Fenomenologia delle multiproprietà del calcio

“Il potere, nel mondo di Case, significava potere corporativo. Le zaibatsu, le multinazionali che hanno plasmato il corso della storia umana, avevano trasceso le vecchie barriere.”

William Gibson

Qualche giorno fa, il fondo statunitense RedBird ha completato l’acquisto del Milan dal suo omologo e connazionale Elliott Management Corporation. RedBird possiede una quota di minoranza nel Liverpool – che solo in questa stagione è arrivato secondo in Premier League, in finale di Champions League, e ha vinto la FA Cup e la Coppa di Lega inglese – e una di maggioranza nel Tolosa – che poche settimane fa ha ottenuto la promozione in Ligue 1 – ma non diventerà il proprietario assoluto del Milan. Ha infatti rilevato solo la parte maggioritaria delle quote del club rossonero, lasciandone un’altra consistente a Elliott, come garanzia per il prestito che quest’ultimo ha fatto a RedBird per lo stesso acquisto. Elliott detiene anche una forte posizione nel Lille, campione di Francia nel 2021, grazie alla quale controlla di fatto il club e che gli ha permesso, un anno fa, di forzare la cessione delle quote di maggioranza di Gérard López – che possedeva anche Boavista e Royal Excel Mouscron, e che poi avrebbe comprato il Bordeaux – al fondo Merlyn Advisors.

Tre proprietari, sette club, cinque nazioni. E questo è solo un esempio tra tanti – dove “tanti” fa pensare innanzitutto a Red Bull e City Football Group – perché oggi il calcio assomiglia sempre più alla distopia che negli anni Ottanta affiorava dalle pagine della fantascienza cyberpunk. L’ascesa delle grandi corporazioni figlie del turbocapitalismo reaganiano, nel mondo del pallone, assume un nome ben preciso: multi-club ownerships, o MCO, che in Italia vengono talvolta chiamate banalmente multiproprietà, con un termine che fa pensare al mercato immobiliare. La stessa battuta sulla traduzione italiana l’aveva fatta tempo fa un giovane imprenditore romano, Marco Mezzaroma: fino allo scorso gennaio, era il proprietario della Salernitana, ma è stato costretto dalla FIGC a cederla, visto che Mezzaroma, in quanto cognato del proprietario della Lazio Claudio Lotito, stava apertamete violando le regole del campionato sulla compresenza nella stessa categoria di due club con la medesima proprietà.

Fino a quelche anno fa potevano sembrare una piccola bizzarria, e in pochi credevano che il sistema delle multiproprietà nel calcio avrebbe funzionato – in un mondo in cui ci sono imprenditori che già faticano a tenere in piedi un club solo, perché acquistarne due o tre? – mentre oggi le MCO sono una realtà concreta, ed è quasi impossibile assistere a un match internazionale senza trovarsi davanti ad almeno un club coinvolto in questo fenomeno. Con un concreto rischio di casi come quello di Lazio e Salernitana, che mettono a repentaglio la legittimità dei tornei. Come siamo arrivati a questo punto?

Breve storia delle multiproprietà del calcio

Stabilire come siano nate le MCO è abbastanza complicato: non è una novità che alcuni proprietari particolarmente facoltosi investiscano trasversalmente in altri club senza assumere posizioni di maggioranza nel cda. Intorno alla metà degli anni Sessanta, un gruppo di imprese operanti in Sardegna – tra cui la più importante era la raffineria petrolifera Saras di Angelo Moratti, proprietario dell’Inter – decise di investire nel Cagliari, che nel 1970 arrivò a vincere lo scudetto. Un altro caso, intorno alla metà degli anni Duemila, è quello del colosso energetico russo Gazprom, che controllava lo Zenit San Pietroburgo e divenne anche il principale sponsor dei tedeschi dello Schalke 04.

