Sembrava quasi fatta. La semifinale d’andata era stata sensazionale, e il Boavista aveva sfiorato la vittoria al Celtic Park, uno stadio ritenuto quasi inespugnabile; dopo quel 1-1, mancava solo un agevole ritorno in casa. Qualificandosi, non solo le Panteras avrebbero raggiunto la prima finale europea della loro storia, ma avrebbero anche dato vita a uno storico match tutto portoghese contro i rivali cittadini del Porto, che avevano praticamente già fatto fuori la Lazio. Invece, dopo ottanta minuti di dominio e occasioni sprecate, Henrik Larsson spezzava i sogni di gloria del Boavista e mandava gli scozzesi alla loro prima finale europea dal 1970. Iniziava così il tramonto di una favola.
Riavvolgiamo. Ramalde è una frazione ormai inglobata dentro la fitta cerchia urbana di Porto. Un tempo, era un piccolo centro a sé stante, pieno di operai impiegati nelle fabbriche locali, e comunque sempre a pochi passi dalla città, inclusa in quella grande area dai confini imprecisati conosciuta come Boavista, che dalla rotonda di Praça de Mouzinho de Albuquerque si sviluppa lungo Avenida de Boavista e in cinque chilometri arriva all’oceano. Ma, calcisticamente parlando, Boavista non è Porto, non ha la sua fama né la sua nobiltà sportiva.
Nel corso degli anni Novanta le cose hanno iniziato a prendere una piega diversa, e le Panteras bianconere sono diventate la quarta forza della Primeira Liga, alle spalle delle storiche corazzate Benfica, Sporting e Porto. Il presidente João Loureiro è un uomo di ambizione e con le idee chiare, ansioso di proseguire l’ottimo lavoro iniziato da suo padre Valentim.
Il vecchio Loureiro aveva assunto il controllo del club nel 1974, una data fondamentale per la storia del Portogallo: il 25 aprile, la Rivoluzione dei Garofani aveva abbattutto il regime salazarista e aperto il paese al rinnovamento; sul fronte sportivo, questo aveva consentito la fine del monopolio statale sulle società di calcio e l’emergere di nuovi club, in particolare al Nord, da sempre avverso alle squadre dell’area di Lisbona, che invece godevano di maggiori favori governativi. All’epoca, il Boavista era in prima divisione da cinque stagioni, tutte piuttosto mediocri: l’anno successivo, sotto la guida di José Maria Pedroto, le Panteras sollevavano la loro prima Coppa di Portogallo, a cui ne sarebbero seguite altre quattro in poco più di vent’anni.
La dimostrazione del grande successo della strategia manageriale di Valentim Loureiro non erano stati solo i titoli, ma anche i talenti che il Boavista era riuscito a lanciare con il proprio settore giovanile, come la punta João Pinto e il suo giovane erede Nuno Gomes, entrambi partiti in direzione Benfica. In squadra erano invece rimasti Jorge Silva, Pedro Emanuel, Rui Bento, Martelinho e Petit. Tra i rinforzi principali erano arrivati, col tempo, il promettente portiere Ricardo, l’ex-Porto Jorge Couto e soprattutto l’eccellente regista boliviano Erwin Sánchez, che era divenuto il perno della squadra.

La mossa decisiva della storia del Boavista fu firmata proprio da João Loureiro, subito dopo essersi insediato alla presidenza del club nel 1997: l’ingaggio come allenatore di Jaime Pacheco, giocatore simbolo del grande Porto degli anni Ottanta e quinto classificato nel precedente campionato sulla panchina del Vitória Guimarães. Con pochi altri innesti – il bomber del Braga Elpídio Silva, il connazionale e compagno di reparto Duda, e il jolly difensivo Nuno Frechaut, ex-Vitória Setúbal – nel 2000 il Boavista si ritrovò a disposizione una rosa di talento e ben rodata, seppur senza giocatori di particolare fama.
È difficile, oggi, dire esattamente quando e perché gli Axadrezados presero il volo. Gran parte delle responsabilità di quella stagione grava anche sulle spalle degli avversari: il Benfica visse una delle sue peggiori annate, e dopo poche partite Jupp Heynckes viene licenziato e sostituito dal giovane José Mourinho, che però non giunse al Natale, e venne rilevato da Toni, con cui le Águias chiusero con un deludente sesto posto. A loro volta, i detentori del titolo dello Sporting Lisbona cambiarono tre allenatori in due mesi, e restarono ai margini della lotta scudetto.
