Storia dei cori da scimmia nel calcio

È brutto da dire, ma oggi questo è probabilmente il coro da stadio più diffuso al mondo, l’unico che ritroviamo in paesi diversi (principalmente in Europa) e che mantiene inalterate espressioni e ritmo a prescindere dal contesto. La stragrande maggioranza degli episodi di razzismo nel calcio lo vede come protagonista, ma una delle sue particolarità è che ancora oggi i media faticano a identificarlo con un termine preciso e calzante. Di recente, anche in Italia si è diffusa la definizione di “cori da scimmia”, ripresa dall’inglese monkey chants, che è quella che più si avvicina al significato di questi canti. Si tratta della replica dei versi di una grossa scimmia – pensiamo al verso baritonale di un gorilla, piuttosto che a quello più acuto di uno scimpanzè – urlati da un gruppo più o meno numeroso di tifosi quando un giocatore nero tocca palla. Il paragone razzista tra l’uomo nero e la scimmia, che gioca sul presunto “sottosviluppo” evolutivo dell’africano rispetto al bianco europeo, ha una lunga storia, eppure questo tipo di cori è divenuto popolare solo molto di recente nel mondo del calcio.

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Per un calcio che sia democratico: il Movimento Football Progrès

I calciatori vogliono fare la rivoluzione. Anche per la Francia, che di rivoluzioni se ne intende abbastanza, questa storia suona assolutamente fuori dal comune. Ma i tempi sono quelli che sono: è il 1974, i giovani vogliono cambiamento, libertà e democrazia; quelli più politicizzati si spingono oltre, e parlano apertamente di autogestione. E questi discorsi arrivano anche nel mondo dello sport: un giorno di febbraio alcuni giocatori si riuniscono in una sala della cittadina di Saint-Cyr-l’École, nell’Île-de-France, e comunicano che formeranno un gruppo culturale ribelle aperto solo a chi lavora nel mondo del calcio, il Mouvement Football Progrès. Fin dal suo primo comunicato, il movimento promette battaglia, innanzitutto contro la Federcalcio, e se necessario anche nei confronti dei club.

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Domande (e risposte) non scontate sul calcio africano

La Coppa d’Africa è iniziata, e questo per il pubblico del calcio europeo significa sostanzialmente una cosa: un mese di lamentele perché alcuni importanti giocatori si assentano dai club per disputare un torneo di cui quasi a nessuno, nel Vecchio Continente, importa qualcosa. Il fatto la Coppa d’Africa riguardi un pubblico potenziale di 1,2 miliardi di persone (in Europa siamo 746 milioni, per dire) non sembra essere abbastanza rilevante, in questo discorso. In generale, quando si parla del calcio africano ci si porta sempre dietro un bagaglio di stereotipi culturali figli del colonialismo ottocentesco di cui molte persone neppure si rendono conto. Di alcuni di questi si era già scritto nelle scorse settimane, ma la contemporaneità del torneo della CAF offre l’occasione per approfondire la questione, anche se in modo un po’ diverso dal solito. Di seguito trovate una serie di domande sul calcio africano a cui potrete provare a dare una risposta, e probabilmente scoprirete che la realtà storica è molto diversa da quello che verrebbe da pensare. Prendetelo come un piccolo gioco sui pregiudizi.

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Il calcio e gli stregoni

Renato Sanches si è rivolto a uno stregone per “guarire” da una maledizione che lo tormenta e che sarebbe la causa dei suoi numerosi infortuni. L’avete sentito dire anche voi, vero? Non c’è nulla di strano, visto che a pubblicare questa notizia, martedì mattina, è stata addirittura La Repubblica, che è poi stata ripresa dai numerosissimi siti di news che gravitano attorno alla galassia romanista, ovviamente sempre in maniera del tutto acritica. Al punto che lo stesso centrocampista è dovuto intervenire poche ore dopo per spiegare che non era assolutamente vero: il quotidiano aveva semplicemente interpretato in modo molto libero una frase di Sanches, che scherzando con un ex compagno di squadra aveva detto che forse qualcuno gli ha fatto una maledizione, visti tutti i guai fisici che sta avendo. Se avesse avuto la pelle bianca, probabilmente chiunque avrebbe colto al volo che non stava parlando sul serio. Tipo in questo recente articolo del Corriere dello Sport sulla “maledizione” di Allegri, che non aveva mai battuto in casa propria una squadra allenata da Ranieri: nessuno ha pensato neppure per un istante che sul serio fosse stato lanciato il malocchio sul tecnico della Juventus.

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Dalla parte del St. Pauli

Lo si era anticipato già la scorsa settimana: gli eventi del 7 ottobre hanno generato una storica spaccatura nel calcio “di sinistra” europeo, compromettendo forse per sempre la reputazione del St. Pauli di Amburgo. Nell’ultima settimana, alcuni fan club stranieri della società tedesca, come quello di Bilbao e quello di Atene, hanno annunciato il proprio scioglimento, per prendere le distanze dalle posizioni del club e dei tifosi tedeschi sul conflitto israelo-palestinese. Il rapporto tra gli ultras di Germania e il resto del tifo straniero non potrà più essere lo stesso. Tuttavia, in questi giorni si sono letti dei giudizi completamente ingiusti e fuori dalla realtà verso i tifosi tedeschi e verso il St. Pauli in particolare, per cui diventa necessario fare una riflessione e fermare alcuni punti in questo discorso.