Nel 1999, l’Ajax decise di espandere la propria rete di ricerca di Africa, così acquistò e fuse assieme due club di Città del Capo, in Sudafrica, dando vita all’Ajax Cape Town. Nell’ultimo decennio, i rapporti tra le due squadre si sono assottigliati, e dal 2020 i sudafricani sono tornati indipendenti: ora si chiamano Cape Town Spurs.

In realtà, il primo episodio di MCO vero e proprio dovrebbe essere quello dell’English National Investments Company, meglio nota come ENIC, la società del britannico Joe Lewis che tra il 1995 e il 1997 acquistò nell’ordine AEK Atene, Slavia Praga e Vicenza, costituendo un’autentica multinazionale del pallone. Perché, davanti alle regole delle federazioni nazionali che vietavano di possedere club diversi nello stesso paese, la soluzione trovata dagli imprenditori più ambiziosi è stata quella di acquistare nuove società all’estero, e le multiproprietà del calcio sono rapidamente andate a coincidere con il concetto di multinazionale ormai imperante anche nell’economia extra-sportiva. Per la cronaca, l’ENIC ha poi presto abbandonato tutti e tre i club, e oggi ne possiede uno solo, il Tottenham.

Ma la vera rivoluzione l’ha fatta negli anni Duemila la Red Bull, che dopo aver acquistato ben due scuderie di Formula 1, ha replicato il modello nel calcio, acquistando nel 2006 il New York Metrostars (oggi noto come New York Red Bull) e aggiungendolo al Salisburgo, preso l’anno precedente. Nel giro di tre anni, l’azienda austriaca ha assunto il controllo anche di un club in Brasile, oggi chiamato Red Bull Brasil, e di uno in Germania, il RB Lipsia. L’esempio della Red Bull ha rappresentato un vero cambio di prospettiva del fenomeno, dato che Austria e soprattutto Germania avevano regole molto stringenti che limitavano fortemente la presenza di proprietari unici nei club di calcio, per favorire le associazioni di fan e tifosi: avendo dimostrato di poterle aggirare, l’azienda di Dietrich Mateschitz ha spianato la strada a nuovi investitori di questo tipo, a partire dagli emiratini del City Football Group, il quale dal 2008 ha messo insieme un roster di dieci club in altrettanti paesi, che ne fanno la più grande multinazionale del calcio odierno.

Il calcio del futuro, nel presente

Il modello Red Bull è senza dubbio quello più affascinante e funzionale, al netto della sua intrinseca perversione. La multinazionale è sorta da un club locale, il Salisburgo, sito in un campionato dal livello piuttosto basso, in cui era possibile con pochi fondi e una buona organizzazione arrivare rapidamente a dominare: dalla sua istituzione, il primo club della Red Bull ha vinto tredici titoli nazionali su sedici, e l’ultima volta che un’altra squadra è stata campione d’Austria era il 2013. Poi, la holding si è espansa negli Stati Uniti, in un paese calcisticamente marginale ma che rappresenta il cuore dell’economia globale (non a caso, la succursale americana è stata impiantata a New York). Quindi in Brasile, la nazione che produce più talento calcistico al mondo, e dopo in Ghana, mettendo un piede nei mercati footballistici sudamericano e africano, ma con potenzialità economiche fuori scala rispetto ai club locali. L’approdo in Germania è servito a costruire una squadra in uno dei massimi campionati europei, in grado di lottare per titoli a livello internazionale.

La Red Bull ha costruito una gerarchia interna che le permette di assicurarsi i migliori giovani in alcuni mercati strategici extra-europei, farli crescere in un sistema coeso e ben strutturato, e poi promuovere i migliori al Salisburgo, un club con poche pressioni in ambito nazionale, che favorisce l’ambientamento nel nuovo continente, ma allo stesso garantisce di fare esperienza nelle coppe europee. Chi supera questo step vola a Lipsia, nella squadra di punta del gruppo, e se fa abbastanza bene può essere ceduto ad altri club per una cifra considerevole. In tutti questi passaggi, la Red Bull non ha speso quasi nulla, controllando il giocatore fin dagli anni giovanili: si tagliano fuori i prezzi fuori scala dei cartellini e le commissioni esorbitanti dei procuratori, due problemi di cui solo di recente i proprietari dei club di calcio hanno iniziato a rendersi conto.

