Lui gioca a calcio, e sa da anni che nel suo mestiere bisogna prendersi gli applausi come i fischi. Ma c’è un limite che non può essere superato, che è quello della schifosa parola con la ‘n’ che centinaia di tifosi avversari gli riversano addosso. Così, Paul Ince si ferma e risponde con un applauso sarcastico ai sostenitori della Cremonese. L’arbitro, Graziano Cesari, gli va incontro e lo ammonisce: non si provocano i tifosi, dice il regolamento. “Penso che in Italia la Federazione dovrebbe prendere delle decisioni forti. – spiega Ince, intervistato dopo il match – Il rischio è che i giocatori di colore, e nel mondo ce ne sono tanti di bravi, abbiano dei dubbi a venire in Italia. Non sarebbe un bene per questo calcio”. È il 6 aprile 1996, e questo ragazzo inglese di 28 anni ha dato un allarme. Nessuno lo ascolterà.
La vicenda di Paul Ince è vecchia di quasi 27 anni, eppure pare ancora attualissima. Lui gioca nell’Inter ed è tra i centrocampisti più forti al mondo: è nato a Ilford, un sobborgo multiculturale di Londra; la famiglia arriva dalle Barbados e lui è stato un giovanissimo tifoso del West Ham, club in cui poi ha iniziato a giocare a calcio. L’Inter l’ha preso l’estate prima dal Manchester United per 13,5 miliardi di lire: è l’acquisto più costoso del primo calciomercato del nuovo presidente Massimo Moratti. Un prezzo adeguato, per un mediano completo in una maniera in cui, a metà degli anni Novanta, non c’era praticamente nessun altro. Avete presente il grande Manchester United di Alex Ferguson? In un certo senso, l’ha reso possibile Paul Ince: prima del suo arrivo a Old Trafford, il tecnico scozzese aveva trascorso quasi tre stagioni senza vincere nulla. Poi arrivò lui, e i Red Devils vinsero subito una FA Cup, aprendo un ciclo.
Nell’Italia degli anni Novanta, di razzismo negli stadi non se ne parla, qualcuno non lo considera neppure un problema. Ma in Inghilterra è diverso: lì, i neri giocano a calcio da quando il calcio è stato inventato, e vengono insultati e discriminati esattamente da allora. Fino al 1978, con il difensore Viv Anderson, nessun calciatore nero era mai stato convocato in nazionale, ed è solo dagli anni Settanta che le cose in effetti sono iniziate lentamente a cambiare, almeno dentro i club. Tra i tifosi, c’è voluto più tempo e più impegno. “Sette anni fa il problema era molto serio – spiega Ince – i club inglesi se ne resero conto anche perché stavano ingaggiando molti giocatori di colore. Le società si sono date da fare, la Federazione ha varato provvedimenti molto duri, hanno preso delle misure anche contro i cori. La polizia interveniva e portava fuori chi insultava i giocatori, e negli stadi quella gente non poteva più rientrare. Vennero isolati anche dal pubblico e in un paio di anni la cosa è finita”.
Forse il quadro è eccessivamento ottimista, ma ciò che Ince dice alla stampa italiana è chiaro: certi comportamenti vanno affrontati e stroncati sul nascere, prima che diventino più grossi e incontrollabili. Ma il fatto è che in Italia i tifosi non hanno mai avuto bisogno di essere apertamente razzisti. Di calciatori neri se ne sono storicamente sempre visti pochi. Poi, quando a livello internazionale il loro numero è iniziato a crescere, negli anni Settanta, la Serie A aveva le frontiere chiuse a tutti gli stranieri fin dal disastro dei Mondiali del 1966. Solo dal 1980 i trasferimenti dei non-italiani tornarono a essere permessi, ma salvo qualche caso folkloristico (l’ivoriano François Zahoui, meteora dell’Ascoli tra il 1981 e il 1983) ancora di neri, e specialmente di africani, se ne videro pochissimi.

Ma fuori dagli stadi le cose erano ben diverse, e solo chi non voleva vedere poteva non accorgersene. Dalla fine degli anni Ottanta, l’immigrazione africana in Italia aveva iniziato ad aumentare, scontrandosi con un paese impreparato sotto ogni aspetto a confrontarsi con il fenomeno. Gli immigrati neri nel nostro paese c’erano da circa vent’anni, anche se pochi, sparpagliati, marginalizzati e largamente ignorati dai media, resi invisibili, e restituendo così l’idea di una nazione ancora totalmente bianca. Un particolare che si riflette sull’assenza, fino al 1986, di una qualsiasi legge sull’immigrazione. Nel 1989, il problema del razzismo esplose all’improvviso: un bracciante sudafricano di nome Jerry Masslo – scappato dall’apartheid, vistosi negato l’asilo politico in Italia, rimasto come clandestino e sfruttato nei campi di pomodoro in Campania – veniva assassinato da dei rapinatori che avevano fatto irruzione nel capannone in cui dormiva, assieme ad altri 28 lavoratori migranti.
