Stiamo assistendo alla fine del modello tedesco?

Un terremoto sta scuotendo le fondamenta del calcio tedesco: lunedì 11 dicembre, la DFL – l’organizzazione che gestisce le due leghe professionistiche del paese – ha annunciato il raggiungimento di un accordo tra i club per l’apertura a nuovi investimenti da parte dei fondi di private equity. Un fatto storico, soprattutto per il suo aspetto implicito: le dirigenze di due terzi dei club (questa la maggioranza richiesta per il via libera) hanno preso una decisione in aperta opposizione al volere dei loro tifosi, che in Germania rappresentano una fetta consistente dei soci. Non stupisce allora che pochi giorni dopo l’associazione delle tifoserie tedesche facesse uscire un comunicato da battaglia, lanciando lo slogan “Wir werden kein teil eures deals sein!”, che si è poi visto esposto in diverse curve nel successivo turno di campionato. Numerosi gruppi ultras sono rimasti in silenzio per 12 minuti all’inizio delle partite come forma di protesta, e in alcuni casi si sono verificati lanci di oggetti in campo (palle da tennis e monete di cioccolato), che hanno costretto alla temporanea sospensione di alcuni incontri. Ma questa situazione è in realtà solo la punta dell’iceberg.

Prima di proseguire è necessario spiegare una cosa: il calcio tedesco è considerato da anni un modello ideale da molti appassionati in giro per il mondo. Grazie alla regola del 50+1, che obbliga ogni club professionistico a mantenere la maggioranza delle quote societarie nelle mani dei fan, il ruolo dei tifosi è determinante nelle decisioni interne alle squadre. Questo comporta, a cascata, una serie di conseguenze: un movimento ultras più vivo e impegnato, con forti connotazioni sociali e anche politiche che nella maggior parte dei casi portano a esplicite prese di posizione antirazziste, antisessiste e antifasciste; un maggiore equilibrio finanziario dei club, dato che i soci sono meno inclini a operazioni rischiose che metterebbero a rischio la sopravvivenza della società; un’immagine delle squadre di calcio come molto più vicine agli interessi della comunità che rappresentano. In pratica, negli anni in cui in Europa andava emergendo il cosiddetto “calcio moderno”, caratterizzato da spese sempre più alte e dal coinvolgimento di grandi capitali finanziari, la Germania andava in senso opposto. Parallelamente, l’introduzione della regola del 50+1 – avvenuta nel 1998, nell’ambito della trasformazione dei club da associazioni senza scopo di lucro ad aziende – si è inserita in una fase storica in cui la Federcalcio stava iniziando a operare un profondo ripensamento tecnico e tattico del calcio locale.

È andato così a crearsi il “modello tedesco”, che soprattutto dopo i Mondiali casalinghi del 2006 ha iniziato a rivelarsi un incredibile successo. Mentre i club di mezza Europa, e in particolar modo quelli italiani che avevano dominato i vent’anni precedenti, venivano travolti dai debiti, le squadre tedesche avevano conti in ordine e rose di qualità crescente. Il caso emblematico è quello del Borussia Dortmund, squadra capace di vincere la Champions League nel 1997 e di essere poi finalista di Coppa UEFA nel 2002, ritrovatasi però a un passo dalla bancarotta nel maggio 2005. Affidandosi a un piano di contenimento dei costi e al proprio settore giovanile, nel giro di un decennio passò da 140 milioni di debiti a un attivo di 40 milioni, mettendo in bacheca due scudetti, una Coppa di Germania, due Supercoppe tedesche e raggiungendo due finali di Champions League. Le squadre della Bundesliga sono arrivate a poter ingaggiare allenatori costosissimi come Pep Guardiola e Carlo Ancelotti, e ad assicurarsi alcuni dei migliori giocatori al mondo, spesso addirittura attirando giovani talenti da campionati ben più prestigiosi, come la Premier League (si pensi a Sancho, Musiala e Bellingham). Quello che un tempo se la giocava con la Ligue 1 francese come campionato meno ricco e competitivo dei Top 5 europei, è arrivato a diventare il secondo più importante dietro a quello inglese e davanti alla Liga spagnola. Il tutto senza sacrificare la sostenibilità economica e il rapporto con i tifosi.

