Il kayak non è certo uno degli sport più seguiti al mondo, ma per gli appassionati, nel 1987, c’era un nome che iniziava a farsi largo, attirando l’attenzione di molti: Aleksandar Đurić. Era un ragazzo di 17 anni di un villaggio della Bosnia che due anni prima aveva conquistato il titolo juniores jugoslavo, e in quel momento era il numero 8 al mondo. Flashforward: 20 anni dopo. Lo stesso Aleksandar Đurić esordiva per la prima volta con una rappresentativa nazionale, ma stavolta non si trattava di kayak bensì di calcio, e la selezione non era bosniaca o comunque balcanica, ma quella di Singapore. Nel corso di due decenni, il mondo aveva sconvolto la sua vita, prima ancora che la sua carriera sportiva.
Lipac è un piccolo paese della Bosnia settentrionale, procedendo per 3 chilometri verso ovest e passando il fiume Bosna si arriva nella più nota città di Doboj. È qui che è cresciuto Đurić, tra gli anni Settanta e Ottanta: il kayak nel fiume, e a tempo perso il gioco col pallone, facendo prima il portiere e poi il centrocampista nel settore giovanile dello Sloga Doboj, società nota principalmente per la sua sezione di pallamano. La sua adolescenza si è sviluppata lungo l’asse dello sport, mentre attorno a lui la Jugoslavia iniziava a sbriciolarsi. Nel 1991, mentre sognava di prendere parte alle Olimpiadi a Barcellona, scoppiò la guerra: prima in Slovenia, poi in Croazia, e infine anche in Bosnia. A inizio gennaio del 1992, il paese si era spaccato a metà: i bosniaci musulmani e i croati volevano l’indipendenza, mentre i serbi erano contrari. La famiglia Đurić era di etnia serba, che rappresentava circa un terzo della popolazione ed era concentrata particolarmente lungo il confine settentrionale, quello orientale e quello meridionale. Sentendosi avvicinare la guerra, il padre di Aleksandar – il figlio più piccolo e quello con più possibilità di lasciare il paese, in quanto sportivo – gli disse che avrebbe dovuto mettersi in salvo. Il giovane atleta abbandonò così i Balcani, attraversando tutta l’Europa fino a rifugiarsi a Ystad, in Svezia, dove per un po’ si allenò con la squadra di calcio dell’AIK.
Nel giro di poche settimane cercò di tornare a casa e ricongiungersi con la famiglia, ma il suo viaggio di ritorno si interruppe in Ungheria, quando la guerra in Bosnia esplose in tutta la sua forza. Đurić riuscì a ottenere un contratto con un club di calcio locale, lo Szeged, che gli permise di mantenersi nel nuovo paese. E in quel momento arrivò la chiamata del neonato Comitato Olimpico della Bosnia ed Erzegovina, con la proposta di gareggiare nel kayak, categoria C-1 500 metri, alle Olimpiadi di quella estate: Đurić accettò, ben sapendo cosa comportava una simile decisione, per un serbo che andava a rappresentare la Bosnia, mentre suo padre e suo fratello combattevano per l’altra parte. Ma per lui lo sport era al di sopra delle divisioni etniche e delle guerre, così partì. Il Comitato non poteva pagare per il viaggio, per cui dovette provvedere da solo, trovandosi un passaggio in camion fino al confine austriaco. Lì, gli ufficiali di frontiera lo bloccarono, scambiandolo per un profugo qualunque e non credendo che fosse davvero un atleta olimpionico diretto in autostop fino a Barcellona. Solo una telefonata al Comitato Olimpico a Sarajevo permise di sbloccare la situazione: i doganieri austriaci lo aiutarono a trovare un passaggio fino in Slovenia, da cui, raggiunto l’aeroporto, volò fino in Spagna.
