Una domanda che mi viene spesso fatta, e che spesso mi pongo, è quale sia l’obiettivo (la mission, si direbbe in altri settori) di Pallonate in Faccia, e francamente è sempre difficile trovare una risposta che non sembri presuntuosa o banale. Un vecchio trucco, in casi del genere, è prendere le risposte in prestito da qualcun altro: nel suo libro Ma quale DNA? Il calcio, l’antropologia e le trappole dell’identità (Battaglia Edizioni, 2023), Bruno Barba conclude dicendo che “per crescere uno sport ha bisogno del giornalismo migliore”. Un giornalismo che, almeno in Italia, mi pare molto lontano dal dirsi realizzato. Per cui Pallonate in Faccia è la mia piccola operazione di resistenza a un racconto sportivo che si crogiola nella cronaca compulsiva, nei luoghi comuni e nelle convenzioni su cui non si riflette mai abbastanza, nel populismo più irresponsabile. Oggi più che mai, chi scrive di calcio dovrebbe partire da una visione del mondo coerente prima ancora di mettersi a guardare una partita. Il libro di Barba, che è un ricercatore di Antropologia del Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Genova, può essere un punto di partenza per cogliere spunti di riflessione su un modo più maturo di guardare il calcio.
Fin dal titolo, è chiaro quale sia il perno attorno a cui vorticano tutte le pagine del libro: l’identità, termine centralissimo nel dibattito politico e che trova proprio nel racconto del calcio una delle sue espressioni più forti. L’identità culturale che è appunto una “trappola”, una gabbia come quella dei vecchi zoo: custodisce l’oggetto prezioso che sta al suo interno e previene ogni possibile contatto con l’esterno, attraverso una radicale separazione. Il calcio è pervaso da questo concetto così opprimente e limitante: le “scuole” calcistiche delle varie nazioni, ognuna con i propri stereotipi, sordi a qualsiasi delle numerose contraddizioni a cui si espongono; i tratti “tecnici” che differenziano radicalmente sudamericani, europei e africani; il tifo per uno specifico club. Tutto ciò, come già illustrava François Jullien (L’identità culturale non esiste, Einaudi, 2016), è solamente una finzione, perché la società non è un campo di monoliti inscalfibili, ma una rete di relazioni e di influenze. Il discorso sull’identità – che poi è il discorso sul nazionalismo, di cui ho già scritto – viene continuamente portato avanti incoscientemente dalla stampa sportiva, e finisce indirettamente per alimentare, nelle sue forme più estreme, il razzismo che emerge dai nostri stadi con sempre maggiore forza.
Il libro di Barba vuole quindi essere un tentativo di decolonizzare il linguaggio del calcio da quei luoghi comuni che lo hanno imprigionato. È un discorso che agisce a più livelli, partendo da quello più superficiale che è la famosa retorica del “DNA” delle squadre vincenti, e che viene continuamente ripetuto anche dai migliori commentatori tv. Nessuno è realmente convinto che le squadre abbiano un vero e proprio codice genetico, sia chiaro; eppure questo discorso riaffiora di continuo in tv, sui giornali e su internet. Il paradosso è che di DNA si parla solamente quando la sua regola viene confermata: il “DNA europeo” del Milan è stato artefice quest’anno di un’incredibile cavalcata dei rossoneri fino alle semifinali di Champions League, ma nessuno sembra essersi accorto che questa insolita genetica non abbia sortito alcun effetto nel decennio precedente. E allora perché se ne continua a parlare? Perché si continua a ripetere questa retorica incoerente e che tutti sappiamo essere insensata?
Il discorso si può estendere – e si estende, nel libro – anche ad altri ambiti calcistici. Le identità delle scuole nazionali sono un altro stupendo esempio di narrazione incoerente e che eppure non perde un grammo della seduzione che esercita sul grande pubblico. Quanti tifosi sono refrattari ad abbandonare le “tradizioni” tattiche, come se un’innovazione comportasse l’irreparabile perdita di qualcosa di proprio (l’identità, appunto)? Oggi in Brasile c’è un grande dibattito su chi debba essere il nuovo allenatore della Seleção, dopo il fallimento di Tite. L’ex-tecnico del Corinthians era stato scelto nel 2016 per dare una svolta verso un gioco d’ispirazione più “europea” (derivante cioè dal gioco di posizione rinnovato da Guardiola e Klopp nell’ultimo decennio), ma la sua esperienza è stata disastrosa, e non ha riportato i verdeoro sul tetto del mondo. Così ora l’opinione pubblica del futebol è divisa tra chi vorrebbe un’europeizzazione ancora più marcata (Ancelotti, e quindi una svolta più difensivista) e chi invece chiede un ritorno alla tradizione brasiliana con Pedro Diniz. Una tensione costante tra conservazione e innovazione, che è comune a tutta la nostra società.