Un percorso in aperta controtendenza rispetto a quello che si vedeva nel resto del mondo, e che ora sembra essere arrivato a un punto di crisi. L’apertura agli investimenti privati è sintomo di un malcontento crescente tra i dirigenti dei club: negli ultimi dieci anni, mentre la Bundesliga scavalcava la Liga per introiti, la Premier League aumentava enormente il divario con i tedeschi. Oggi il campionato inglese – il più “finanziarizzato” al mondo – guadagna annualmente quasi il doppio di quello tedesco, e l’accordo della Liga con il fondo di private equity CVC, firmato nell’estate del 2022, rischia di rinforzare il campionato spagnolo e riportarlo davanti alla Bundesliga. Secondo la DFL, l’accordo dell’11 dicembre consentirà almeno 1 miliardo di introiti in cambio della cessione dell’8% dei diritti tv per 20 anni. Questi soldi verrebbero reinvestiti nel calcio di base, nella digitalizzazione, nell’internazionalizzazione e nel marketing, così da tornare a far crescere il brand Bundesliga. Dal canto loro, i tifosi vedono questa svolta come il rischio di una perdita del proprio potere decisionale, dato che i fondi potrebbero forzare alcune scelte usando la leva economica.

La crescita degli introiti dei cinque principali campionati europei, espressi in milioni di euro. (Fonte: Deloitte, via DW.)

La DFL ha escluso che simili interferenze possano verificarsi, ma i fan non sono convinti. In realtà, la loro opposizione adesso è decisamente di principio: già solo il fatto che l’accordo sia stato approvato dimostra che il loro peso sulle decisioni dei dirigenti è molto più ridotto del previsto. Il sistema del 50+1 è già in crisi, se le dirigenze possono prendere una simile decisione in aperta contestazione del volere dei soci. Ma la rimessa in discussione della regola simbolo del calcio tedesco ha radici ben più profonde. Fin dalla sua introduzione, 25 anni fa, c’erano alcune eccezioni doverose (Bayer Leverkusen e Wolfsburg, storicamente di proprietà di Bayer e Volkswagen), ma altre se ne sono aggiunte in seguito, cioè Hoffenheim e RB Lipsia. Il primo a contestare apertamente la norma è stato Martin Kind, imprenditore attivo nel settore dei dispositivi acustici e presidente dell’Hannover 96 dal 1997. Più volte Kind ha provato a far abrogare la regola, così da potersi assicurare la maggioranza delle azioni del club, ma finora ogni suo tentativo (l’ultimo è del 2018) non è andato a buon fine.

Il che è tutt’altro che una buona notizia, anzi mostra una chiara disparità di trattamento a seconda di quanto sia facoltoso il dirigente con cui si tratta. Nel 2015, infatti, Dietmar Hopp – uno degli uomini più ricchi di Germania, fondatore del colosso informatico SAP SE e con un patrimonio stimato da Forbes in oltre 4 miliardi di euro – riuscì a ottenere un’esenzione dal 50+1 per poter assumere il controllo esclusivo dell’Hoffenheim. La motivazione era che Hopp finanziava il club, per cui aveva giocato da ragazzo, già da diversi anni: grazie ai suoi investimenti, l’Hoffenheim è riuscito a passare nel giro di un decennio dalla sesta alla prima divisione, arrivando anche a disputare la fase a gironi della Champions League. La società si è imposta come un piccolo modello sportivo, lanciando allenatori come Hansi Flick e Julian Nagelsmann, e giocatori come Niklas Süle e Roberto Firmino. Ma allo stesso tempo Hopp è diventato uno degli uomini più odiati dai tifosi tedeschi: nel marzo 2020, i cori e gli striscioni contro di lui da parte dei tifosi del Bayern Monaco in uno scontro diretto hanno portato due volte alla sospensione del match. L’accusa principale rivolta a Hopp è di aver gonfiato il valore sportivo dell’Hoffenheim grazie ai suoi soldi, portandolo fino in Bundesliga ma senza avere alle spalle una tifoseria numerosa e particolarmente attiva (anche perché l’Hoffenheim è la squadra di un omonimo quartiere nella città di Sinheim, la quale conta appena 36.000 abitanti).

