2003, la scoperta del calcio in Qatar

Quando atterrò all’Aeroporto Internazionale di Doha, Gabriel Omar Batistuta probabilmente non ci pensava nemmeno al fatto di essere un pioniere, di stare scrivendo la Storia. Pensava piuttosto al contratto su cui aveva apposto la propria firma: 8 milioni di dollari in due anni dall’Al-Arabi, poco meno di quanto l’Arsenal offriva a Patrick Vieira, uno dei più forti centrocampisti al mondo. Batistuta grande lo era stato, ma la sua ultima stagione, tra Roma e Inter, aveva messo in luce come a 34 anni non fosse più un giocatore al livello della Serie A. Sarebbe potuto tornare romanticamente in Argentina, o avrebbe potuto cercare un buon contratto in Giappone o negli Stati Uniti, e invece aveva scelto il Qatar.

Oggi può sembrare quasi incredibile, ma nell’estate del 2003 quasi nessuno sapeva dove o cosa fosse il Qatar. Nessuno sapeva bene neppure cosa pensare del calcio del Golfo: i tifosi conoscevano giusto l’Arabia Saudita, che nel 1994 aveva sorpreso tutti con le giocate di Saeed Al-Owairan, ma nel 2002 aveva fatto parlare di sé ai Mondiali asiatici solo in virtù delle 12 reti prese (di cui 8 dalla sola Germania) a fronte di zero segnate. Nei mesi successivi qualcuno aveva sentito parlare, grazie a qualche amichevole, dell’Al-Ain degli Emitati Arabi Uniti, allenato da Bruno Metsu (artefice dell’impresa del Senegal in Corea e Giappone) e capace di vincere l’AFC Champions League. Ma quello arabo restava un calcio di quarto o quinto piano, e il Qatar era addirittura alla periferia di quel mondo già di per sé marginale. Della finale del Mondiale U20 persa nel 1981 contro la Germania Ovest nessuno fuori da Doha ricordava nulla, così come non si sapeva che solo nel 2000 la Nazionale maggiore aveva raggiunto uno storico quarto di finale in Coppa d’Asia.

Improvvisamente, però, il campionato locale, la Q-League, si era preso le prime pagine dei giornali sportivi internazionali. Batistuta era stato la ciliegina sulla torta, ma da settimane i grandi vecchi del calcio europeo avevano preso a viaggiare verso Doha. L’Al-Rayyan aveva preso dai Rangers Ronald e Frank de Boer, oltre a Fernando Hierro del Real Madrid; l’Al-Sadd Frank Lebœuf dal Marsiglia; l’Al-Ahli Pep Guardiola dal Brescia; l’Al-Gharafa Marcel Desailly dal Chelsea; il Qatar SC Claudio Paul Caniggia dai Rangers. L’Al-Arabi, assieme a Batistuta, aveva acquistato dal Wolfsburg Stefan Effenberg, andando a ricomporre una coppia che era già stata unita alla Fiorentina nei primi anni Novanta. Un modello già conosciuto dall’Europa, che negli anni Settanta aveva visto fare cose simili alla NASL nordamericana, e vent’anni dopo circa la stessa cosa era successa di nuovo con il campionato giapponese. Il mondo arabo, ripieno di dollari guadagnati grazie al controllo delle riserve di petrolio e gas naturale, prometteva ora di aprire un nuovo lussuoso luogo di pre-prensionamento per calciatori. Per la verità, l’Arabia Saudita ci aveva già provato a fine anni Settanta, portando Rivelino all’Al-Hilal, ma l’esperimento era durato poco.

