Calcio, un fenomeno migratorio

È difficile raccontare il presente senza parlare della migrazione, che per certi versi è il grande elefante nella stanza del mondo (occidentale, soprattutto) in cui viviamo. Eppure se dalle strade e dai porti ci spostiamo al campo da calcio (o al campo sportivo in generale, ma qui si parla pur sempre del mero calcio) ci dovremmo rendere facilmente conto che questo sport è inscindibile dal fenomeno migratorio in ogni momento della sua storia. Il che aprirebbe un altro fronte: la migrazione non riguarda l’oggi, ma l’intera storia del nostro mondo; questo però è un tema che va lasciato necessariamente ad altri autori. Per cui torniamo al punto che ci interessa: l’essenza dellla migrazione nel calcio. Da cui discende una lezione preziosa, oggi più che mai: lo sport può e deve rappresentare un modello di società del presente, in risposta alle paranoie identitarie e xenofobe. Come ha detto Mauro Berruto, “Basta aprire la porta di una palestra o andare su un campo sportivo per verificare che lì esiste già un modello di società che funziona”, multiculturale e inclusiva.

È qualcosa che il calcio, almeno quello popolare, sta cercando di dirci da tempo in maniera molto esplicita. Negli ultimi anni anche in Italia sono sorti numerosi esempi di club amatoriali orientati all’integrazione tra culture e alla sensibilità politica e sociale, dal CS Lebowski al St. Ambroeus, fino a progetti come Balon Mundial, che a Torino organizza un vero e proprio Mondiale di calcio delle comunità migranti locali, un torneo dal quale una decina d’anni fa emerse l’attuale milanista Junior Messias. Il valore comunitario del pallone lo spiega bene uno studio di Valentina Fedele della Link Campus University sui minori non accompagnati in Italia, ovvero quei giovanissimi migranti che raggiungono il nostro paese da soli, senza le loro famiglie. Il lavoro di Fedele mette in evidenza come questi ragazzi, che restano ai margini della società italiana, spesso confinati nei centri di accoglienza, possano sfruttare il calcio come stumento d’integrazione: lo sport li rende visibili nelle comunità e crea un capitale sociale spendibile anche in altri contesti. Attraverso lo sport si guadagnano, almeno in parte, un’accettazione sociale che altrimenti, purtroppo, sarebbe difficilmente raggiungibile. E la storia di Musa Juwara del Bologna ne è un ottimo esempio.

Ma appunto il calcio è pervaso fin dalle sue origini dal concetto stesso di migrazione. Pierre Lanfranchi della De Montfort University sottolinea come i primi calciatori siano stati stranieri: per lo più inglesi, ma ancor di più gli svizzeri, che come raccontato nel podcast di Pallonate in Faccia furono i veri diffusori del football nell’Europa continentale. Pochi sanno che il vero esordio di una selezione della FIGC (all’epoca chiamata ancora Federazione Italiana del Football) non fu il 6-2 alla Francia a Milano nel 1910, ma una sconfitta contro la Svizzera a Torino nel 1899: in campo giocarono sette inglesi, due svizzeri e appena tre italiani. E nonostante questo, fin dalla sua origine, il calcio ha spesso cercato di negare la sua stessa essenza migrante, con varie federazioni che nel tempo hanno promulgato leggi contro i giocatori stranieri. Lo sa bene l’Italia, che per ben tre volte ha chiuso le sue frontiere calcistiche: nel 1926 con la Carta di Viareggio, di nuovo nel 1953 con il “veto Andreotti” (durato appena due anni), e nel 1966. Ma ovunque, nell’epoca pionieristica, assistiamo a fenomeni uguali e contrari: club di stranieri (inglesi, generalmente) che vietano l’iscrizione agli indigeni. Questo succede in Italia come in Brasile, in Messico o nelle Indie Orientali Olandesi. Ma pure l’Inghilterra, pur senza regole esplicite, rimase di fatto chiusa agli stranieri fino al 1978, con gli arrivi di Ardiles e Villa.