Non tutte le MCO funzionano così bene: nonostante la sua vastissima rete, il City Football Group ancora non riesce a costruire una base abbastanza solida da sostenere la prima squadra del Manchester City. Altri nemmeno sono interessati a questo tipo di gestione: il punto è diversificare i ricavi, ammortizzare i rischi, sfruttare al massimo il boom economico del football moderno. Possedere una squadra di calcio seignifica entrare in relazione con l’economia di quel paese, intessendo rapporti commerciali che vanno ben oltre il rettengolo verde. Non è un caso che nelle grandi capitali della finanza occidentale i club siano tutti o quasi in mano straniera e legati a MCO: l’Inter di Suning (che fino al 2021 possedeva lo Jiangsu), il già citato Milan di RedBird, il New York Red Bull, il New York City FC, il New York Cosmos di Rocco Commisso (proprietario anche della Fiorentina), il Paris Saint-Germain della famiglia reale del Qatar (che, attraverso l’Aspire Academy, gestisce vari club minori in Austria, Spagna e Belgio), il Red Star FC di 777 Partners (che controlla anche il Genoa, lo Standard Liegi e il Vasco da Gama), per non parlare delle numerose squadre londinesi.

Più in piccolo, Giampaolo Pozzo si è segnalato per essere uno dei pionieri delle multiproprietà multinazionali del pallone, quando nel 2009 ha acquistato il Granada, trasformandolo in un luogo dove parcheggiare alcuni giovani dell’Udinese. Negli anni precedenti, il club friulano si era segnalato per la sua gestione efficace, che consisteva in una vasta rete mondiale di osservatori focalizzata sul portare a Udine talenti a basso costo da far crescere e poi rivendere: acquistare una nuova squadra significava ampliare le possibilità di accogliere questi giovani giocatori, aumentando così i ricavi potenziali. Dopo aver venduto il club spagnolo nel 2016 alla holding cinese Desports Group (che possedeva anche il Chongqing Lifan, e che un anno dopo avrebbe preso il Parma), ha ripiegato sul Watford. Grazie ai guadagni del campionato inglese, gli Hornets hanno superato il fatturato dell’Udinese e possono all’occorrenza servire per coprire le perdite della società italiana.

Negli anni Novanta, la Parmalat di Calisto Tanzi, proprietario del Parma, sponsorizzava i brasiliani del Palmeiras, che in quegli anni arrivò a vincere due campionati nazionali e una Copa Libertadores. Nello stesso periodo, le due società arrivarono a scambiarsi giocatori come Asprilla, Amaral, Alex e Júnior.

Ma nemmeno per la Red Bull si tratta solo di sport, come ha spiegato l’esperto di diritto sportivo internazionale Luca Pastore a Rivista Undici: “La presenza nel calcio di Red Bull ha una valenza puramente commerciale. Esserci serve a promuovere il nome del brand industriale nel mondo”. Attraverso le sue squadre, l’azienda di Mateschitz ribadisce l’approccio giovane, spettacolare e accattivante del suo brand: i successi nello sport servono a fidelizzare sempre più tifosi-consumatori alla marca di energy drink più famosa al mondo. È più o meno quello che un tempo facevano gli sponsor, solo che qui lo sponsor è anche titolare e ha completamente ribrandizzato la squadra secondo lo stile della ditta: i club Red Bull, più che società sportive, sono uffici aziendali.

