Scorrendo la classifica degli assist di questa stagione di Serie A, tra la solita infornata di centrocampisti e attaccanti, emerge a un tratto un nome inaspettato: Rafael Tolói. Ha 29 anni, la sua famiglia è di origine trevigiana, ma lui è nato e cresciuto a Glória d’Oeste, nel Mato Grosso. E gioca difensore centrale, ecco perché sembra quasi incredibile che a metà campionato abbia già messo a segno cinque assist: tanti quanti due dei migliori registi del campionato, Marcelo Brozović e Sergei Milinković-Savić; più di Paulo Dybala, Lorenzo Insigne e Federico Chiesa; solo due in meno del romanista Lorenzo Pellegrini o del Papu Gómez, compagno di Tolói all’Atalanta e secondo in questa classifica.
I registi difensivi non sono una novità assoluta, ma di certo Tolói non è considerato tra i più forti al mondo in questo ruolo. La sua carriera parla per lui: è cresciuto nel modesto Goiás e si è poi messo in mostra nel più noto São Paulo, attirando l’interesse di Walter Sabatini, che lo portò in prestito alla Roma nel 2013 e lo mise a disposizione del tecnico Rudi Garcia. Giocò solo una manciata di partite, senza lasciare il segno, tornò in Brasile e rivide l’Italia senza troppo clamore due anni dopo, acquistato dall’Atalanta. Fu un utile ricambio nella turnazione difensiva di Edy Reia, mettendo in luce discrete abilità. Poi, qualcosa cambiò radicalmente.
Nella stagione seguente, il suo impiego aumentò in maniera esponenziale, e l’Atalanta raggiunse un incredibile quarto posto in classifica. La sua partecipazione alla manovra dei bergamaschi era cresciuta, e da semplice stopper si stava trasformando in un regista basso, svelando un’ottima capacità nel portare palla e dettare i passaggi. In entrambe le successive due stagioni ha messo a segno rispettivamente tre assist, anticipando l’exploit di quest’anno. A fine ottobre, SkySport evidenziava come ci sia un solo difensore che ha servito più assist del brasiliano negli ultimi tre campionati: Aleksándar Kolárov della Roma, che però è un terzino, e di quelli maggiormente offensivi in Europa.
La svolta della carriera di Tolói si chiama Gian Piero Gasperini, arrivato a Bergamo nel 2016: allenatore dichiaratamente “olandese” nel modo di concepire il calcio, ha completamente ridisegnato l’Atalanta trasformandola in una delle squadre più forti d’Italia, valorizzando la difesa a tre ed eleggendo Tolói secondo regista della squadra, dietro a Gómez, che da comune trequartista è divenuto a sua volta un centrocampista totale, tra i più versatili della Serie A.
Tutto questo, però, si estende ben oltre i confini della cittadina lombarda, e investe l’intero campionato italiano. Quella che è sempre stata la patria del difensivismo, del catenaccio-e-contropiede, si è trasformata negli ultimi anni in uno dei più interessanti laboratori tattici d’Europa, seguendo l’esempio battuto in precedenza dalla Germania. Gasperini è stato uno dei primi allenatori posizionisti di nuova generazione, e il suo arrivo nel 2010 nell’Inter post-Triplete poteva essere l’inizio di una rivoluzione, ma il brusco passaggio da un calcio strutturato e attendista come quello di Mourinho al metodo dell’allenatore di Grugliasco non venne capito, e si risolse in una bocciatura su tutta la linea che per un po’ sembrò aver posto fine alle sue ambizioni. Ma nello stesso periodo, altre cose sono cambiate, attorno a lui.

Pochi giorni fa, Antonio Gagliardi – uno dei più importanti analisti della FIGC – annunciava alcuni dati molto significativi: a inizio decennio, nella Top10 dei giocatori che completavano più passaggi in Serie A c’erano solo centrocampisti; cinque anni dopo, metà erano divenuti difensori. Oggi, nel 2020, i difensori sono la maggioranza: sette, contro tre centrocampisti. La dimostrazione inequivocabile che il modo d’intendere il calcio è cambiato radicalmente: la costruzione dal basso è divenuta un fattore determinante. Sfogliando la classifica dei passaggi dell’ultimo decennio, nelle prime posizioni troviamo Kalidou Koulibaly, Leonardo Bonucci, Giorgio Chiellini, Andrea Barzagli, Milan Škriniar, Stefan de Vrij, Daniele Rugani, ma anche alcuni ex come Raúl Albiol: la loro storia è la storia di come è cambia la Serie A.
Una cosa che collega molti di questi nomi è il fatto di essere stati a lungo sottovalutati: Chiellini ha iniziato come terzino sinistro, Barzagli è arrivato alla Juventus – la sua prima “grande” – che aveva già 30 anni e senza suscitare particolare clamore; Koulibaly è stato scovato dal Napoli tra i belgi del Genk; Škriniar è giunto in Italia grazie alla Sampdoria, che lo aveva visionato nel campionato slovacco.
