Non saremo razzisti, ma ci proviamo con tutto noi stessi

Il caso tra Acerbi e Juan Jesus segnerà probabilmente un prima e un dopo nel rapporto tra il calcio italiano e il razzismo. Quale sarà la decisione del Giudice Sportivo, attesa già nella prossima settimana, le conseguenze sono probabilmente prevedibili: in caso di condanna, gli innocentisti quasi certamente peroreranno la causa del difensore nerazzurro paventando o complotti anti-Inter o la solita “dittatura del politicamente corretto”; in caso di assoluzione, sarà difficile, dopo quello che è circolato sui social, lavare via dal giocatore l’immagine del razzista impunito, considerati anche i precedenti non proprio edificanti del nostro calcio nel sanzionare simili comportamenti. E, ovviamente, se ci sarà la squalifica la carriera di Acerbi potrà dirsi finita: è già trapelato che l’Inter potrebbe licenziarlo, di sicuro non verrà portato agli Europei, e a 36 anni gli converrà ritirarsi e lasciar calmare le acque, nella speranza di poter rientrare nell’ambiente in un prossimo futuro.

Ma queste sono cose su cui, al momento, c’è poco da aggiungere a ciò che ho già scritto in settimana (qui, qui e qui, per dire). C’è in realtà un altro aspetto della vicenda di cui si è parlato poco, e di cui si continuerà a parlare poco e che non genererà mai processi, dibattiti seri, sanzioni né tantomeno riflessioni su come evitare che si ripetano queste situazioni in futuro: il versante giornalistico. Perché ovviamente il modo in cui vicende di questo tipo vengono raccontate è esso stesso un fenomeno da analizzare e, nel caso, criticare. Purtroppo, però, da tempo il giornalismo italiano ha perso qualsiasi capacità auto-critica, scindendosi in due fazioni del tutto isolate l’una dall’altra: quella di alcuni giornalisti marginali, critici ma senza la minima capacità di influire sul dibattito (tra cui, modestamente, figura anche il sottoscritto); e quella dei giornalisti di punta dei media italiani, che potrebbero sì influire, ma sono sordi alle critiche o, se non questo, disinteressati a contestare i propri colleghi.

L’articolo di Giancarlo Dotto sulla Gazzetta dello Sport di martedì mattina è l’esempio più evidente del problema in analisi. Un pezzo che riserva parole durissime contro il razzismo e contro lo stesso Acerbi, ma che sceglie inspiegabilmente di aprire con un paragrafo tutto su Juan Jesus, affibiandogli “tre colpe” (peraltro discutibili anche nel merito) e addirittura aggiungendo una tranquillamente evitabile allusione mafiosa. Un articolo che non solo non è stato rimosso dal sito, dopo le numerose polemiche che ha suscitato, ma che addirittura è stato rilanciato su Instagram con un post in cui vengono riportate le frasi salienti del discorso, ma evitando proprio quelle incriminate. Un paradossale tentativo di trasformare un pezzo irricevibile in un contenuto social virale, scommettendo sul fatto che chi avrebbe messo il like o condiviso il post non avrebbe poi voluto leggere l’articolo. Penso che questo dica molto del perverso rapporto che i quotidiani italiani hanno con i social media.

Non è per dare contro alla Gazzetta – che, anzi, cito preferenzialmente proprio perché ritengo che sia di gran lunga il miglior quotidiano sportivo italiano – ma un secondo esempio negativo arriva nuovamente dalla sua redazione. Lunedì Carlo Laudisa se n’è uscito su X con un post indiscutibilmente critico verso Acerbi, ma in cui chiudeva suggerendo al giocatore dell’Inter di “tingersi di nero: almeno per un giorno” come segno di pubblica ammenda. Sul subito, ho ritenuto fosse meglio pensare a una pessima scelta di parole per restituire una metafora (tingersi di nero nel senso di mettersi nei panni di chi ha offeso), ma sotto il post molta gente ha colto il messaggio in senso letterale e non ha mancato di segnalare il proprio disappunto. E alla fine avevano ragione loro, perché il giorno seguente Laudisa ha rincarato la dose con un altro post in cui chiedeva ad Acerbi di dipingersi letteralmente il volto di nero contro il razzismo, come fecero i giocatori del Treviso nel 2001.

“Ti faccio nero.” [cit.]

Lasciamo stare che il gesto dei trevisani aveva un senso eccezionale (innanzitutto, non erano loro ad aver rivolto un insulto razzista a qualcuno): chiunque segua il dibattito sulle discriminazioni sa bene che dipingersi il volto di nero – la cosiddetta blackface – non è un metodo valido per combattere il razzismo, ma semmai il suo esatto opposto. Alla luce di tutto questo, viene da chiedersi: è possibile che il principale quotidiano sportivo italiano – non so se lo sapete, ma parliamo del secondo quotidiano più letto d’Italia dopo il Corriere della Sera – non abbia nella propria redazione un solo giornalista consapevole e aggiornato sullo stato del dibattito su quello che non è solo uno dei principali problemi della nostra società, ma anche uno dei problemi più presenti nello sport maggiormente seguito nel paese? Immaginatevi se al Corriere della Sera non avessero nessun giornalista che sappia chi c’è oggi al governo in Israele o in Russia!