All the Money in the World

Da questo breve ritratto delle multiproprietà del football appare chiaro che esse differiscono per approccio, filosofia, vastità e in un certo senso anche obiettivi. L’unica cosa ad accomunarle è appunto il fatto di essere club di calcio che condividono il medesimo proprietario di altri, e che stanno vivendo una rapidissima crescita, al punto che non è praticamente possibile fornire un elenco di tutte quelle esistenti senza doverlo aggiornare dopo poco tempo. Nel 2017, quando per la prima volta la UEFA ha iniziato ad avvertire il bisogno di fare una conta, erano stati individuati 26 club europei appartenenti a MCO; quattro anni dopo, ce ne’erano almeno 56, e globalmente la rivista World Soccer ne aveva contati 117, divisi in 45 gruppi e riguardanti 37 paesi.

Questi numeri sono abbastanza significativi: tanti club di calcio nelle mani di poche persone, concentrati in ancora meno campionati. Non è difficile immaginare che la maggior parte si trovino in Europa, cioè dove ha sede il mercato calcistico più ricco e sviluppato al mondo, quello che fa capo alla UEFA. Il Regno Unito è logicamente il paese più rappresentato, essendo quello con più campionati (Inghilterra, Scozia, Irlanda del Nord e Galles hanno quattro federazioni distinte, ognuna coi propri tornei) ma soprattutto in cui girano più soldi. Sorprende però notare che subito dopo arrivano due nazioni “minori” come Belgio e Danimarca: nel primo caso, abbiamo un sistema economicamente fragile in cui è facile acquistare una squadra a prezzo di saldo; nel secondo, un campionato marginale ma con ridotti problemi d’indebitamento. In comune hanno il fatto di essere due ambiti che stanno vivendo una grande fase di sviluppo di giovani talenti, che possono poi essere rivenduti all’estero: due paradisi per chi vuole costruire un progetto basato sul player trading, specialmente se contemporaneamente si possiede anche una squadra in uno dei cinque principali campionati UEFA.

L’aspetto sportivo di questi conglomerati sta diventando via via sempre meno determinante: il punto è insediarsi nel posto giusto, dove procurarsi i migliori giocatori con il minimo sforzo economico. Ecco perché il Brasile potrebbe essere la nuova Mecca delle multinazionali del calcio: Red Bull e 777 Partners ci sono già, lo scorso gennaio il magnate americano John Textor – che già possiede metà del Crystal Palace e la maggioranza del RWD Molenbeek – ha preso il Botafogo, e il Flamengo annunciava a ottobre 2021 un piano per acquistare vari club in Europa dove sviluppare alcuni dei suoi talenti. Questa è, in un certo senso, la reazione delle proprietà all’ascesa dei procuratori: bisogna arrivare prima di tutti sui campioni di domani, spostandoli da un paese all’altro come pedine, controllandone la carriera fino a che non siano maturi per diventare asset finanziari da cedere al miglior offerente.

Tutto questo si traduce a volte, però, in risultati in campo abbastanza modesti, dato che il focus del progetto è crescere giocatori per venderli e fare plusvalenze. Plusvalenze che nemmeno vengono reinvestite massicciamente nello sviluppo sportivo, ma che vanno invece ad arricchire la proprietà. Qui si crea la prima frattura nello schema del calcio che abbiamo sempre conosciuto: una simile gestione condanna implicitamente i club che stanno più in basso nella catena alimentare della propria MCO a non poter ambire a grandi risultati, essendo subordinati a quelli del vertice della piramide, sia esso un altro club o la proprietà stessa. In cambio della stabilità economica, i tifosi devono rinunciare al sogno di riuscire un giorno a vincere qualcosa di veramente importante. È il ribaltamento di quanto avveniva in Italia negli anni Novanta, quando si rinunciava alla stabilità economica per inseguire trofei e sogni di grandezza.

Guo Guangchang, presidente del colosso cinese Fosun International Limited, è dal 2016 proprietario del Wolverhampton Wanderers. Nel 2020, sua moglie Jenny Wang, a capo di Sky Sun, ha acquistato gli svizzeri del Grasshopper.

