Matateu, l’ottava meraviglia

“Gli uomini neri come me / non chiedono di nascere / né di cantare. / Ma nascono e cantano / perché la nostra voce è la voce incorruttibile / dei momenti di angoscia senza voce / e dei passi trascinati nelle vecchie fattorie.”

José Craveirinha

Al momento del terzo gol portoghese, l’Italia ancora non intravede il disastro che si sta prefigurando all’orizzonte, sebbene la giornata sia delle più tetre: i lusitani – una squadra modesta e senza tradizione – si stanno imponendo per 3-0 nelle qualificazioni ai Mondiali del 1958. Al ritorno, gli Azzurri restituiranno la batosta, ma poi crolleranno a Belfast e, per la prima volta nella storia, falliranno la qualificazione al torneo. L’opinione pubblica addosserà la colpa agli oriundi, stranieri nazionalizzati che erano stati protagonisti dei due titoli mondiali degli anni Trenta e che adesso diventano il capro espiatorio perfetto per la crisi tecnica della nazionale.

In quel 26 maggio 1957 a Lisbona, l’altra squadra in campo sta vivendo una situazione quasi opposta: il Portogallo sta faticosamente iniziando a emergere nel calcio internazionale grazie proprio a degli oriundi, immigrati dai possedimenti africani che ancora resistono alla decolonizzazione. La rete che suggella, nel finale, il risultato la segna uno di loro: Sebastião Lucas de Fonseca, in arte Matateu.

Il Portogallo, lo ha scoperto che aveva già 24 anni, l’età in cui un calciatore è ormai prossimo alla maturità. Cose che capitano, se arrivi da un altro mondo e devi farti strada nell’Europa bianca: Matateu è nato e cresciuto a Lourenço Marques, capitale del Mozambico “portoghese”, nel sud di un paese dell’Africa meridionale affacciato sull’Oceano Indiano e sul Madagascar: è difficile immaginare qualcosa di così lontano e opposto del Portogallo, che invece si trova nella parte più occidentale dell’Europa.

Una delle rare foto a colori di Matateu, con indosso la maglia blu del Belenenses.

In realtà non è il primo nero a giocare per la madrepatria: nel decennio precedente i lusitani bianchi avevano fatto la conoscenza di Guilherme Espírito Santo, punta del Benfica con otto apparizioni in nazionale. Ma era un caso molto diverso: Espírito Santo era nato a Lisbona, figlio di immigrati di São Tomé, anche se poi era cresciuto in Angola prima di fare ritorno in Europa. Era già un uomo a cavallo dei due mondi, e non un comune africano come Matateu, che in groppa al cavallo doveva ancora capire come arrivarci. In Mozambico aveva giocato per alcune squadre locali fin da giovanissimo, prima per il João Albasini e poi per il 1° de Maio, la succursale locale del Belenenses.

Già perché i club portoghesi hanno spesso delle squadre coloniali, e talvolta capita che in queste squadre appaia un ragazzo particolarmente promettente che viene segnalato alla casa madre: il calcio è uno dei pochissimi strumenti che ha un nero che raggiungere l’Europa e trovare un buon lavoro, che gli permetta di integrarsi tra i bianchi e cambiare la propria vita, destinata altrimenti a sacrifici e povertà.

La guerra era finita, e il fascismo degli anni Trenta era stato sconfitto; così, il regime di Salazar aveva deciso di riposizionarsi sullo scacchiere internazionale come amico delle potenze occidentali, per tanto doveva darsi una ripulita.
Il razzismo istituzionalizzato verso i neri andava nascosto sotto lo zerbino, e per questo le teorie lusotropicaliste del brasiliano Gilberto Freyre cascavano a fagiolo: secondo il filosofo, il colonialismo portoghese era sempre stato “migliore” e meno barbaro di quello degli altri paesi europei, il razzismo non era mai esistito e la mescolanza etnica faceva parte della tradizione lusitana.