È noto che l’Italia sia un paese molto arretrato, a livello culturale, quando si parla di discriminazioni. Siamo – e purtroppo continueremo a esserlo per molti anni, agli occhi soprattutto degli osservatori stranieri – il paese in cui la Lega di Serie A voleva fare una campagna antirazzista usando tre scimmie come simbolo. Pur mosso dalle più buone intenzioni, nessuno dei dirigenti della Liga si era reso conto delle possibili conseguenze che avrebbe sollevato quell’immagine. Da anni le istituzioni del nostro calcio promettono contromisure eccezionali per combattere il fenomeno, e ancora non si è visto nulla: ricordate l’ammonizione (con conseguente espulsione) di Lukaku per reazione agli insulti razzisti? Accadeva nell’aprile del 2023, il presidente della FIGC Gravina interveniva per graziare il giocatore e prometteva che la regola sarebbe stata modificata per contemplare questa casistica: quasi un anno dopo, ancora nessuna modifica e nessuno nemmeno ne parla più.

Ma la pressoché totale ignoranza della stampa sportiva italiana sul linguaggio e sul fenomeno concreto del razzismo contemporaneo – malgrado i sicuramente utilissimi corsi di aggiornamento dell’Ordine dei Giornalisti – non è lo stesso giustificabile. Specialmente non quando arriva da firme di primo piano, da persone che non hanno necessità economiche che li spingano a un lavoro di scrittura più frettoloso o impediscano loro di avere il tempo necessario a informarsi e aggiornarsi su problemi di strettissima attualità. Già nel 2021 la Gazzetta mostrava qualche lacuna sull’argomento razzismo, quando pubblicava un articolo di Sebastiano Vernazza che, dopo una premessa necessaria in cui condannava le descriminazioni, si avventurava in un discorso critico nei confronti del gesto dell’inginocchiamento, perché poteva risultare “divisivo” e causare una “crisi di rigetto” nel pubblico. Va notato come le tre opinioni citate in queste righe – Dotto, Laudisa, Vernazza – partano da posizioni convintamente antirazziste, eppure non riescano a evitare contraddizioni, ambiguità ed errori che ne tradiscono l’impreparazione.

Detto da un giornalista freelance, precario e sottopagato: l’impreparazione è una cosa a cui giornalisti di questo calibro non hanno alcun diritto. È una mancanza di rispetto nei confronti di chi deve sudarsi ogni singolo euro dimostrando di essere sopra la media per conoscenze e capacità di scrittura. Il paradosso, in questa situazione, è che, se torniamo a quella divisione tra fazioni del giornalismo italiano, in quella degli autori marginali troviamo molta più gente in possesso delle competenze necessarie ad affrontare questi argomenti con la dovuta sensibilità. Non sto pensando certo al sottoscritto, ma a quel folto sottobosco di testate online indipendenti – da quelle professionali come l’Ultimo Uomo a quelle amatoriali come Sportellate, solo per fare due esempi tra tanti – che in questa settimana hanno pubblicato articoli in alcuni casi brillanti, e in altri perlomeno accettabili e ponderati. C’è un grosso problema quando, su argomenti centrali nel dibattito contemporaneo, autori precari se non addirittura dilettanti sono maggiormente competenti di alcuni dei principali professionisti del paese.

Come molte cose nella vita, Nanni Moretti l’ha già, meglio e più in breve.

Sulla stessa linea degli autori già citati si inserisce anche una più recente fatica intellettuale di Ivan Zazzaroni, direttore del Corriere dello Sport, che ha atteso sabato 23 marzo (cioè, sei giorni di riflessioni) per fare uscire un editoriale in cui afferma che secondo lui Acerbi è colpevole e Juan Jesus è nel giusto, ma nonostante questo il difensore dell’Inter non debba essere punito. La motivazione è che “Non merita di chiudere la carriera con una squalifica di questa portata e con una motivazione simile”. Il meccanismo dialettico è sempre lo stesso: una firma esperta e influente del giornalismo sportivo riconosce l’episodio razzista, riconosce che il razzismo è sbagliato, ma arriva comunque ad aggiungere al proprio discorso un elemento che ne ribalta tutto il senso. La suddetta firma vuole esprimere i commenti più sprezzanti possibili contro i razzisti, per dimostrare chiaramente da che parte sta, ma allo stesso tempo non riesce a sottrarsi dal narcisistico bisogno di aggiungere “qualcosa di brillante” che permetta al suo articolo di spiccare sugli altri con una tesi o una proposta originali.

Che, per carità, andrebbe benissimo: il valore di una penna, giornalistica o meno, nasce proprio da quel bisogno di dire qualcosa che gli altri non hanno ancora pensato. Ma bisognerebbe sapere di cosa si sta parlando, bisognerebbe conoscere i confini oltre i quali le nostre parole diventano altro da quello che in realtà vogliamo dire. Il giornalista, specialmente in casi che hanno riflessi sociali come questo, è al servizio dell’intelligenza e della sensibilità del lettore, non al servizio della propria voglia di spiccare sugli altri. Se non si riescono a vedere quei confini, allora forse è necessario trovare dentro di sé la forza per sottrarsi al bisogno di scrivere dell’argomento di cui parlano tutti, e lasciare questo fardello a chi i suddetti confini li conosce meglio di noi.

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