Nel marzo 2023, Hopp ha finalmente deciso di fare un passo indietro e riportare l’Hoffenheim nel regime del 50+1, ma anche in questo caso è difficile parlare di una vittoria del modello tedesco. Il club del Baden-Württemberg ha vissuto, grazie al suo ricco proprietario, un’ascesa impensabile per qualunque altra società di quelle dimensioni, e oggi può contare su un solido assetto societario, che dovrebbe garantirgli la permanenza ai massimi livelli. L’Hoffenheim, in un certo senso, è la dimostrazione vivente che si può ottenere successo anche al di fuori del modello della Bundesliga. Ma il caso di Hopp ha anche fatto da apripista per un’altra controversa ascesa, quella del RB Lipsia, una squadra creata dalla multinazionale austriaca Red Bull nel 2009 con l’acquisto del SSV Markranstädt. Il club, all’epoca in quinta divisione, è stato completamente ri-brandizzato (nuovo nome, nuovi colori sociali, nuovo logo, e addirittura nuova città, trasferendolo nella vicina Lipsia), e grazie ai grossi investimenti dell’azienda è arrivato in meno di dieci anni ai gironi di Champions League. Ufficialmente, il RB Lipsia rispetta la regola del 50+1, ma lo fa in maniera alquanto discutibile: il club è estremamente restrittivo nell’accetare nuovi soci, e in questo modo può mantenere la maggioranza delle quote societarie nelle mani di dirigenti della Red Bull, che è di fatto proprietaria della squadra.

Ma anche laddove i soci detengono ancora il controllo del club, negli ultimi tempi le tensioni sono andate in crescendo. Una delle situazioni più evidenti è quella avvenuta all’interno del Bayern Monaco, la cui assemblea generale del novembre 2021 è finita nel caos a causa delle proteste di molti soci. Uno dei essi, l’avvocato Michael Ott, aveva presentato una mozione molto cara ai tifosi per obbligare la dirigenza a non rinnovare l’accordo con lo sponsor Qatar Airways e a non firmarne altri in futuro con aziende controllate da regimi illiberali. L’accordo valeva 100 milioni di euro, sui quali si basava gran parte dello strapotere economico dei bavaresi, e per questo la dirigenza decise semplicemente di non ammettere la mozione, scatenando proteste che portarono alla sospensione dell’assemblea. Il tema ha continuato a essere dibattuto fino a che, lo scorso giugno, il Bayern non ha accettato l’interruzione dell’accordo con la compagnia aerea di Doha. Ma questo non ha ripristinato l’equilibrio interno alla società, tant’è vero che due mesi dopo è stato annunciato come nuovo sponsor Visit Rwanda.

Visit Rwanda è l’ente del turismo del paese africano, governato dal 2000 da Paul Kagame, un politico accusato di repressione del dissenso e di omicidi politici dei suoi oppositori.