Ancora più esemplificativa è la storia di Bonucci: nel 2009 formava la giovane coppia difensiva del Bari assieme ad Andrea Ranocchia, ma tra i due era il secondo – alto, forte fisicamente, dominante nel gioco aereo – a convincere maggiormente gli osservatori. Poco tempo dopo, si accasarono rispettivamente alla Juventus e all’Inter, e oggi possiamo tranquillamente dire che Bonucci è uno dei difensori più forti d’Europa e tra i migliori esempi di regista difensivo moderno, mentre Ranocchia è ormai una terza linea dell’Inter.
Le carriere di questi giocatori si sono intrecciate indissolubimente con quelle degli allenatori posizionisti che hanno rinnovato la Serie A dell’ultimo decennio, seguendo lo sviluppo del calcio mondiale propiziato, a partire dal 2008, dal Barcellona di Guardiola. L’ascesa di Bonucci è legata a quella di Antonio Conte, che nel 2011 divenne allenatore di una Juventus reduce da cinque anni di profonda crisi, e impostò la squadra che da allora domina il campionato. Da questa stagione, Conte siede sulla panchina dell’Inter e sta esaltando al massimo Škriniar e De Vrij: l’olandese in particolare si sta rendendo protagonista di una stagione di grande livello, giocando da vero playmaker della squadra. Il 20 ottobre, in casa del Sassuolo, De Vrij ha siglato l’assist per il raddoppio di Lukaku, dopo esser salito palla al piede sulla trequarti avversaria e aver visto il movimento nello spazio del compagno; tre giorni dopo, a San Siro, faceva esattamente la stessa cosa, servendo una palla perfetta (stavolta alta) per l’inserimento di Lautaro Martínez nella vittoria sul Borussia Dortmund.

Nei suoi primi anni come allenatore, Conte si era messo in luce per uno stile di gioco spregiudicato e basato sul possesso palla, espresso tramite il celebre 4-2-4 con cui aveva vinto il campionato di B col Bari, ma nel corso della sua prima stagione ala Juventus lo modificò presto in un 4-3-3, e infine nel suo attuale 3-5-2, adottando quella difesa a tre che Gasperini utilizzava da circa un decennio e che molti ritenevano ormai superata. Questo ha generato un equivoco, attorno al tecnico pugliese: quello di aver modificato le proprie convinzioni tattiche in virtù di un gioco più “italiano” e difensivista. In realtà, pur moderandosi, Conte ha continuato a proporre un gioco basato sui passaggi, la costruzione dal basso e il controllo del gioco. Lo stesso che ha poi importato nella Nazionale durante la sua esperienza: anche allora, le sue innovazioni furono poco capite (tra i pochi a riconoscere i principi posizionali del gioco azzurro ci fu Marti Perarnau) e solo dopo il fallimento del 2018 di Ventura l’Italia ha deciso di riprendere quella strada, sotto la guida di Roberto Mancini (un allenatore che, per contro, nelle sue precedenti esperienze aveva dimostrato di preferire un gioco fondato sulla fisicità).
Mentre Conte prendeva le redini della Juventus, la nuova Roma americana imboccava la strada di un calcio offesivo e spettacolare modello-Guardiola, ingaggiando il tecnico che aveva preso il posto proprio di Pep sulla panchina del Barcellona B, Luis Enrique. L’esperienza dello spagnolo nella Capitale durò solo quella stagione e si concluse con un deludente settimo posto, che sollevò parecchi dubbi sulle sue capacità d’allenatore. L’anno seguente, Luis Enrique portò il piccolo Celta Vigo al nono posto nella Liga, proponendo un gioco offensivo che a Roma non gli era riuscito altrettanto bene, e venne richiamato in Catalogna, dove poi vinse due campionati, tre Coppe di Spagna, una Champions League, un Mondiale per Club, una Supercoppa nazionale e una europea.
I risultati contrastanti di Luis Enrique fecero pensare che il problema, allora, non fosse il suo calcio, ma quanto questo fosse adattabile al contesto della Serie A. Tuttavia, la Roma si affidò ancora a un tecnico posizionista, il francese Rudi Garcia – che nel 2011 aveva vinto un campionato impossibile con il Lilla, davanti al ricchissimo Paris Saint-Germain – che condusse i giallorossi a due secondi posti. Contemporaneamente, arrivava finalmente in Serie A Maurizio Sarri, un tecnico toscano reduce da una lunghissima gavetta nelle serie minori che, alla guida dell’Empoli, mostrò all’Italia una delle versioni più radicali e affascinanti del gioco di posizione.
Nel 2015, il Napoli decise di scommettere su di lui, e finì per vivere le sue migliori stagioni dai tempi di Maradona, affermandosi come unica vera avversaria della Juventus ora allenata da Massimiliano Allegri (a cui i partenopei contesero fino all’ultimo il titolo nazionale del 2018). A Empoli, Sarri aveva lanciato il giovane Rugani, e a Napoli – oltre ad allenare Albiol – consacrò Koulibaly come miglior difensore del campionato. Un altro dei registi difensivi che hanno avuto un ruolo nella sua carriera è Lorenzo Tonelli, che Sarri allenò all’Empoli e poi chiamò a Napoli come riserva del senegalese; avendo giocato una decina di partite in due stagioni in azzurro, nell’estate 2018 – in concomitanza con il trasferimento del suo allenatore al Chelsea, dove era da poco passato pure Conte – Tonelli fu prestato alla Sampdoria.