Ovviamente, Freyre era un bianco; la sua era una filosofia bianca e auto assolutoria, che un regime fascista come quello dell’Estado Novo poteva usare comodamente anche nei confronti dei paesi democratici come gli Stati Uniti, per dirgli: «vedete? qui i neri sono trattati bene, non come da voi».

Il giovane Eusébio, a sinistra, stringe la mano al vecchio Matateu, a destra, nel 1961.

La verità era che gli immigrati africani rimanevano ai margini della società, sottopagati e relegati nelle periferie; eppure c’era l’idea diffusa che il calcio potesse ribaltare le loro sorti, emanciparli dallo stereotipo etnico e permettere loro di essere assimilati dalla cultura europea. Nel 1949, lo Sporting Lisbona aveva mediato con il governo per rivedere le norme e facilitare l’acquisto di calciatori dalle colonie africane, concludendo così gli acquisti di Mário Wilson e Juca, entrambi nativi di Lourenço Marques. Nella pratica, i colonialisti europei stavano sottraendo all’Africa un altro tipo di risorse fino a quel momento ignorate, gli atleti.

Matateu sbarcò a Lisbona nel 1951 e senza troppo clamore. Il Belenenses era solamente la terza e meno nota squadra di Lisbona, anche se aveva avuto un breve periodo di gloria nel decennio precedente, vincendo una Taça de Portugal e un campionato (storico, per la verità: è stata la prima squadra fuori dalle Três Grandes: Benfica, Sporting e Porto a vincere il titolo, e nella storia ce ne sarà solo un’altra: il Boavista, nel 2001), ma da tempo era tornata a livelli mediocri.

Alto Maé e Belém hanno almeno due cose in comune: si affacciano su un fiume a pochi passi dall’oceano. Sono i due barrios di Matateu, quello dov’è cresciuto e quello dove s’è affermato. Ma se nel primo doveva mantenersi come operaio, nel secondo veniva pagato per giocare a pallone, e in breve sarebbe arrivato a essere pure ben pagato, per gli standard dell’epoca della squadra.

Il Belenenses lo aveva soffiato in extremis al Porto, che gli aveva già formalizzato un’offerta, cercando di scavalcare il club della capitale; poi, sua madre si era messa di mezzo, paventandogli il timore di trovarsi solo in una città del Nord, troppo lontano dalla calda e accogliente Lisbona. O forse, semplicemente, il Belenenses fece valere la sua prelazione sul giocatore, e non ci fu nessuna romantica storia madre-figlio a indirizzarlo verso Belém.

Matateu al tiro con la maglia del Belenenses. Ha segnato 210 reti in 268 incontri ufficiali con gli Azuis.

Lo scrittore malizioso, qui parlerebbe di un classico sliding-door: la scelta della squadra influenzerà notevolmente la carriera di Matateu e anche il ricordo, molto rarefatto, che di lui si ha oggi, in Portogallo come all’estero. Ma la verità è che il campionato portoghese di quegli anni era un affare cittadino di Lisbona; il Porto non vinceva un titolo addirittura dal 1940, ed erano Benfica e Sporting a contendersi le prime due posizioni in classifica, anno dopo anno. Con la punta mozambicana, il Belenenses avrebbe iniziato un pochino a scalfire quel dominio.

Nel 1953, condusse gli Azuis al terzo posto, miglior piazzamento dal 1949, e conquistò la classifica dei marcatori: era la prima volta nella storia che un nero segnava più gol di qualsiasi altro portoghese bianco. Questo successo portò alla consacrazione di Matateu a livello nazionale, e fece seriamente da apripista all’approdo degli africani in campionato anche in giovane età: l’estate seguente, il Benfica fece arrivare dal Desportivo de Lourenço Marques il diciannovenne Mário Coluna, destinato a diventare uno dei più grandi calciatori al mondo, e quattro anni più tardi lo Sporting fece lo stesso con un altro ragazzino mozambicano, il difensore Hilário.