Il Qatar era comunque un’altra cosa. Uno stato minuscolo, con una sola vera città, un aeroporto internazionale che a fatica riusciva a smistare tutto il traffico aereo in crescita del paese, e appena 650.000 abitanti. In realtà, il calcio qui esisteva ufficialmente dal 1960, all’insaputa del mondo: in quell’anno era stata fondata la Qatar Football Association, sotto l’impulso del Regno Unito, che ancora controllava la regione. Tre anni dopo era arrivata l’affiliazione alla FIFA e la fondazione di un campionato nazionale, il tutto molto prima dell’indipendenza ottenuta nel 1971. Erano sempre stati i più ingombranti vicini a far parlare della Penisola araba, sia in campo sportivo che politico ed economico: Doha era rimasta nascosta sotto la sabbia del deserto fino al momento in cui l’emiro – un monarca assoluto di nome Hamad bin Khalifa Al Thani – aveva deciso che la sua nazione dovesse emergere. Dalla sua ascesa al trono nel 1995, aveva avviato un progetto di investimenti e modernizzazione del paese che alla fine era arrivato fino a quel giorno in cui Batistuta era atterrato a Doha.

Hamad bin Khalifa Al Thani, emiro del Qatar dal 1995 al 2013. Durante la cerimonia inaugurale dei Mondiali del 2022 sono stati mostrati vecchi video di lui che giocava a calcio da ragazzo.

Dietro quell’improvviso afflusso di calciatori famosi c’era una riforma spinta dalla QFA nei primi mesi del 2003: a ognuno dei dieci club della Q-League sarebbero stati garantiti dalla Federcalcio 10 milioni di dollari da investire nell’acquisto di un giocatore di caratura internazionale, per alzare il livello ma soprattutto la popolarità del campionato di calcio. Tutti soldi pubblici, che rappresentavano il più massiccio investimento di stato nel calcio mai fatto a livello globale. Lo sviluppo dello sport era uno dei grandi punti nel piano dell’emiro: tre anni prima, il Qatar si era assicurato l’organizzazione dei Giochi Asiatici del 2006, torneo che non si era mai svolto in un paese arabo fino a quel momento. Per assicurarsi di non fare brutta figura, il Qatar – paese poco popolato e di scarsa tradizione sportiva – iniziò a fare spesa: a diversi atleti da tutto il mondo vennero offerte grosse somme di denaro per prendere un passaporto qatariota, come ad esempio i fondisti kenyoti Richard Yatich e David Nyaga (divenuti rispettivamente Mubarak Hassan Shami e Daham Najim Bashir), il sollevatore di pesi bulgaro Yani Marchokov (divenuto Jaber Saeed Salem) o addirittura la scacchista cinese Zhu Chen.

Diventare una potenza sportiva era un elemento fondamentale nel progetto di modernizzazione del Qatar. E il calcio aveva un suo ruolo centrale, dato il posto speciale che aveva nel cuore dell’emiro, grande appassionato. Per questo uno degli uomini più importanti del paese era l’ex-capo della Federcalcio, Mohamed Bin Hammam. 54 anni, imprenditore ed ex-presidente dell’Al-Rayyan, aveva diretto la QFA tra il 1992 e il 1996, e nell’agosto del 2002 era divenuto il primo arabo a capo dell’Asian Football Confederation. Fin dalla sua nomina, Bin Hammam aveva messo in chiaro che il suo piano era quello di sviluppare maggiormente il calcio professionistico della Penisola araba: “Abbiamo tanti soldi da investire, e dobbiamo metterli in nuove strutture, nei settori giovanili e nell’educazione se vogliamo progredire”. Quello che ancora non diceva, era che il suo sogno era di portare il Mondiale in Asia per la seconda volta, e ovviamente che lo voleva proprio in Qatar.

Per questo, anche la Nazionale andava modernizzata, investendo innanzitutto nell’ingaggio di un allenatore di fama internazionale. La scelta ricadde sul francese Philippe Troussier, vincitore della Coppa d’Asia del 2000 alla guida del Giappone e uno degli allenatori più stimati di tutto il continente. Poi, anche qui come nell’atletica, con le naturalizzazioni: tanti sudanesi e kuwaitiani, un terzetto di giocatori dal Senegal (Abdulla Koni, Qasem Burhan, Mohamed Saqr), e soprattutto una stella sudamericana in attacco, l’uruguayano Andrés Sebastián Soria. Fu con questa rosa che il Qatar, da paese calcisticamente anonimo, nel 2006 arrivò a vincere l’oro ai Giochi asiatici di Doha. Era sotto gli occhi di tutti che le cose stavano cambiando nel paese, e che si andava formando uno strano amalgama tra calcio e politica molto diverso da ciò che si era visto fino a quel momento: attraverso la scusa dello sport, il Qatar aveva avviato un progetto di rinnovamento sociale e infrastrutturale, affermandosi gradualmente come una potenza economica sullo scacchiere internazionale.