A volerlo fortemente a Genova era stato un altro cultore del bel gioco, Marco Giampaolo. Era stato un enfant prodige della panchina, quando esordì nemmeno 40enne su quella dell’Ascoli, in Serie B nel 2004-05; era universalmente considerato uno dei tecnici più preparati e innovativi in Italia, grazie al suo 4-3-1-2 basato su difesa alta e pressing, ma non riuscì mai a schiodarsi dalle squadre di medio-bassa classifica, e la sua carriera subì una picchiata fino alla Lega Pro. Poi, nel 2015 l’Empoli lo volle per proseguire il lavoro di Sarri, e lì Giampaolo compì un mezzo capolavoro, sia sul piano del gioco che dei risultati, conducendo il club fino al decimo posto. Quindi, si trasferì alla Sampdoria, vivendo probabilmente le sue migliori stagioni come allenatore: dalle sue mani passò Tonelli (prima in Toscana e poi in Liguria), ma anche Škriniar e il danese Joachim Andersen, oggi al Lione e, nelle sue due annate in Italia, anche lui tra i migliori passatori del campionato.
Un altro regista difensivo “di provincia” visto all’opera alla Sampdoria è Gian Marco Ferrari, uno dei nomi che Roberto De Zerbi ha messo sulla sua lista dei desideri nell’estate del 2018, quando venne ingaggiato come allenatore del Sassuolo. A dispetto della giovane età, De Zerbi è considerato già da qualche anno uno dei tecnici più interessanti d’Europa e, pur non avendo ancora allenato nelle coppe internazionali, ha ricevuto l’apprezzamento di Guardiola.
Questa rivoluzione italiana è lo specchio di quanto sta succedendo nel resto d’Europa: quando, a fine dicembre 2017, il Liverpool annunciò l’acquisto per 85 milioni di euro di Virgil van Dijk – un difensore poco conosciuto che militava in un club di bassa classifica della Premier League, il Southampton – in molti storsero il naso; due anni dopo, si discuteva scandalizzati del fatto che lo stesso Van Dijk fosse arrivato “solo” secondo nella classifica del Pallone d’Oro.
Il successo dell’olandese – che assieme a De Vrij e De Ligt è tra i principali responsabili della rinascita della nazionale Oranje che, dopo tre anni di anonimato, nel 2019 ha raggiunto la finale della Nations League – segna anche il riscatto di altri colleghi di reparto che, fino a poco tempo fa, erano comunemente bistrattati. Come David Luiz, centrale brasiliano noto soprattutto per le sue leggerezze difensive, a lungo al centro delle ironie dei tifosi, incapaci di spiegarsi come mai squadre di alto livello come Chelsea e PSG se lo contendessero a qualsiasi costo (gli inglesi lo pagarono 25 milioni al Benfica nel 2011, lo cedettero ai francesi per circa 50 milioni tre anni dopo, e nel 2016 lo riacquistarono per 35: in quel momento, sulla panchina dei Blues si era appena seduto Antonio Conte).

Il rinnovamento del ruolo del difensore, però, non significa banalmente che adesso questi giocatori non difendano più – o, peggio, che non siano più capaci a farlo – ma che alle caratteristiche prettamente difensive si aggiungono quelle tecniche e d’impostazione. Pochi dei moderni registi difensivi sono anche assistman come Tolói: la maggior parte di loro sono giocatori capaci di portare palla e servire passaggi precisi, partecipando attivamente alla manovra invece di limitarsi al caro vecchio “spazzare” in avanti. E, appunto, sanno anche togliere palla agli avversari.
L’eccezionalità del brasiliano dell’Atalanta consiste nel fatto che riesca a comparire in cima a diverse classifiche pur restado un giocatore tutto sommato di secondo piano nel panorama europeo. Oltre a essere presente tra i migliori passatori e tra gli assistman Tolói occupa le prime posizioni anche nelle statistiche sui tackle riusciti (dove, sempre ai vertici, troviamo anche José Palomino e Berat Djimsiti, suoi colleghi di reparto a Bergamo), unico giocatore in Italia a figurare in tutte queste graduatori contemporaneamente.
La grande rivoluzione del ruolo del centrale di difesa è quella che, assieme alla mutazione dei compiti del portiere, quella che più di tutte può spiegare il calcio moderno, in Italia e non solo. Ma che al centro di tutto questo possa ritrovarsi un giocatore semi-sconosciuto di un club della provincia lombarda che quest’anno ha conquistato una straordinaria ribalta internazionale, è un qualcosa che pochi avrebbero saputo prevedere.
Fonti
–ADANI Daniele, Teoria e tecnica del difensore centrale, Rivista Undici
–MASTROLUCA Alessandro, Serie A, il difensore del futuro sarà un regista, non un marcatore, Fanpage