In compenso, il Porto di Fernando Santos era un’ottima squadra: a inizio campionato infilò una serie di sette vittorie e dieci risultati utili consecutivi, dando l’impressione di poter replicare lo scudetto di due stagioni prima. A questo punto, dopo dodici giornate, il vantaggio sul Boavista – che aveva sofferto soprattutto in trasferta, dove raramente era riuscito a imporsi – era otto punti. Ma nel finale del girone d’andata, la squadra di Santos iniziò a sua volta a stentare fuori casa, perdendo a Braga e a Leiria, e infine anche nel derby all’Estádio do Bessa, a causa di una rete in contropiede di Martelinho.
Al giro di boa del torneo, quindi, il Boavista aveva superato i rivali in testa alla classifica e, mantenendo le distanze nonostante un complicato inizio del girone di ritorno, dopo la 21° giornata prendeva un ritmo impressionante, raccogliendo 32 punti su 36 e assicurandosi il campionato appena prima dello scontro diretto col Porto, all’ultima giornata. L’unica altra squadra non appartenente alle Três Grandes ad aver vinto il torneo era stato il Belenenses: era il 1946.

Il miracolo del Boavista si inserisce nella storia delle grandi imprese del calcio, come il Verona del 1985 o il Deportivo La Coruña che solo un anno prima si era aggiudicato la Liga spagnola. Gli Axadrezados neo-campioni non avevano grandi possibilità di spesa, e anzi cedettero uno dei loro pezzi pregiati, l’attaccante brasiliano Whelliton, agli andalusi del Córdoba. La dirigenza, abituata a lavorare sui parametri zero, lo sostituì con il connazionale Alexandre Goulart del Cruzeiro. Ma il punto di forza del Boavista era la continuità, con cui venne garantito a Pacheco sostanzialmente lo stesso organico dello scudetto, mentre dalle giovanili si facevano largo il centrocampista Raul Meirelles e il terzino José Bosingwa.
La vittoria dell’anno prima aveva sconquassato gli equilibri del calcio portoghese, portando alla fine del regno di Fernando Santos al Porto, mentre più a sud continuava imperterrita la crisi del Benfica. Così, nella nuova stagione, fu lo Sporting Lisbona a porsi come principale rivale per il titolo, forte dell’arrivo di un maestro come Laszlo Boloni in panchina e del ritorno in terra lusitana dell’implacabile punta Mario Jardel.
In campionato fu un testa a testa fino alla fine, in cui lo Sporting prevalse grazie alla maggiore esperienza e tenuta mentale dei suoi uomini. In Champions League, il Boavista diede ulteriore spettacolo, ottenendo un’incredibile qualificazione alla seconda fase, terminando al secondo posto un girone di ferro con la Dinamo Kiev di Lobanovskyi, Borussia Dortmund di Matthias Sammer – che a fine stagione avrebbe centrato la finale di Coppa UEFA – e il Liverpool fresco trionfatore nella Supercoppa europea. Accedette così alla seconda fase a gironi, dove però poco potè contro lo strapotere di Bayern Monaco e Manchester United.
Ma ormai, il Boavista si era guadagnato il proprio posto nei piani medio-alti del calcio europeo. Dopo un altro mercato fatto di pochi colpi mirati e di conservazione dell’ossatura della squadra, in cui era arrivato a vestire la maglia a scacchi il promettente centrocampista Filipe Anunciação, il Boavista di Pacheco si preparava a nuove sorprese. Ma l’estenuante serie dei turni preliminari di Champions League, oltre a interrompersi prima della fase finale a causa dell’Auxerre, compromise la preparazione della squadra, che fin da subito si ritrovò lontana dalla lotta per il vertice della Primeira Liga.
Ripiegando in Coppa UEFA, Pacheco decise di puntare tutto su questa competizione ìper risollevare le sorti della stagione e della sua panchina: in ordine, il Boavista eliminò Maccabi Tel Aviv, Anorthosis, Paris Saint-Germain, Herta Berlino e Malaga, raggiungendo la semifinale contro gli scozzesi del Celtic, mentre dall’altra parte del tabellone i rivali cittadini del Porto, allenati dall’emergente José Mourinho, puntavano a loro volta alla finale. Ma da qui la storia la sapete: Anunciação portò i portoghesi avanti a Glasgow, prima del pareggio di Larsson; di nuovo lo svedese, al ritorno, avrebbe deciso partita e qualificazione.