La dirigenza dei bavaresi è divenuta sempre più infastidita dagli ostacoli che i tifosi pongono allo sviluppo finanziario del club, ma anche a quelli sul piano sportivo. Lo scorso ottobre, visti i problemi di infortuni in difesa, il Bayern aveva richiamato Jérôme Boateng ad allenarsi con la squadra, valutando di rimetterlo sotto contratto nonostante una discussa condanna per violenze domestiche. Il direttore sportivo Christoph Freund aveva snobbato le critiche dicendo che le questioni private del giocatore non avevano peso sulle decisioni sportive della società. Davanti alle vistose proteste allo stadio dei tifosi, il Bayern ha dovuto fare un passo indietro, smentendo pubblicamente Freund. Pur restando all’interno della regola del 50+1, il club bavarese è sostanzialmente in mano alla multinazionale tedesca Adidas, che grazie al suo 8,33% – e all’appoggio di Audi e Allianz, soci alla pari – ha imposto alla presidenza nel 2019 il suo ex-CEO Herbert Hainer.

Il voto sull’apertura della DFL ai fondi di private equity è segreto, ma non risulta difficile immaginare che il Bayern possa essersi espresso a favore. È la squadra più titolata di Germania e quella più ricca e competitiva a livello europeo, ma dalla conquista della Champions League del 2020 non è più andata oltre i quarti di finale: la necessità di reperire nuovi fondi per non perdere contatto coi top club europei è ben chiara ai vertici societari. Infatti, il 14 dicembre il Bayern ha comunicato la creazione di una nuova società chiamata Red&Gold Football, una joint-venture con il Los Angeles FC attraverso cui è stato assunto il controllo di alcune scuole calcio nell’Africa Occidentale e poi è stato formalizzato l’acquisto del Racing Club Montevideo. Di fatto, il Bayern Monaco si sta trasformando in tutto ciò che i tifosi tedeschi più detestano: una nuova multi-club-ownership sul modello della Red Bull o del City Football Group. Le ragioni dietro questa operazione sono facilmente intuibili: espandere il brand a livello globale, allacciare rapporti commerciali con i club di un campionato in grande espansione come quello statunitense, e mettere le mani in floridi centri di produzione di giovani calciatori come l’Africa e il Sudamerica.

Monaco non è l’unico posto in Germania in cui i fan stanno vedendosi sfuggire di mano il proprio club. La scorsa estate ci sono state diverse polemiche a Dortmund, quando sui giornali si è scoperto l’interesse della squadra nell’acquisto del centrocampista Felix Nmecha, scelto come sostituto di Jude Bellingham. Il 22enne del Wolfsburg aveva fatto discutere per avere condiviso su Instagram, nei mesi precedenti, diversi messaggi omofobi e transfobici ripresi da dei fondamentalisti cristiani. In risposta alle critiche, il CEO del Borussia Hans-Joachim Watzke aveva risposto che Nmecha era solo “un normale ragazzo”, snobbando le accuse nei suoi confronti, che cozzavano con l’impegno a favore della comunità LGBTQ+ e contro l’omotransfobia che il club ha sempre sbandierato. E alla fine Nmecha è stato acquistato, ignorando le proteste dei tifosi. È particolarmente simbolico che Watzke, l’autore di questo “tradimento”, sia letteralmente l’uomo che ha salvato il Dortmund dalla bancarotta del 2005.

Non stupisce che i tifosi tedeschi oggi si sentano sotto pressione, e questo nervosismo va ben oltre l’esposizione degli striscioni. Negli ultimi mesi si sono verificati diversi episodi di scontri tra ultras e polizia, interrompendo un lungo periodo di tranquillità e collaborazione che rappresentava un altro aspetto cruciale del modello tedesco. Secondo Jochen Kopelke, presidente del sindacato di polizia GdP, di recente si starebbe assistendo a un cambiamento nell’atteggiamento di molti tifosi, che rifiutano il dialogo con le forze dell’ordine e hanno sempre più spesso comportamenti violenti. L’avvocato René Lau, che ha difeso diversi ultras, ha replicato che sarebbe l’atteggiamento della polizia a essere mutato: se prima gli agenti restavano fuori dallo stadio, oggi si piazzano in assetto anti-sommossa a ridosso degli spalti, provocando i tifosi. Lau sostiene che questa sarebbe una prova di forza in vista degli Europei che si terranno proprio in Germania la prossima estate. Quale che sia la verità, è evidente che l’approccio tedesco alla gestione dell’ordine pubblico negli stadi sta mostrando delle crepe.