Dopo due anni senza allenarsi, chiaramente non era pronto per competere alle Olimpiadi, e uscì subito, ma la sua storia lo rese una piccola celebrità nel Villaggio Olimpico, permettendogli di incontrare figure come Carl Lewis, Boris Becker e la nazionale statunitense di basket. L’esperienza di Barcellona fu una piccola favola, inserita tra le parentesi della tragedia della guerra. L’anno seguente, quando era ormai tornato a fare il calciatore nella provincia ungherese, Aleksandar Đurić ricevette la notizia che sua madre era morta sotto i bombardamenti bosniaci di Doboj. La situazione a casa era addirittura peggiorata: il fronte bosniaco-croato si era spaccato, e ora anche queste due fazioni si combattevano tra loro, mentre le truppe serbe stavano conducendo un feroce assedio a Sarajevo. “Pulizia etnica” era diventata la nuova parola d’ordine: ovunque un esercito o una milizia prendeva il potere, iniziava a fare piazza pulita delle etnie diverse. La regione in cui era cresciuto Đurić era ora controllata dalla Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina di Radovan Karadžić.

Come finì quel conflitto è noto. Nell’estate del 1995, le truppe serbo-bosniache comandate da Ratko Mladić entrarono nella città di Srebrenica, a netta maggioranza musulmana, rastrellarono tutti gli uomini tra i 12 e i 77 anni anni, per poi ucciderli e seppellirli nelle fosse comuni: 8.372 morti. Un mese dopo, la NATO attaccò la Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina, costringendola alle trattative, e a novembre venne firmato un accordo di pace a Dayton. Nella sola Bosnia, in quattro anni erano morte quasi 100.000 persone. Đurić lasciò l’Ungheria, decidendo di cercare fortuna come calciatore in Australia, da tempo terra d’emigrazione dei balcanici, e firmò con il South Melbourne. Le uniche parole che conosceva in inglese erano quelle apprese da bambino guardando i western di John Wayne, che in Jugoslavia venivano trasmessi in tv in lingua originale coi sottotitoli. Ci pensarono i piedi a parlare per lui: a 25 anni, iniziò a costruirsi una discreta fama nel campionato australiano, giocando da esterno sinistro in diversi club, e facendo anche una breve esperienza in Cina nel Lokomotive Shanshan, nel 1997.
Come per molti immigrati jugoslavi, l’Australia divenne per lui il punto da cui ripartire, con lo sport ma anche con la una nuova vita: lì conobbe Natasha, che sarebbe poi diventata sua moglie. Nel 1999, inaspettatamente gli si presentò l’occasione che avrebbe definito il resto della sua carriera: dopo il fallimento del West Adeilaide, Đurić si lasciò convincere da un’offerta del Tanjong Pagar United, un club di Singapore, una città-stato del Sud-Est Asiatico sparsa su un arcipelago di 58 isole. Un campionato di livello basso, ma con buone paghe e in un paese dall’ottimo tenore di vita. Il primo approccio fu molto scettico, ma presto Đurić si dovette ricredere; dopo pochi mesi rientrò in Australia, giocando ancora con Marconi Stallions e Sydney Olympic, e dopo essersi sposato con Natasha decise assieme a lei di trasferirsi stabilmente a Singapore. Così, nell’estate del 2000 si accordò con l’Home United, iniziando una nuova avventura anche sotto il profilo tattico: l’allenatore ritenne che, sebbene avesse già 30 anni, Đurić potesse rendere meglio se spostato a giocare da centravanti, sfruttando la sua altezza e la sua visione di gioco contro le difese avversarie.