Le cose sono cambiate gradualmente. L’exploit dell’Uruguay di José Leandro Andrade alle Olimpiadi di Parigi del 1924 è un punto di svolta fondamentale: il trionfo di una squadra sudamericana, per di più trascinata da un afrodiscendente, pone all’attenzione di tutti un modello alternativo a quello britannico. Andrade che poi era uruguayano di madre argentina e padre brasiliano: tendiamo a pensare che i giocatori con più passaporti siano un frutto della strettissima contemporaneità e del suo multiculturalismo, e invece (come racconta anche Gian Marco Duina nel suo Calcio e migrazioni. Un fenomeno mondiale) esistono da sempre. “Sempre” non è un’esagerazione, sia chiaro: se Luis Monti fece scandalo nel 1934, vincendo i Mondiali con l’Italia dopo averli persi quattro anni prima con l’Argentina, alla fine del V secolo a.C. Astilo già “tradiva” la natia Crotone, con la quale aveva più volte trionfato ai Giochi Olimpici, per gareggiare con grande successo per Siracusa. I crotonesi, per tutta risposta, distrussero la statua che era stata eretta in suo onore presso il tempio di Era Lacinia, mentre a Monti andò decisamente meglio.

Alfredo Di Stéfano giocò sia per l’Argentina che per la Spagna, ed era eleggibile anche per l’Italia. I due principali trasferimenti della sua carriera (in Colombia nel 1949 e in Spagna nel 1953) furono entrambi dettati da motivazioni economiche.

Tornando a Lanfranchi, autore nel 2001 di Moving with the Ball: the Migration of Professional Footballers assieme a Matthew Taylor, individua tre tipi di calciatore migrante. Il primo è il migrante stagionale, come i talentuosi giocatori scozzesi delle origini che scendevano per qualche mese in Inghilterra per guadagnare sterline extra negli ambiziosi club locali, ma anche quelle vecchie glorie del calcio europeo che negli anni Settanta firmavano ricchi contratti brevi con le squadre della NASL nordamericana. Poi ci sono i mercenari, termine da intendere in senso letterale e non dispregiativo, e che anzi sono la base della migrazione calcistica: si trasferiscono all’estero per giocare per il miglior offerente, e a fine carriera rientrano a casa con i lauti guadagni ottenuti. Gli ultimi sono i settlers, gli stanziali, cioè coloro che, dopo essere emigrati per giocare, poi si stabiliscono nel paese di destinazione e non rientrano più stabilmente in quello d’origine. Tre categorie che chiariscono abbastanza bene come il calciatore sia un mestiere strettamente connaturato al concetto di migrazione.

Negli anni Sessanta, la decolonizzazione è stata senza dubbio un fattore cruciale di questa migrazione sportiva, che ha avuto un successo tale da aver innescato dei fenomeni di neocolonizzazione di cui in passato si è già scritto: in molti paesi africani è diventato più conveniente investire nell’educazione calcistica del proprio figlio che non in quella scolastica, perché offre maggiori opportunità di carriera. E di pari passo con le migrazioni economiche extra-sportive questo ha portato a una selezione dei talenti a favore dell’Europa. Per cui, per competere ad alto livello, una nazionale africana si trova a dover spesso puntare su giocatori figli di emigranti, ma quasi sempre solo quelli scartati dal paese europeo d’emigrazione. Da questo punto di vista, il Marocco che abbiamo visto a Qatar 2022 è più un’eccezione che la regola. Questo complesso e stratificato fenomeno migratorio ha due grosse conseguenze: l’intricata questione della cittadinanza e dell’identità nazionale, e il traffico di esseri umani, un problema ancora oggi molto sottovalutato nel mondo del pallone.

Secondo Daniele Canepa, il cosiddetto football trafficking coinvolge un numero tra 5.000 e 15.000 giovani all’anno, provenienti in particolar modo dall’Africa occidentale ma anche dal Sudamerica, e diretti essenzialmente nell’Europa occidentale. Il professor James Esson dell’Università di Loughborough ha stilato una lista di dieci passaggi essenziali del football trafficking, che in poche parole possiamo riassumere così: un autodefinito talent scout avvicina un giovane calciatore e gli propone un trasferimento in Europa, a patto che la famiglia anticipi alcune spese che vanno dai 3.000 ai 5.000 euro; il viaggio avviene, ma non sempre il ragazzo arriva nel paese che gli era stato promesso, e neppure sempre l’agente si fa trovare alla destinazione; quando invece questo avviene, l’agente si fa consegnare documenti e soldi del ragazzo, mettendolo in una condizione di forte vulnerabilità; nelle rare volte in cui gli procura un provino e questo ha esito positivo, il giovane calciatore è forzato a firmare un contratto pesantemente sfavorevole. Nella maggior parte dei casi, questo percorso termina con situazioni di clandestinità nel paese di approdo, poiché, come molte vittime hanno raccontato, subentra un senso di vergogna nel ritornare a casa da “falliti”, e si preferisce restare.

