La Corea vista dalla Corea

La storia di quella partita è nota – meglio, famigerata. 19 luglio 1966, Ayresome Park, Middlesborough: l’Italia viene eliminata dai Mondiali ad opera dell’esordiente e sconosciuta Corea del Nord. Rete al 42′ di Pak Doo-ik, dentista che dentista non era. Un evento che è una meteora, seppur determinante, nella storia del calcio italiano, ma una pietra miliare in quella del calcio nordcoreano.

Si parla spesso di ciò che comportò quella sconfitta nel nostro paese, con la “chiusura delle frontiere” per impedire l’acquisto di calciatori stranieri e favorire la crescita di una nuova generazione di giocatori italiani, a cui seguirono il titolo europeo del 1968, la finale Mondiale del 1970 e, più tardi, il titolo vinto nel 1982. Ma non si parla mai di chi, quella partita, la vinse.

La Corea del Nord esisteva come stato solo da una ventina d’anni, e come nazionale di calcio da ancora meno. Ufficialmente, il suo primo match ufficiale risaliva al 1954, appena dopo la fine di una guerra che, sulla carta, non avrebbero potuto vincere: praticamente soli – con il supporto della Cina, all’epoca altra nazione giovane e povera, e dell’URSS – contro tutto il mondo, la Corea del Nord aveva dato un’incredibile prova di determinazione e compattezza. Quello spirito combattivo che veniva simbolicamente incarnato da Chollima, una sorta di Pegaso della mitologia dell’Estremo Oriente assurto a immagine del popolo nordcoreano.

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Un momento di Cile – Corea del Nord, in un Ayresome Park praticamente vuoto.

Fondamentalmente, però, dopo quella partita la selezione era rimasta inattiva fino al 1964. Un anno dopo era per caso finita a disputare l’accesso al Mondiale: quel posto sarebbe dovuto andare al Sudafrica, ma a causa dell’apartheid la FIFA aveva deciso di escluderlo dalle competizioni, e di organizzare un torneo triangolare asiatico tra le due Coree e l’Australia, da disputarsi in Giappone. All’ultimo momento, la sede delle qualificazioni fu spostata in Cambogia, paese governato da un regime filo-comunista le cui relazioni diplomatiche con la Corea del Sud erano molto ostili, e quest’ultima decise di ritirarsi dalla competizione. Il caldo e l’umidità cambogiani, a cui i giocatori australiani non erano minimamente abituati, fecero il resto, e la Corea del Nord s’impose per 6-1 nel primo match, e per 3-1 nel secondo.

Fu qui che iniziò a sorgere l’identificazione tra i ragazzi allenati da Myung Rye-hyun e l’eroico cavallo alato Chollima, il cui spirito ardeva nei cuori dei giocatori e li portava a compiere grandi imprese, come sarebbero state il pareggio allo scadere contro il Cile, la vittoria sull’Italia, e il clamoroso 3-0 in 25 minuti inflitto al Portogallo, poi ribaltato da un poker di Eusebio.

Ma l’eccezionale presenza della Corea del Nord in Inghilterra non fu presa affatto bene dalle autorità locali, che quindici anni prima erano state in guerra contro la nazione guidata da Kim Il-sung. Inizialmente, il governo minacciò di non concedere il visto di entrata ai nordcoreani, temendo che tra di loro potessero nascondersi spie comuniste. L’ipotesi, però, svanì con l’intervento della FIFA, che a sua volta minacciò di trasferire il Mondiale altrove, se gli inglesi avessero impedito a una delle squadre regolarmente qualificate di parteciparvi. Anche la Football Association chiese espressamente al governo di Harold Wilson di concedere i visti ai coreani, per non vanificare tutto il lavoro (e i soldi spesi) per l’organizzazione di un torneo che, per l’Inghilterra, rappresentava l’occasione per riprendersi il calcio, ormai dominato dai paesi stranieri.

Ci fu da mediare anche su altre due questioni: esporre la bandiera e suonare l’inno nordcoreano, in un paese in cui il ricordo della guerra e dei suoi reduci non era ancora svanito. In tutto il Commonwealth, furono oltre 2mila in morti, e circa 5mila i feriti nel conflitto. Il compromesso fu che la bandiera ci sarebbe stata, come tutte le altre, ma sarebbe stata esposta il minimo necessario; l’inno, invece, non si sarebbe sentito: per regolamento, si decise che gli inni nazionali sarebbero stati suonati solo nel match d’esordio e nella finale.

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I festeggiamenti dopo la vittoria sull’Italia.

Contro ogni previsione, però, la formazione asiatica iniziò presto a conquistarsi le simpatie del pubblico, un po’ perché autentici outsider, un po’ perché vestivano la maglia rossa proprio come il Middlesborough, il club della zona in cui si svolgeva il gruppo D. Il loro campo d’allenamento era il centro sportivo di un impianto chimico, in una delle regioni industriali per eccellenza del Regno Unito: tanti operai, uno dei bacini di voti più solidi del Labour Party, in cui non erano inusuali alcune tendenze per la sinistra radicale. In breve, la Corea del Nord diventò la squadra dei tifosi di Middlesborough. 5mila di loro, addirittura, andarono fino a Liverpool per seguire il quarto di finale contro il Portogallo.

