Una mappa del tifo politico del calcio in Israele

Giovedì sera un gruppo di tifosi del Maccabi Tel Aviv, in trasferta ad Atene per una gara di Conference League contro l’Olympiakos, ha aggredito una persona che sembra portasse con sé una bandiera palestinese. Il fatto ha riportato l’attenzione sulla politicizzazione del calcio in Israele, un argomento generalmente poco conisciuto in Europa se non per alcuni casi eclatanti, come quello dell’Hapoel Tel Aviv (per via del noto gemellaggio col St. Pauli) e quello, di segno ideologico totalmente opposto, del Beitar Gerusalemme. In realtà la mappa del tifo politico in Israele è ben più variegata, e per certi versi anche molto distante dallo stesso fenomeno in Italia e in buona parte dell’Europa, dove di solito i club di primo piano sono quelli coi tifosi ufficialmente meno schierati. In Israele, invece, sono proprio le squadre più seguite quelle che hanno le caratterizzazioni politiche più evidenti.

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Hiddink contro i nazisti

Il 9 febbraio 1992 si scrive una piccola ma significativa pagina della storia del calcio in Spagna. Allo stadio Lluís Casanova di Valencia si gioca una partita di metà campionato tra la squadra di casa, terza in classifica, e la sorpresa Albacete, neopromossa e quinta nella Liga, imbattuta da undici partite. Ma la storia dell’incontro non la fa tanto quel che succede in campo dopo il fischio d’inizio, ma bensì quando avviene oltre i bordi del rettangolo verde giusto prima del via. L’allenatore del Valencia, un 45enne olandese di nome Guus Hiddink, si avvicina a un membro del personale dello stadio durante il riscaldamento e gli indica un punto ai limiti del campo, oltre il fallo laterale, dove ci sono le transenne che separano i tifosi ospiti dal prato. “Togliete subito quella cosa, se no non si gioca” dice secco Hiddink. Quella cosa è una bandiera con una svastica.

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Un aborigeno ai Mondiali

La strada tra Peakhurst e Berlino Ovest sembrava spropositata. Calcare il campo dell’Olympiastadion faceva tremare le gambe, e quello stadio semivuoto (anche se quasi 15.000 presenti non erano certo meno del pubblico con cui erano soliti confrontarsi in Australia) amplificava ulteriormente quella sensazione abbacinante. A 23 anni, quello era il suo momento: lo aveva inseguito a lungo, aveva messo da parte il rugby – prendendosi non pochi insulti, per questo – per poter esser un calciatore squattrinato che adesso stava giocando il Mondiale. Harry Williams sentiva di far parte di una squadra di pionieri: i primi Socceroos a giocare la Coppa del Mondo. Avevano perso le prime due partite, in cui lui non era sceso in campo, e per la terza gara del girone contro il Cile speravano almeno in un pareggio. Una stoica resistenza contro i giocolieri sudamericani, che avevano bisogno di una vittoria per passare il turno. A una decina di minuti dalla fine, il ct Rašić aveva tolto Colin Curran per inserire un giocatore fresco ed energico come Williams, subito dopo che Ray Richards si era preso il secondo giallo, assestando un brutto colpo alle speranze australiane.

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Tito contro la Torcida

La mattina del 29 ottobre 1950, la quiete della soleggiata città costiera di Spalato venne scossa dall’improvviso arrivo in città di un centinaio di studenti chiassosi come non se n’erano mai visti. Erano appena scesi alla stazione da un treno proveniente da Zagabria, e stavano attraversando la città diretti verso lo stadio Stari Plac suonando trombe, campanelli e sonagli e fischiando rumorosamente. Il loro passaggio si fece particolarmente sentire sotto le finestre di un hotel del centro, dove era alloggiata la Stella Rossa di Belgrado, ospite a Spalato in vista della partita che si sarebbe dovuta giocare di lì a poco contro la squadra locale, l’Hajduk. Questo gruppo di scalmanati portava bandiere con il bianco tipico della formazione dalmata, e rappresentava qualcosa di mai visto nel calcio balcanico. Gli studenti croati si facevano chiamare con un esotico nome portoghese, Torcida.