Per qualcuno il discorso potrebbe sembrare un po’ noioso e per nulla nuovo. Solo che una cosa è affrontarlo per sommi capi, come potrebbe fare il sottoscritto, e un’altra è vederlo approfondito da un antropologo, che seppure conoscitore di calcio ha uno sguardo e una preparazione accademica che va ben oltre i confini del rettangolo verde. Barba riprende concetti da Ruth Benedict, Émile Durkheim e Alfred Kroeber, gente che di calcio non si è mai occupata ma che ha scritto pensieri che sono comunque applicabili al pallone. Le comunità, diceva Benedict, sono qualcosa di più della somma degli individui che li compongono. Quel qualcosa di più è un sistema di credenze e di tradizioni che, sebbene sia costruito e finto, è al tempo stesso anche molto concreto; e quella è l’identità: una rappresentazione culturale collettiva. Questo è l’aspetto che mi ha intrigato di più: il calcio come rappresentazione, e quindi come interpretazione della realtà. È una scatola vuota, dentro la quale noi vediamo cose diverse ma che ci abbiamo messo noi stessi. Ecco perché nella vita puoi cambiare partner, amici, partito politico ma non squadra di calcio: perché tutti questi soggetti hanno un’identità definita in maniera indipendente dalla tua volontà, mentre quella del tuo club è tutta farina del tuo sacco. Quando cambi nel tempo, l’identità del club cambia con te, poiché è tutta una tua rappresentazione.
“Non è quindi una questione di DNA, cromosomi, sangue, razza, provenienza; – scrive Barba – racconta semplicemente la storia di ognuno di noi, gli incroci, le casualità, le traiettorie esistenziali, insomma la vita che abbiamo e abbiamo voluto rappresentare”. Il calcio è dunque essenzialmente una narrazione, e ogni narrazione identitaria è immancabilmente un mito, cioè “un racconto che origina ideali, costruisce gerarchie, identifica amici e nemici, soprattuto crea un’auto percezione, a livello individuale e di comunità, che convince di essere nel giusto”. Chiunque conosca anche solo un po’ il mondo del tifo non faticherà a riconoscere in ogni gruppo di tifosi, non necessariamente nei soli ultras, i tratti della comunità immaginata (e qui citiamo Benedict Anderson, ovviamente), con le proprie ritualità e i propri miti fondanti, in positivo e in negativo: per gli Interisti possono essere il Triplete del 2010 e il fallo di Iuliano su Ronaldo; per i Granata, il Grande Torino e la tragedia di Superga; e così via.
Fin qui sarebbe anche tutto a posto, purché – ricorda spesso l’autore – si abbia piena consapevolezza che siamo attori di una messa in scena. Quando ciò non accade, e le narrazioni identitarie vengono prese sul serio, succede quello che abbiamo davanti agli occhi negli ultimi tempi, nel calcio ma pure fuori da esso: divisioni violente, posizioni incociliabili, esasperazione dei toni e delle dinamiche. Sono cose che personalmente mi sembrano sempre più evidenti, e un po’ ho provato a parlarne in passato, raccontando la mia esperienza diretta con tifosi che mettono la rappresentazione (solitamente vittimistica) della propria tribù (perché alla fine questo sono le comunità di tifosi, con i loro miti fondanti, i valori, perfino gli animali totemici) davanti a qualsiasi ragionamento logico e addirittura davanti a tematiche sociali come la lotta al razzismo. Ecco allora che tutto il discorso di Bruno Barba diventa estremamente rilevante, in un percorso che mira a farci prendere coscienza di queste dinamiche, e a farci riflettere su come poter parlare e agire nel calcio in una maniera migliore e più matura.
Perché i benefici ci sono: il calcio ha potenzialità enormi come strumento di sensibilizzazione e comprensione della nostra società. Come considerare questo sport se non la lunga e costante dimostrazione di come le identità si mescolino e ridisegnino i propri confini e i propri valori in continuazione? “Lo sport che amiamo racconta di cambiamenti, conflitti, ibridazioni. Cambiano calciatori, allenatori, management, com’è possibile che queste società non cambino ‘stile’?”. Mi sembra di scorgere ancora il pensiero del già citato Jullien, per cui il confronto (e non scontro) tra le identità genera non una differenza, che è sterile, ma uno scarto, che è fecondo e può essere esplorato. Vale a dire che riconoscendo ciò che ci accomuna ed esplorando assieme ciò che ci separa, è possibile trovare una mediazione che ci permetta di (r)innovarci. Un ragionamento che probabilmente sembra più facile da attuare fuori dal campo che dentro, ma proprio attraverso il pallone se ne può dimostrare la sensatezza. Che ne sarebbe del calcio italiano senza gli oriundi, con cui abbiamo vinto tre Mondiali su quattro? Che tradizioni avrebbero i grandi club europei, se in campo e in panchina non avessero avuti stranieri e autoctoni a mescolarsi e scambiarsi qualità ed esperienze? Dove sarebbe il Manchester City degli sceicchi emiratini, oggi finalista in Champions League, senza il tiki-taka spagnolo di Guardiola, che a sua volta dove sarebbe senza il totaalvoetbal olandese di Cruijff e Michels, che dove sarebbero stati senza l’inglese Jack Reynolds, che chissà cosa avrebbe mai combinato se non avesse imparato lo ‘stile scozzese’?
Fonti
-BARBA Bruno, Ma quale DNA? Il calcio, l’antropologia e le trappole dell’identità, Battaglia Edizioni, 2023