Questo, ovviamente, succede quando le cose vanno bene. La grande esplosione finanziaria del football europeo ha portato molti investitori a fagocitare bulimicamente club senza avere tempo e modo di “digerirli”. Tra la fine del 2021 e l’inizio del 2022, 777 Partners ha acquistato quattro società di calcio tra Europa e Sudamerica, con il risultato che lo Standard Liegi ha chiuso quattordicesimo in classifica (peggior risultato di sempre), il Genoa è retrocesso in Serie B dopo quindici stagioni di A, e attualmente il Vasco da Gama si trova a metà classifica nella seconda divisione brasiliana. Oppure c’è il caso del fondo NewCity Capital di Chien Lee, che possiede il Barnsley, il Nancy, il Thun, l’Oostende, l’Esbjerg, il Den Bosch e il Kaiserslautern: sette squadre messe assieme in cinque anni, con le quali ha collezionato ben quattro retrocessioni.

Questi esempi negativi non devono però far cantare vittoria ai critici delle multiproprietà: in proporzione, gli episodi di malagestione da parte delle MCO non sembrano essere più numerosi che quelli del “vecchio” calcio. I fatti ci dicono che le multiproprietà del pallone, ben lungi dall’essere una moda passeggera, stanno diventando lentamente preponderanti a livello numerico e di risultati: quest’anno le società MCO hanno vinto tre dei top cinque campionati UEFA, e solo le resistenze di paesi come Germania e Spagna consentono di mantenere in equilibrio il confronto. Risiede proprio qui, in realtà, il vero problema: progressivamente, il potere del calcio sta andando a convergere nelle mani di un numero sempre più ristretto di persone, creando una specie di Superlega de facto nel calcio europeo, in cui l’élite non è rappresentata dai club ma dai loro proprietari, che monopolizzano un intero settore.

Il grande successo di queste società, infatti, sta nel modo in cui stanno riuscendo ad aggirare efficacemente le regole, spostando sempre più in là l’asticella del consentito. Il caso della Salernitana è emblematico: le leggi della FIGC, formalmente, impedivano a Lotito di possedere due club nelle serie professionistiche italiane, ma nessuno ha avuto il coraggio di opporsi all’acquisizione del club campano, scommettendo sul fatto che non sarebbe mai arrivato a condividere la stessa categoria della Lazio, creando un evidente conflitto. E, quando questo è successo, si è corsi ai ripari, ma la Salernitana ha comunque disputato mezzo campionato in una situazione di violazione, affrontando proprio la Lazio nel girone d’andata. Allo stesso modo, a settembre 2018 Salisburgo e RB Lipsia sono state sorteggiate nello stesso girone di Europa League e si sono affrontate due volte, senza che la UEFA facesse nulla per evitarlo.

Le MCO sono riuscite a rendersi indispensabili – se non addirittura ineluttabili – nel calcio moderno, rivelandosi il modo migliore per attirare investitori in grado di dare stabilità economica ai club. Davanti a questo indubbio vantaggio, che minimizza teoricamente il rischio di bancarotta e favorisce maggiore circolazione di denaro, il governo del football ha scelto di chiudere un occhio e cedere il passo alla novità, a costo di aggirare le proprie stesse regole sull’equa competizione sportiva. Che poi è lo stesso discorso per cui squadre come PSG e Manchester City possono violare il Fair Play Finanziario senza subire conseguenze: la loro presenza nel settore tiene in piedi tutto e tutti, anche chi li critica.

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Fonti

CHICCO Michele, L’era delle multiproprietà, Rivista Undici

MENARY Steve, Special Report: Multi-Club Ownership, World Soccer

Multi-Club Ownership – Is this the future of football?, Football Benchmark

SLATER Matt, From Red Bull to Barnsley: Does owning multiple clubs actually work?, The Athletic

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