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Ritorno a Kinshasa

L’indipendenza era stata tanto agognata quanto effimera. Le grandi speranze trasportate dalla voce di Patrice Lumumba si erano dissolte in fretta come il suo governo, durato pochi mesi prima di essere travolto dalla guerra civile, e lo stesso Lumumba catturato e ucciso dalle truppe del generale Joseph-Désiré Mobutu. Mentre s’impegnava a sedare i conflitti e ad assicurarsi il controllo di tutto il paese, il generale iniziava anche a pensare di rimpatriare i calciatori emigrati all’estero negli anni passati. Mobutu aveva in mente un feroce nazionalismo altamente simbolico, basato sul controllo delle risorse congolesi, fossero esse minerarie o sportive. Nel 1965, dopo aver deposto anche il Presidente Joseph Kasa-Vubu, assumeva il pieno potere, e poteva così dare il via al suo progetto: iniziava il ritorno dei calciatori a Léopoldville, che da quel momento in avanti sarebbe divenuta nota con il suo nome in lingala, cioé Kinshasa.

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Perché Israele non gioca la Coppa d’Asia

La recente impresa della nazionale palestinese, che per la prima volta nella storia ha superato la fase a gironi della Coppa d’Asia, ha portato molti tifosi a domandarsi come mai a questa competizione non partecipi anche Israele, che geograficamente è un paese mediorientale. Com’è noto, la federazione ebraica fa parte della UEFA, la confederazione europea: disputa le qualificazioni agli Europei, si gioca la qualificazione ai Mondiali tra le nazionali del Vecchio Continente, e i suoi club competono regolarmente nei tornei UEFA. La ragione di questa stranezza è facilmente intuibile alla luce del lungo conflitto israelo-palestinese, ma non è sempre stato così, anzi: fino al 1968, Israele si era sempre piazzato sul podio della Coppa d’Asia, vincendola anche nel 1964, e la sua unica presenza ai Mondiali, nel 1970, era stata proprio in rappresentanza della confederazione asiatica AFC. Il punto di svolta nella storia del calcio israeliano si è verificato nel 1974, ma le radici di questo evento sono chiaramente molto complesse.

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“Il calcio come esperienza religiosa”: un incantesimo del calcio italiano

Giochiamo a carte scoperte: nelle recensioni non si fa mai, ma ogni tanto sarebbe bello se il recensore spiegasse il motivo per cui ha deciso di approcciarsi al libro di cui sta scrivendo. Il primo input alla lettura di Il calcio come esperienza religiosa di Andrea Novelli (Ultra Sport, 2023) mi è arrivato dal titolo, che era quasi identico a quello di un saggio di Marc Augé del 1982 (Football. Il calcio come fenomeno religioso, edito in Italia da EDB nel 2016), di cui avevo già discusso in passato. Siccome i legami tra calcio e religione su uno degli aspetti del pallone che ritengo più interessanti e ancora troppo superficialmente conosciuti, il libro di Novelli mi aveva subito attirato, e avevo così completamente ignorato il suo sottotitolo fino a che non mi sono trovato tra le mani l’opera stessa: 19 aprile 1989, il giorno che ha cambiato la storia del calcio italiano.

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Domande (e risposte) non scontate sul calcio africano

La Coppa d’Africa è iniziata, e questo per il pubblico del calcio europeo significa sostanzialmente una cosa: un mese di lamentele perché alcuni importanti giocatori si assentano dai club per disputare un torneo di cui quasi a nessuno, nel Vecchio Continente, importa qualcosa. Il fatto la Coppa d’Africa riguardi un pubblico potenziale di 1,2 miliardi di persone (in Europa siamo 746 milioni, per dire) non sembra essere abbastanza rilevante, in questo discorso. In generale, quando si parla del calcio africano ci si porta sempre dietro un bagaglio di stereotipi culturali figli del colonialismo ottocentesco di cui molte persone neppure si rendono conto. Di alcuni di questi si era già scritto nelle scorse settimane, ma la contemporaneità del torneo della CAF offre l’occasione per approfondire la questione, anche se in modo un po’ diverso dal solito. Di seguito trovate una serie di domande sul calcio africano a cui potrete provare a dare una risposta, e probabilmente scoprirete che la realtà storica è molto diversa da quello che verrebbe da pensare. Prendetelo come un piccolo gioco sui pregiudizi.

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