L’omicidio di Jerry Masslo era stato il primo momento di volta della storia del razzismo in Italia: a Roma, il 7 ottobre 1989, circa 200.000 persone manifestarono per i diritti degli immigrati. Nel frattempo, cavalcando la crescente antipolitica, emergeva la Lega Nord, un movimento xenofobo che, alle elezioni del 1992, totalizzava circa 3,4 milioni di voti. E il calcio, in tutto questo, credeva di essere al riparo dal problema, mentre invece ne stava diventando un epicentro. Nell’estate del 1992, la Lazio acquistò dall’Ajax l’olandese Aaron Winter: pelle nera, da afroamericano del Suriname, nome ebraico. A Roma apparirono scritte che recitavano “Winter Raus!”, firmate dagli Ultras Lazio e dalle svastiche. Arrivarono telefonate alle radio romane di tifosi che dicevano di non volere “negri ed ebrei” nella loro squadra. Winter confermò che avrebbe giocato alla Lazio e non si sarebbe fatto intimidire, ma lo disse chiaramente: “Anche in Olanda c’è il razzismo, ma una cosa del genere non mi era mai successa”. Ruud Gullit, olandese nero del Milan, aggiunse: “Su queste cose non si può ridere. Questa storia avrà grosse ripercussioni in Olanda, dove il problema della tolleranza è molto sentito”.
Una settimana dopo il fatto di Winter, il deputato Eugenio Melandri di Rifondazione Comunista presentava un’interrogazione parlamentare in cui chiedeva: “Quali provvedimenti il Governo intende adottare per far sì che l’apertura del prossimo campionato di calcio sia improntata ai valori dell’antirazzismo, della solidarietà tra diversi e del rifiuto dell’intolleranza xenofoba?”. Il calcio e la politica fecero finta di niente, ma il problema c’era, era davanti a tutti. E si è trascinato fino a quel pomeriggio di aprile per Inter-Cremonese, fino ai cori razzisti e alla replica dell’arbitro che ammonisce Paul Ince. Non che i tifosi grigiorossi vengano del tutto ignorati, sia chiaro: il giudice sportivo condanna la Cremonese a pagare una multa di 5 milioni di lire; “un provvedimento che lascia il tempo che trova, che non è cura né avvertimento” commenta Gianni Piva su Repubblica. Infatti, poche settimane dopo, al Bentegodi di Verona – dove sta per arrivare l’afro-olandese Maickel Ferrier – due tifosi con in testa i cappucci del Ku Klux Klan espongono un manichino nero con la maglia dell’Hellas, impiccato a una balaustra.
Paul Ince l’ha capito subito, al suo arrivo in Italia, di essere capitato in un paese con una cultura profondamente diversa rispetto all’Inghilterra. Il primo insulto razzista, in realtà, lo ha trovato scritto su un muro ad Appiano Gentile, il centro sportivo dell’Inter. A Maggio l’Independent gli chiede come sta andando la sua avventura in Serie A, e finisce per dover ripetere anche le cose già dette ai media italiani sul razzismo: “Penso che questo dovrebbe diventare un tema sul quale discutere, in modo da costringere la Federazione e la gente a fare qualcosa”. Se c’è qualcuno che può lottare su questo fronte, in Italia, è lui che è un grande campione. Il problema è che è solo, sia nel calcio che fuori: il declino della sinistra parlamentare e l’emergere della destra, accozzata al partito del presidente del Milan Silvio Berlusconi, indicano chiaramente dove sta andando il paese. “Se potrei lasciare l’Italia a causa del razzismo? Naturalmente” dice. E che uno dei giocatori più pagati del campionato ammetta di potersene andare a causa del razzismo, dovrebbe essere un segnale forte. Ma non lo è.

Un anno dopo, se ne andrà davvero dall’Inter, anche se per motivi più tecnici. Il club nerazzurro è un gran casino – in due anni sono cambiati quattro allenatori, e sta per arrivare il quinto – e Ince non s’è adattato all’ambiente e al gioco, troppo poco intenso e troppo difensivista. Il suo momento migliore è stato quando in panchina sedeva il connazionale Roy Hodgson, e il centrocampista di Ilford non l’ha mai nascosto, ma una volta andato via lui le incomprensioni tattiche sono riprese. Eppure il fatto che i problemi principali stiano altrove diventa una scusa perfetta per continuare a evitare il tema del razzismo, che ha avuto la sua parte nell’allontanare Ince dall’Italia.
Passeranno anni, per tornare a sentirlo parlare di questa storia. Nel frattempo, la Serie A non si nasconde più, e all’estero è nota soprattutto per i continui episodi di cori discriminatori, molto più che per la qualità di un campionato ormai in declino. È il marzo 2021, ed è Sky Sport che lo intervista: “In Italia c’era una cultura secondo cui era giuso fare cori razzisti contro i giocatori neri. È triste che queste cose accadano ancora. Non credo che in Italia pensino ci sia qualcosa di sbagliato”.
Fonti
–BADUEL Alessandra, BOLDRINI Stefano, “Winter raus”, razzismo da stadio, L’Unità
–CAMILLI Annalisa, La lunga storia dell’immigrazione in Italia, Internazionale
–MASTRODONATO Luigi, Breve storia del razzismo nel calcio italiano, L’Ultimo Uomo
–MIRZA Raz, Paul Ince, Il Governatore, Sky Sport