L’altra conseguenza negativa del fenomeno migratorio del calcio è la ben nota insorgenza di sentimenti e retoriche razziste nel paese di approdo. Dell’aspetto più esplicito c’è poco da aggiungere a quanto già detto in passato, ma esiste anche un razzismo meno diretto, per spiegare il quale torna ancora utile un quesito posto da Lanfranchi: “Quanti italiani c’erano nell’Inter campione d’Europa del 2010?”. La risposta che a tutti verrebbe in mente è: 5 (Toldo, Orlandoni, Balotelli, Santon e Materazzi). E invece no: è 15, perché tra essi vanno contati tutti i giocatori con passaporto italiano. Cioè, coloro che sono italiani secondo la legge, che è l’unico criterio tangibile per parlare di nazionalità. Questo discorso si può applicare ad altri ambiti, dalla Francia “africana” (ma in cui tutti i giocatori sono nati o almeno cresciuti sul territorio francese) fino al sempreverde tema degli oriundi italiani, di cui Mateo Retegui è solo l’ultimo arrivato.

In questa formazione ci sono quattro italiani.

Anche di Retegui e di come oggi l’eleggibilità per le nazionali di calcio sia sempre meno legata al concetto ottocentesco di nazionalità si era già scritto, ma Pippo Russo offre sul tema una prospettiva ancora più profonda. Parla infatti più correttamente di skill citizenship, cioè di una cittadinanza per talento (sportivo), che non è una questione limitata al calcio. Risulta infatti illuminante un’intervista del cestista statunitense J.R. Holden a ESPN in cui rispondeva all’accusa di “tradimento” per via della scelta di rappresentare la Russia (paese con cui non aveva alcun legame culturale, se non per il fatto di giocare nel CSKA Mosca) dicendo che in ogni aspetto della sua vita lui era americano, e che l’unica cosa che faceva da russo era giocare a basket. Cosa dire allora, continuava Holden, degli imprenditori americani che magari lavorano in Russia? Oggi il calcio per le nazionali è sempre più orientato allo scouting dei talenti eleggibili: “La diaspora – dice Russo – è divenuta un asset per le federazioni sportive”.

L’essenzialità del fenomeno migratorio nel calcio è tale a ogni livello e quindi anche in quello femminile. Uno dei modelli principali è quello del campionato statunitense, che per anni ha rappresentato un ineguagliabile polo attrattivo per le giocatrici straniere anche grazie alle borse di studio che le università americane offrono alle giovani giocatrici. Francesca Tacchi dell’Università di Firenze ricorda però come a partire dalla fine degli anni Sessanta fu l’Italia il paese europeo che attirava più calciatrici dall’estero: la nascita del primo campionato, nel 1968; la Coppa Europa del 1969 a Torino; i divieti al calcio femminile in paesi come Regno Unito e Unione Sovietica o limitati alle straniere in Spagna; sono tutti fattori che resero l’Italia una meta ambita. Ne discese un ovvio sviluppo tecnico del calcio femminile nel nostro paese, interrotto solo con l’ingresso nella FIGC nel 1986: i club femminili divennero parte della Lega Nazionale Dilettanti, ma dovettero sottostare a un tetto alle giocatrici straniere, che innescò una crisi da cui solo di recente si è usciti.

Accanto quindi ai calciatori e alle calciatrici che sono figli e figlie di migranti, è evidente come il calcio stesso contempli la migrazione come un suo fenomeno basilare. Sia quella tra gli stati sia quella all’interno di uno stesso stato. Il calciatore è per natura un migrante, seppur generalmente privilegiato: un migrante economico, nella maggior parte dei casi, e un lavoratore altamente specializzato. Ma lo stesso discorso potrebbe estendersi anche ai proprietari e presidenti, come sottolineano Luciano Segreto e Francesco Maccelli dell’Università di Firenze: i multiplayers, o “presidenti con la valigia”, come Cellino, Zamparini, Spinelli, Pozzo o De Laurentiis, che aprono anche al fenomeno delle multi-club ownership. Situazioni figlie di un mondo sempre più globalizzato, che sta mettendo in crisi i paradigmi culturali del passato, e di cui proprio il calcio sta denunciando da tempo le contraddizioni. Sta dunque a noi – tifosi, studiosi, giornalisti – trarre una lezione da tutto questo e cogliere il senso di quel modello di società di cui parlava Berruto.

Queste riflessioni sono frutto di due giorni di convegno dell’Academic Football Lab (AFLab) ‘Calcio e migrazioni: storie, opportunità, conflitti’, svoltosi a Torino il 5 e 6 maggio 2023.

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