Nel 2004 veniva piazzato un altro tassello nel progetto di Doha: con un decreto dell’emiro, veniva autorizzata la costruzione di un’avveniristica accademia sportiva in cui plasmare gli atleti qatarioti del futuro, l’Aspire Academy. Una struttura costruita grazie a 1,3 miliardi di dollari di fondi pubblici, destinata a ospitare il meglio delle tecnologie e delle intelligenze globali del mondo dello sport, con una particolare sezione dedicata proprio al calcio, la punta di diamante del progetto del Qatar. Mentre l’accademia veniva inaugurata, a fine 2005, veniva anche ideato Football Dreams, un piano di scouting massiccio tra gli aspiranti calciatori di 13 o 14 anni attraverso tutta l’Africa, che avrebbe visto il via ufficiale appena due anni più tardi. In poco tempo, il Qatar aveva edificato dal nulla un complesso sistema con cui procurarsi giovani calciatori di talento, crescerli al meglio delle possibilità tecnico-scientifiche conosciute, e rifornire così i club e la propria nazionale.

Mohamed Bin Hammam insieme al presidente della FIFA Joseph Blatter.

Tutto era partito da Batistuta e gli altri, anche se ormai sembrava passata una vita. Batigol aveva stabilito il nuovo record di reti stagionali della Q-League, aggiornando quello dell’idolo locale Mansour Muftah, e poi nel 2005 aveva annunciato il suo ritiro dal calcio, mentre quel grande progetto di cui era in gran parte ignaro andava avanti. Nel 2009, il campionato locale venne portato a 12 squadre, a dimostrazione di quanto lo sviluppo stesse procedendo a gonfie vele, e il nome venne cambiato nel ben più appropriato Qatar Stars League. Completato il restyling della competizione, a novembre dello stesso anno la QFA avanzò pubblicamente la sua candidatura a ospitare i Mondiali del 2022, e il 2 dicembre dell’anno successivo, durante il Congresso della FIFA, ricevette la storica assegnazione. Per chiudere il cerchio, Mohamed Bin Hammam decise che sarebbe dovuto diventare il primo arabo a presiedere la FIFA, annunciando ufficialmente la sua candidatura a inizio 2011.

Ma non arrivò mai a concorrere a quelle elezioni. A maggio scoppiò uno scandalo corruzione che coinvolse varie federazioni caraibiche, e presto venne fuori che il corruttore era proprio Bin Hammam. Prima si ritirò dalle elezioni, poi venne sospeso dal Comitato etico della FIFA, e infine perse la carica di presidente della AFC. Era accusato di aver pagato dirigenti federali per supportare la candidatura del Qatar ai Mondiali del 2022, e girava voce che alla stessa cosa erano serviti i contatti con le federazioni africane ottenuti tramite Football Dreams. Tante accuse che a lungo fecero discutere sui media internazionali, e che però non furono mai provate (ma questa è un’altra storia). Nel frattempo, nel 2013 l’emiro Hamad abdicava in favore del figlio Tamim: si stima che nel corso suo regno abbia investito oltre 100 miliardi di dollari in giro per il mondo, acquistando quote di società come Barclays, The Shard, Heathrow Airport, Shell, Siemens, Wolkswagen e, ovviamente, il Paris Saint-Germain.

Fonti

-AMARA Mahfoud, 2006 Qatar Asian Games: A ‘Modernization’ Project from Above?, Sport in Society

COLLINS Roy, Qatar looks to future by harking back to the past, The Guardian

ROBINSON James, Revisiting the glorious period Qatar became a retirement home for world-class stars, Dream Team

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