmente tollerato. Ciò non implica nulla in merito al caso con Juan Jesus, ma a livello comunicativo è un’uscita senza dubbio discutibile, che cozza con l’immagine di una persona che sarebbe invece stata molto preparata a rispondere alle accuse di razzismo. Ma d’altronde la sua difesa, se ha funzionato davanti al Giudice Sportivo, ha funzionato molto meno bene davanti all’opinione pubblica: Acerbi, come detto, non ha mai fornito una sua versione ufficiale dell’accaduto; ha parlato pubblicamente solo al ritorno dal ritiro della Nazionale, lunedì 18, e non appena gli è stato domandato perché si fosse scusato ha iniziato a balbettare qualcosa di poco comprensibile, da cui non si capisce se le scuse all’avversario ci siano state davvero o no.

La disparità di trattamento tra i due giocatori, almeno su alcuni media di primo piano, è stata evidente. Ma anche dalla Federcalcio, da cui ci si dovrebbe aspettare un’attenzione maggiore, le parole sono state decisamente mal calibrate. Giovedì 28 marzo il presidente Gravina ha detto che “sul piano umano non mi esimerò dall’abbracciare Acerbi quando lo vedrò”. Che è legittimo, dato che il difensore è stato assolto, parlare di “piano umano” e di “abbracciare” in una vicenda che non è stata chiarita (la sentenza del Giudice Sportivo è indiscutibile, su questo punto: non esclude che ci sia stato un insulto razzista, ma non ci sono prove che lo confermino, per cui giustamente in dubio pro reo). In seguito, Gravina ha aggiunto di essere anche “vicino umanamente a Juan Jesus”, in un raffinato esercizio di equilibrismo che, però, in casi del genere sarebbe meglio evitare. Non si può essere vicino umanamente sia a chi è accusato di razzismo, ma viene assolto per mancanza di prove, sia a chi lo ha accusato: in questo caso, purtroppo, uno dei due sta mentendo. Noi non sappiamo chi – e la giustizia sportiva non è tenuta ad appurarlo – e proprio per questo la cosa migliore da fare sarebbe di non parlare di “piano umano”, e limitarsi ai fatti accertati: Acerbi è stato assolto e non c’è alcun motivo giuridico per emarginarlo. Fine.

Il quadro generale si conferma abbastanza desolante: quasi ogni persona con grande visibilità ad aver trattato l’argomento ha detto delle assurdità che avrebbe tranquillamente potuto evitare. Ma il fatto che una di queste sia anche il presidente della FIGC rende il tutto alquanto serio, perché dalle istituzioni ci si deve aspettare un atteggiamento diverso, soprattutto nel momento in cui da anni si parla di lotta al razzismo negli stadi senza però vedere alcun concreto passo avanti. E così si rafforza l’idea che il sistema del calcio italiano abbia un problema culturale con le discriminazioni razziali talmente radicato in profondità che in ogni momento non si fa che ribadirlo, anche quando si cerca di fare l’esatto opposto. Questa cultura perversa parte dalle istituzioni e dai grandi media, come abbiamo visto, e viene naturalmente trasmessa ai tifosi, che troppo spesso – consapevoli o meno del significato dei propri comportamenti – negano, minimizzano, legittimano e in alcuni casi addirittura reiterano queste dinamiche malsane.

I giocatori del Napoli in ginocchio contro il razzismo, sabato 30 marzo. Un gesto che, in Italia, non si è visto quasi mai: nell’estate del 2021, agli Europei contro il Galles, solo 5 giocatori su 11 si inginocchiarono come fatto dagli avversari.

Un piccolo riepilogo di cosa è successo nel mondo del pallone, mentre in Italia si discuteva (male) del caso tra Acerbi e Juan Jesus. Il giorno prima della sentenza del Giudice Sportivo, in Spagna Vinícius Jr. scoppiava a piangere durante una conferenza stampa, parlando delle discriminazioni che subisce in campo. L’attaccante brasiliano si è dovuto subire gli insulti dell’ex-portiere paraguayano, oggi politico fascistoide, José Luis Chilavert, che lo ha chiamato “frocio” (“maricón”, in spagnolo) e le minimizzazioni di Dani Parejo (“Io vengo chiamato ubriaco, ma non la faccio tanto lunga come lui”). In Francia, i giocatori del Metz sono scesi in campo con delle magliette speciali con sopra raffigurati i percorsi migratori delle loro famiglie, per rovesciare i concetti di immigrazione e confine. Nella terza serie spagnola, i giocatori del Rayo Majadahonda hanno abbandondato il campo dopo che un loro compagno è stato espulso per aver reagito a degli insulti razzisti ricevuti da dei tifosi avversari. Qui da noi, sabato 30 marzo, diverse persone sui social e anche la testata neofascista Il Secolo d’Italia hanno ironizzato sui giocatori del Napoli che si sono inginocchiati contro il razzismo e poi hanno perso 3-0 contro l’Atalanta. Ognuno e ognuna può scegliere da che parte vuole stare.

Se questo articolo ti è piaciuto, aiuta Pallonate in Faccia con una piccola donazione economica: scopri qui come sostenere il progetto.

1 commento su “Non siamo razzisti ma supercalifragilistichespiralidoso”

  1. La pochezza dei “comunicatori” emerge bene anche da una dichiarazione più recente di Acerbi, che presumo abbia dietro qualcuno che cura la sua immagine pubblica: “Non posso essere razzista, il mio mito è George Weah”. Cioè, qui qualcuno crede ancora che una buona “prova” sia il “non sono razzista, ho un sacco di amici neri”.

    Piace a 1 persona

Lascia un commento