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Si chiama football o soccer?

Se sei un appassionato di calcio e su Instagram o TikTok consulti quasi solo profili legati al calcio, l’algoritmo prima o poi finirà per mostrarti uno dei tanti video, più o meno divertenti, in cui inglesi e americani litigano su quale sia il nome corretto di questo sport. “Si dice football, non soccer” sostengono da tempo i più strenui difensori della nomenclatura britannica. In uno di questi video c’è anche un ragazzo, particolarmente inviperito, che spiega e mima coi piedi il gesto di colpire un pallone, da cui appunto deriva la parola football, sottolineando come invece soccer non abbia alcun chiaro collegamento con il senso del gioco. La regola dovrebbe essere semplice: gli inglesi lo hanno inventato, quindi come lo dicono loro è il modo corretto. Ma dato che l’articolo non termina qui, potete intuire come la vicenda sia un po’ più complicata di così.

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Perché non ci sono calciatori neri in Argentina?

Tra le nazionali sudamericane, l’Argentina spicca senza dubbio come un caso particolare: la Selección campione del mondo è totalmente bianca. Al massimo qualche mulatto. In un continente di squadre (e nazioni) multietniche, in cui a chiunque possono venire in mente noti giocatori dell’uno o dell’altro paese che abbiano la pelle nera, l’Argentina sfugge decisamente a questa regola. E dire che la sua storia non è poi così diversa da quella del resto del Sudamerica: è stata per secoli una colonia europea, popolata a forza con schiavi provenienti dall’Africa che venivano usati come forza lavoro nelle piantagioni. Anche a voler considerare le effettive differenze socio-culturali tra le colonie spagnole orientali e quelle occidentali e settentrionali come Colombia, Perù ed Ecuardor, appare subito evidente come l’eccezionalità argentina resista anche al confronto con Uruguay e Paraguay (pensiamo a José Leandro Andrade e Paulo da Silva Barrios, per esempio).

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Il calcio non può essere separato dalla religione

Il caso di Nouhaila Benzina, la calciatrice del Marocco che è divenuta la prima calciatrice a indossare un hijab in campo durante un Mondiale, ha fatto molto discutere sulla pagina Facebook di Pallonate in Faccia, nella scorsa settimana. Messi da parte i prevedibili commenti islamofobi, alcuni utenti hanno contestato la decisione della FIFA (che dal 2014 ha liberalizzato l’utilizzo dell’hijab da parte di giocatrici, allenatrici e arbitre) ritenendola una pericolosa intromissione della religione nel calcio, due ambiti che secondo questi utenti dovrebbero restare separati. Questo argomento presenta una problematica di base: dire che calcio e religione vanno tenuti separati equivale a dire che calcio e politica vadano tenuti separati, un’assurdità storica e sociologica che qui si combatte da sempre. Tuttavia, è chiaro che questa è una replica superficiale, che richiede un maggiore approfondimento. Che trovate proprio qui, appena oltre il bordo di questo paragrafo.

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Raccontare il calcio femminile in Italia

Fino al 2019 circa, a pochissime persone nel nostro paese importava del calcio femminile. Da quell’estate, con l’Italia che prese parte al suo primo Mondiale dal 1999 solo un anno dopo la clamorosa esclusione dei maschi (a sua volta, la prima dal 1958), c’è stato un vero e proprio boom del fenomeno, che ovviamente vive un po’ di montagne russe con dei picchi che coincidono con i grandi eventi delle nazionali. La dimensione del successo è data soprattutto dall’impressionante quantità di haters che le calciatrici si attirano per il solo fatto di esistere, ma ciò non toglie che sempre più persone siano genuinamente interessate a questo sport, che dal 2022 ha anche in Italia un campionato professionistico. Questa crescita apre di conseguenza a una questione che viene tendenzialmente sottovalutata: chi e come si occupa di raccontare il calcio femminile in Italia?

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La Francia tradita: il calcio e le rivolte delle banlieue del 2005

Zyed, Bouna e Muhittin scappano, con la polizia alle loro calcagna. Scavalcano un muro e si nascondono dentro un trasformatore elettrico, per non farsi trovare. È una pessima idea: vengono fulminati. Zyed e Bouna, che hanno rispettivamente 17 e 15 anni, muoiono sul colpo, mentre Muhittin, 17 anni anche lui, rimane gravemente ferito. La polizia dice che erano responsabili di un furto e li dovevano arrestare, ma ben presto emerge che i tre ragazzi non c’entravano nulla. Sono scappati perché sanno perfettamente cosa succede alle persone di pelle scura quando finiscono nelle mani della polizia. È la sera di giovedì 27 ottobre 2005, e centinaia di persone, molti giovani, scendono nelle strade di Clichy-sous-Bois, sobborgo di 28.000 abitanti a est di Parigi, e iniziano a dar fuoco ad automobili e cassonetti dell’immondizia.

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