Così, mentre emergeva il Porto di Mourinho – che quell’anno avrebbe vinto la UEFA, e quello successivo la Champions League – la favola del Boavista iniziava il suo declino. Loureiro insistette con una politica di mercato contenuto, puntando su affari, scommesse e giovani; Jaime Pacheco tentò senza successo qualche altra esperienza, salvo poi tornare a Ramalde, dove allenò di fatto fino al 2008. E a quel punto avvenne il fattaccio.
Già nell’aprile del 2004 sedici persone erano state arrestate nell’ambito di un’indagine sulla corruzione nel calcio, e tra esse anche Valentim Loureiro, che dopo la poltrona del Boavista s’era seduto su quella della Lega Calcio portoghese. Pinto da Costa – il potente proprietario del Porto, fautore dell’ascesa del club ai vertici europei a partire dagli anni Ottanta – era un altro, accusato di aver pagato una prostituta a un arbitro per aggiustare un risultato in favore dei Dragões. Uno scandalo così non ci voleva, non a pochi mesi dalla più importante manifestazione sportiva che il Portogallo avesse mai ospitato: gli Europei di calcio, a cui la nazionale lusitana si presentava da favorita. In breve fu tutto messo a tacere.
Ma l’uscita dell’autobiografia dell’ex-compagna di Pinto da Costa, Carolina Salgado, il dicembre seguente rivelò nuove testimonianze e nuovi fatti: le indagini furono riaperte, e nel 2007 si scoprì che vi erano coinvolti altri arbitri e altri club, come il Nacional de Madeira e il Boavista. Il caso Apito Dourado (Fischietto d’Oro) travolse il calcio portoghese, facendo fioccare condanne per abuso di potere; Valentim Loureiro subì una condanna penale, mentre suo figlio João fu sospeso per quattro anni dall’attività sportiva. Altre squalifiche colpirono Pinto da Costa e il presidente dell’União Leiria João Bartolomeu, oltre a cinque arbitri; il Leiria si vide comminati tre punti di penalizzazione, e il Porto sei, e fu sul punto d’essero escluso dalla Champions League. Per il Boavista, il club più coinvolto nella corruzione, fu decisa una clamorosa retrocessione d’ufficio.
Con la squadra smembrata, sia dal punto di vista tecnico che dirigenziale, il Boavista concluse la sua prima stagione in Segunda Liga dopo quarant’anni con un’ulteriore clamorosa retrocessione in terza categoria. Due anni dopo sfiorò la promozione per un soffio, ma ormai le Panteras non ruggivano più. Fu una fortuna per certi versi beffarda, quella accaduta allora nel 2014: il tribunale, alla fine, assolse sia Pinto da Costa che l’arbitro Jacinto Paixão, comportando una revisione del processo sportivo, che si concluse con un ripescaggio del Boavista di ben due categorie, approfittando dell’allargamento a diciotto squadre della Primeira Liga.

La brusca fine della favola del Boavista può forse raccontare una breve epoca del calcio portoghese, quella della sua fugace e improvvisa risurrezione, trascinata dai risultati eccellenti del Porto di Mourinho e Pinto da Costa, e dall’organizzazione degli Europei chiusi, deludentemente, dietro la sorpresa Grecia. In mezzo, proprio a cavallo dello scandalo Apito Dourado, c’è stata la crisi economica che ha rivoltato il paese e lo ha costretto a ripensarsi e a ricorstruirsi.
Il ritorno nella massima serie non ha significato, per il Boavista, che tutto sia tornato come prima, anzi: il club è una realtà mediocre del campionato, senza grandi pretese né ambizioni, e il suo breve passato glorioso è una storia curiosa per tifosi non più di primo pelo. Invece, oggi il Portogallo è tornato a splendere come non mai grazie alla sua nazionale e all’esplosione di talenti nati nei sempre più floridi settori giovanili, che adesso fanno beare i club stranieri più di quelli lusitani. Anche il calcio si è ripensato e ricostruito, dopo la sua crisi.
Fonti
–CARVALHO REIS Joana, Lembra-se deles? Há 15 anos o Boavista foi campeão nacional, TSF
–Una volta e mai più/1: Boavista 2000-01, A tifare Golia non c’è gusto
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