Nell’estate del 1954, assieme a Coluna, in Portogallo approdò anche Vicente, anche lui di 19 anni e di Lourenço Marques. Benché avessero otto anni di differenza, Vicente e Matateu erano fratelli, ed era stato proprio l’attaccante a consigliarne l’acquisto al Belenenses. Assieme, formarono una delle prime grandi coppie di fratelli del calcio moderno e, nella stagione seguente, il Belenenses sfiorò un clamoroso trionfo nazionale: all’ultima giornata, la squadra di Belém venne raggiunta sul 2-2 nei minuti finali dallo Sporting e, contemporaneamente, su un altro campo il Benfica vinceva, passando in testa alla classifica. Da allora, il Belenenses non è mai più stato così vicino a diventare campione nazionale.

Ma il vento stava cambiando. Il largo successo sull’Italia era ancora di là da venire, ma nel maggio del 1955 la Nazionale ospitò allo stadio Das Antas di Porto la fortissima Inghilterra, da cui aveva sempre subito sconfitte, spesso pure molto pesanti (nel 1947, addirittura per 10-0). Quella inglese era la squadra di Bert Williams, di Billy Wright, dell’astro nascente del Manchester United Duncan Edwards e ovviamente di Stanley Matthews, che all’epoca era semplicemente il calcio personificato.

I monumenti ai fratelli Matateu e Vicente, a Belém, vicino Lisbona.

Ma, dopo un’iniziale rete britannica, il Portogallo seppe rimontare e vincere per 3-1; il gol del vantaggio fu segnato da Matateu, ormai giocatore imprescindibile per le speranze dei lusitani di competere a livello internazionale. La stampa inglese era incantata dalle sue straordinarie doti atletiche e dai suoi dribbling ubriacanti, l’inviato del Daily Sketch riportò: «siamo stati sconfitti dall’ottava meraviglia del mondo».

Un mese dopo, il Real Madrid di Alfredo Di Stéfano conquistava la Coppa Latina, una delle grandi competizioni europee per club dell’epoca, davanti allo Stade Reims di Raymond Kopa e al Milan del trio Nordahl-Liedholm-Schiaffino. Eppure fu proprio Matateu – il cui Belenenses chiuse ultimo – a venire eletto da France Football come miglior giocatore del torneo. Il suo nome era uno dei più noti del calcio mondiale dell’epoca, solo che all’epoca la fama non comportava gli stessi privilegi di oggi: Matateu non ricevette offerte folli dai grandi club europei, e le regole del calciomercato vincolavano i giocatori ai propri club al di là delle ambizioni personali, specialmente nel Portogallo salazarista.

Ciò che manca, nel suo curriculum, sono i trofei: Belém è un ambiente che andrà sempre stretto alla sua classe. È nato forse nel periodo sbagliato, come tutti i pionieri: era un campione in un Portogallo mediocre così come lo era nel suo club. Nel 1960, ha 33 anni quando vince il suo primo e unico titolo con il Belenenses: in finale di Taça de Portugal contro lo Sporting, gli Azuis vanno sotto, poi pareggiano con Carvalho, e infine Matateu segna il gol della vittoria. Ci vorranno altri 29 anni per vedere il club di Belém vincere una competizione.

Giocherà altre quattro stagioni in bianco-blu, aiutato da una tecnica e da fisico superiori alla media. Fino a che lui sarà in campo, il Belenenses si piazzerà regolarmente tra le prime posizioni della classifica, e dopo il suo addio entrerà in declino. Nel frattempo, nello stesso anno in cui Matateu sollevava la sua coppa, nel Benfica esordiva un altro ragazzino nero di Lourenço Marques, Eusébio da Silva Ferreira: nel 1965, sarebbe divenuto il primo nero premiato con il Pallone d’Oro.

E, un anno dopo, il Portogallo avrebbe partecipato per la prima volta ai Mondiali, chiudendo al terzo posto. In campo, tanti figli dell’Africa: Eusébio, Coluna (che era addirittura capitano), Hilário, e anche Vicente, il fratello di Matateu. Sono loro, i ragazzi delle colonie, ad aver reso grande il calcio portoghese.

Storia originariamente pubblicata su Sosteniamo Pereira.

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