La polizia schierata di fronte al settore occupato dai tifosi dell’Eintracht Francoforte, che sono stati spesso protagonisti di disordini negli ultimi tempi, come lo scorso 25 novembre.

In generale, in Germania il mondo del calcio avverte di essere sull’orlo di un grande cambiamento. Dal titolo mondiale del 2014, la nazionale non è più riuscita a superare il primo turno, toccando il punto più basso della sua storia. Gli Europei casalinghi sono l’occasione ideale per rifarsi, e hanno anche un peso simbolico significativo: fu proprio dopo il precedente torneo organizzato in casa, i Mondiali del 2006, che si verificò la rinascita del calcio tedesco. Ma nel frattempo ci si deve anche confrontare con il previsto calo degli introiti della Bundesliga in questa stagione, che pare indicare la fine di oltre un decennio di crescita. La Germania ha saputo creare un modello di capitalismo sportivo “etico” che alcuni hanno scambiato per qualcos’altro, ma la vocazione al profitto è sempre stata insita nei suoi club come in quelli degli altri paesi. Questa strategia ha funzionato anche grazie a una particolare convergenza storica: quella della crisi finanziaria post-2008 che ha colpito soprattutto le società spagnole e italiane, consentendo a quelle tedesche di recuperare terreno grazie a un approccio più sano.

Quella situazione ora sta venendo meno, e la crescita esponenziale dei guadagni della Premier League sta inflazionando il mercato, con conseguenze dirette anche per i club tedeschi. La scorsa estate il Bayern Monaco ha concluso l’acquisto più costoso della sua storia, versando al Tottenham 110 milioni di euro per Harry Kane, ma ha potuto farlo solo compensando con una serie di cessioni altrettanto importanti a livello finanziario (Lucas Hernández, Ryan Gravenberch, Benjamin Pavard, Sadio Mané). Questo significa che, mentre molti club stranieri, inglesi in particolare, possono fare grandi spese senza ragionare troppo sui sacrifici, la più ricca squadra di Germania ha necessità di avere ancora un occhio di riguardo per il bilancio: un problema che diventerebbe meno rilevante se gli introiti dovessero aumentare. A cascata, questo riguarda anche tutte le altre big della Bundesliga, che sentono di dover recuperare terreno nei confronti delle rivali straniere: solo nell’ultima stagione, la Serie A è riuscita a conquistare più finali europee di quante raggiunte dal campionato tedesco negli ultimi cinque anni (anche se poi i tedeschi hanno messo in bacheca due trofei su due, mentre gli italiani zero).

Capire perché le dirigenze vogliano seguire un nuovo percorso non è complicato, e chiaramente i tifosi rappresentano un ostacolo a questa rivoluzione. La regola del 50+1 non sembra poter essere abrogata a breve, ma come abbiamo visto non impedisce nei fatti a un ristretto gruppo di dirigenti di prendere decisioni opposte a quelle di gran parte dei soci. La protesta iniziata dopo l’accordo della DFL è un forte tentativo di resistenza, ma quanto a lungo potrà essere portata avanti è il vero tema. Specialmente in un contesto in cui la pressione della polizia sugli ultras sta crescendo, e quindi anche la repressione delle azioni di disturbo è oggi molto più probabile rispetto a qualche mese fa. Per adesso, però, questa è solo una tendenza. L’accordo trovato dalla DFL è puramente formale: si è aperto alla possibilità di accogliere i fondi di private equity, ma nessun contratto specifico è ancora stato firmato, e quando accadrà i soci potranno lo stesso far valere il proprio giudizio sulle condizioni di accordo. Tuttavia, è evidente che il tanto decantato modello tedesco oggi si trovi in una fase di ripensamento per certi versi inevitabile.

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