Nei pochi mesi che mancavano alla fine della stagione, Đurić segnò 6 reti in 10 partite, affermandosi come una delle rivelazioni del torneo e portando la squadra a conquistare la Coppa di Singapore. A inizio 2001 si trasferì nel più blasonato Geylang United, che trascinò immediatamente a vincere lo scudetto con un’impressionante record di 31 gol in 33 partite. Si impose così come il principale attaccante del campionato locale, ambientandosi perfettamente a Singapore, paese in cui in questi anni nacquero anche i suoi due figli. Nel 2006, a un’età a cui di solito i calciatori scelgono di ritirarsi, lui ottenne la chiamata del club più importante del paese, il Singapore Armed Forces, la squadra dell’esercito, attraverso la quale raggiunse i più prestigiosi risultati della sua carriera: quattro scudetti, due coppe nazionali, un Charity Shield e due titoli di calciatore dell’anno.
Ma soprattutto nel 2007, a 37 anni, ottenne la cittadinanza e, di conseguenza, la possibilità di venire convocato in nazionale. Singapore, in quel anni, stava provando a rinforzare la propria selezione naturalizzando alcuni giocatori stranieri già venuti a giocare nel campionato locale (come l’inglese Daniel Mark Bennett, difensore del Singapore Armed Forces ed ex- Wrexham) e aveva messo alla guida della squadra l’allenatore serbo Radojko Avramović. Đurić sarebbe dovuto inizialmente partire da sostituto nel match contro il Tajikistan per le qualificazioni ai Mondiali del 2010, ma un infortunio del titolare costrinse Avramović a schierarlo dal primo minuto, e il serbo-bosniaco ripagò il ct con una doppietta decisiva. A dispetto dell’età, divenne il nuovo punto di riferimento offensivo della squadra, erede ideale della leggenda locale Fandi Ahmad, che aveva giocato negli anni Ottanta e Novanta, indossando anche la maglia del Groningen. Contro ogni pronostico, Đurić aveva trovato una seconda giovinezza a Singapore, realizzando a suo modo il sogno di diventare un calciatore professionista.

La sua incredibile carriera sarebbe proseguita molto oltre quanto chiunque avrebbe potuto preventivare. Nel 2010, sebbene avesse ormai 40 anni, passò al Tampines Rovers, mantenendo ancora ottime medie realizzative e conquistando tre campionati, quattro Charity Shield e un altro titolo di calciatore dell’anno. La volontà di recuperare gli anni perduti a causa dell’instabilità politica in Jugoslavia, unita ad allenamenti mirati e a un’alimentazione equilibrata, gli permisero di andare avanti a giocare fino al 2014 a livelli competitivi, diventando anche il quinto miglior realizzatore della storia della nazionale asiatica, con 27 gol in 59 partite, segnando anche a squadre di buon livello come la Corea del Nord (pochi mesi dopo che i coreani avevano preso parte ai Mondiali in Sudafrica) e la Cina. Nel 2017, mentre veleggiava verso i 50 anni, tornò a giocare per tre stagioni nel campionato amatoriale di Singapore, dimostrando ancora una forma invidibiale per un uomo della sua età.
La sua storia insolita lo ha portato ad abbandonare il paese in cui era cresciuto quando era appena un ragazzo, con pochissimi soldi e senza documenti. Aveva girato il mondo, trovando casa alla fine in un piccolo paese pieno di immigrati ai confini del mondo, in una società cosmopolita che era la perfetta risposta a un gioventù passata nel pieno del conflitto etnico dei Balcani. “Molte persone come me hanno perso le madri e i padri in quella sanguinosa guerra civile – ha raccontato in un’intervista – ma non porto alcun rancore. Io non bado alle razze, ma a ciò che la gente ha nel cuore”. Oggi vive a Holland Village, uno dei principali quartieri di Singapore, e frequenta gente di ogni etnia e religione. Ha anche adottato un terzo figlio che è musulmano, e da anni è impegnato in varie attività umanitarie, soprattutto di aiuto agli orfani o ai bambini poveri del paese.
Fonti
–LENTON Richard, Alexandar Duric, Ex
–MCINTYRE Scott, An amazing football tale, The World Game
–OLIVARES Rick, The changing tides of Aleksandar Duric, Bleachers Brew