Relegati tra i fumi industriali del Nord, i coreani rimasero in un isolamento simile a quello della loro nazione. Si svegliavano presto la mattina e iniziavano una lunga sessione di allenamento massacrante, del tutto insolito nel calcio degli anni Sessanta. Erano immersi in un’atmosfera di esaltato orgoglio patriottico, lo stesso su cui è costruita l’ideologia della Juché, un miscuglio di socialismo stalinista, nazionalismo e filosofia orientale concepito pochi anni prima da Kim Il-sung. Praticavano quotidianamente l’antidiluviano esercizio della cavallina, che aveva però il pregio di consentire di migliorare l’elevazione nel salto e andare così a compensare la ridotta statura dei giocatori. Ogni sera giocavano una partita, per abituarsi ai match in notturna con i riflettori, e si esercitavano in particolare nel possesso palla e nei movimenti tattici.

Nessuno sapeva cosa aspettarsi da loro, eccetto l’Unione Sovietica, che aveva ospitato i coreani per una serie di amichevoli pre-Mondiali, e infatti fu l’unica squadra a batterli facilmente. L’Italia, per lo più, gli ignorava: Ferruccio Valcareggi, vice del ct Edmondo Fabbri, visionò solo i primi 80 minuti della partita contro il Cile, e se ne andò definendo i futuri avversari come “una comica di Ridolini”, finendo così per perdersi il pareggio di Pak Seung-zin. In patria, Gianni Brera addirittura dichiarava che avrebbe smesso di fare il giornalista, nella remota possibilità di una vittoria coreana; cosa che, ovviamente, non si realizzò.

Una serie di coincidenze resero quell’apparizione al Mondiale – che tanti speravano scivolasse via senza clamore – un evento fondamentale per la storia del calcio asiatico. Il giornalista inglese Derek Hodgson descrisse la prestazione dei nordcoreani come “la loro nascita come nazione calcistica”, ma i fatti ci possono facilmente dire che esagerò. Piuttosto, mentre dopo l’estate del 1966 la Corea del Nord scomparve nuovamente nell’anonimato sportivo, fu lentamente il calcio dell’intero continente asiatico a emergere, con la Corea del Sud che sarebbe divenuta una presenza fissa ai Mondiali a partire dal 1986.

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Rim Joong-sun, Li Chan-myung, Kim Jung-kil e Kang Ryong-woon incontrano una giovane tifosa inglese, prima di partire per il quarto di finale a Liverpool.

Non è neppure chiaro, ad essere sinceri, cosa accadde una volta che la squadra fece ritorno in patria. Si dice che vennero accolti come eroi, ma anche che, in seguito, vennero accusati di essere stati corrotti dallo stile di vita occidentale, o di aver disonorato la nazione facendosi rimontare tre gol dal Portogallo, e infine mandati nei campi di rieducazione. Ad avvalorare questa teoria è stato Kang Chol-hwan, scrittore e dissidente nordcoreano, che ha raccontato di aver incontrato Pak Seung-zin nel campo di prigionia di Yodok.

Ma quello che accade in Corea del Nord è da sempre un mistero, e non si capisce dove finisca la propaganda (comunista e anti-acomunista) e dove inizi la verità. Lo stesso Pak avrebbe poi negato di essere mai stato imprigionato, e altre fonti parlano che tutti i giocatori coreani furono trattati da eroi ed ebbero i riconoscimenti che meritavano, a partire da Pak Doo-ik. E allora c’è chi dice anche che entrambe le cose sono in parte vere, che furono imprigionati e rieducati, e che adesso fanno finta che nulla sia mai avvenuto. Questa persistente indeterminatezza, forse, rappresenta la Corea del Nord meglio del Chollima.

Sappiamo per certo che pochi dei giocatori della nazionale del 1966 hanno poi continuato col calcio, per una ragione o per l’altra. Solo il portiere Lee Chang-myung – diciannove anni, all’epoca dei Mondiali – giocò sicuramente ancora in nazionale, prendendo parte alle qualificazioni del 1974. Pak Seung-zin si sarebbe ritirato l’anno prima, a trentatré anni. Pak Doo-ik, invece, fu promosso sergente dell’esercito, ma poco dopo lasciò la divisa e divenne un istruttore di ginnastica; lo si rivide nel 1976, in veste di allenatore della Corea del Nord alle Olimpiadi di Montreal, in cui gli asiatici sconfissero i padroni di casa e giunsero anche in quell’occasione ai quarti di finale.

Quella della Corea del Nord è una storia insolita, tra le grandi favole sportive. Non ha avuto alcun seguito, soffocata dal rigido isolazionismo del regime. Solo nel 2002 è tornata alla ribalta, grazie al documentario The Game of Their Lives di Daniel Gordon, che è andato a intervistare gli ultimi sopravvissuti di quella squadra, e che poi è riuscito a convincere il governo locale ad organizzare un viaggio nella “loro” Middlesborough, dove ancora la gente non se li era dimenticati.

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Fonti

Corea 1966, la squadra operaia che fece innamorare l’Inghilterra, Calcio Romantico

TAYLOR Louise, How little stars from North Korea were taken to Middlesborough’s heart, The Guardian

THACKER Gary, North Korea: Chollima, 1966 and tragedy, These Football Times