Il 30 maggio 1949, Dio si trasferì in Colombia. Sbarcava infatti a Bogotá Adolfo Alfredo Pedernera, detto El Maestro, semplicemente il più forte calciatore di tutto il Sudamerica. Nei dieci anni precedenti, era stato la stella della Máquina, la fortissima squadra del River Plate che aveva rivoluzionato il modo di giocare a calcio in Argentina, e aveva poi portato la Nazionale a vincere ben due titoli continentali. Questo finché l’Argentina aveva pensato di poterne fare a meno.
Era scoppiata una guerra tra i calciatori argentini e la Federcalcio, sfociata in un clamoroso sciopero nel 1948: i top player volevano sostanzialmente stipendi più alti, mentre i club spingevano invece per un tetto salariale, per contenere le spese sempre maggiori. Alla fine, era stato fissato uno stipendio massimo, e Pedernera – che era stato uno dei volti della protesta sindacale – aveva deciso di trasferirsi all’estero, scatenando forti polemiche. La Colombia, a sorpresa, si era ritrovata all’improvviso a essere il posto ideale per i calciatori argentini scontenti: solo un anno prima era nata un’associazione chiamata División Mayor del Fútbol Colombiano, o più semplicemente Dimayor, che aveva ottenuto l’affiliazione alla Federcalcio, cioè l’Asociación Colombiana de Fútbol (o Adefútbol) e il via libera per organizzare un campionato di calcio professionistico, la cui prima edizione era stata vinta dall’Independiente Santa Fe. Ma nell’aprile dell’anno seguente, l’Adefútbol impose alla Dimayor di finanziare la partecipazione di uno dei club del torneo al Campeonato Sudamericano in rappresentanza della Nazionale colombiana, ma la lega si rifiutò. Di conseguenza, l’Adefútbol rispose cancellandone l’affiliazione.
La situazione, per la Dimayor, si era fatta drammatica: senza il riconoscimento della Federcalcio, il campionato era di fatto non ufficiale, escluso anche dalla FIFA e quindi dall’intero sistema calcio globale. Era un problema enorme per tutti quegli imprenditori che solo un anno prima avevano scommesso sul progetto e investito dei soldi per fondare i dieci club iniziali (che nel frattempo erano già divenuti quattordici). L’idea che avrebbe salvato il campionato colombiano venne ad Alfonso Senior Quevedo, spregiudicato presidente del Millionarios di Bogotá: se la Dimayor non aveva il riconoscimento della FIFA, significava che non era tenuta a rispettarne le regole, e non doveva quindi rivolgersi ai club per acquistarne i giocatori, ma poteva contattare direttamente questi ultimi. Approfittando dello sciopero del calcio argentino, Senior e il suo allenatore Carlos Aldabe si recarono a Buenos Aires per offrire a Pedernera uno stipendio più ricco di quello che potevano garantirgli nel suo Paese. Il ruolo del Maestro non sarebbe stato solo quello della stella della squadra, ma anche di sponsor della Dimayor presso le altre stelle argentine in cerca di ingaggi migliori.
All’esordio di Pedernera, 30.000 persone affollarono il Campín di Bogotá, e tra essi anche l’ambasciatore argentino e il sindaco della città: il Millionarios distrusse con un sonoro 5-0 l’Atlético Junior Baranquilla, e aprirono ufficialmente una nuova era nella storia del calcio locale. Pochi giorni dopo, alla squadra si unirono due dei principali astri nascenti del River Plate, Néstor Rossi e Alfredo Di Stéfano, universalmente considerato il futuro del calcio argentino, seguiti poi da Julio Cozzi e Antonio Báez. Il calcio spettacolare della Máquina venne impiantato a Bogotá, e i Millionarios divennero presto noti come El Ballet Azul per la straordinaria armonia del suo gioco. Ma le avversarie non rimasero a guardare: il Deportivo Cali rispose per primo con un terzetto di fenomeni peruviani, noto come El Rodillo Negro, con l’implacabile centravanti Valeriano López affiancato da Guillermo Barbadillo e Máximo Mosquera. L’Independiente Santa Fe mise sotto contratto il fuoriclasse del San Lorenzo Héctor Rial e il suo collega René Pontoni. Presso un altro Independiente, quello di Medellín, si andò formando invece La Danza del Sol con i peruviani Roberto Drago e Segundo Castillo. Il Cúcuta Deportivo portò in Colombia ben dodici giocatori uruguayani, approfittando di un altro sciopero dei calciatori, tra cui Carlos Zunino, Juan Carlos Toja, Juan José Tulic e addirittura i campioni del mondo del 1950 Eusebio Tejera e Schubert Gambetta, oltre a Bibiano Zapirain, strappatto all’Inter.

L’Atlético Junior Baranquilla, desideroso di ripristinare il proprio dominio sul campionato, acquistò i brasiliani Tim ed Heleno de Freitas, e nel 1951 portò in Sudamerica anche il centromediano ungherese Béla Sárosi, che si fece accompagnare anche da altri tre connazionali. La “lega pirata” colombiana era divenuta talmente popolare che anche i giocatori europei avevano iniziato ad interessarsene come possibile punto d’approdo: il Vecchio Continente era da poco uscito dalla Seconda Guerra Mondiale ed economicamente il calcio non stava vivendo un periodo così solido, per cui i soldi dei club della Dimayor avevano un certo fascino. Nel 1950, l’Independiente Santa Fe aveva messo sotto contratto addirittura tre stesse della First Division inglese: Charlie Mitten del Manchester United, George Mountford dello Stoke City e il suo compagno di squadra Neil Franklin, all’epoca uno dei più forti difensori al mondo e titolare dei Three Lions.
In breve, la Dimayor era divenuta il miglior campionato al mondo; e lo aveva potuto fare anche grazie al supporto del governo, che aveva stanziato 10.000 pesos come premio al campione nazionale. Il calcio era stato individuato dal Partido Conservador come uno strumento fondamentale per riportare la stabilità nel Paese e calmare le proteste. È questo il tragico retroscena del Dorado, l’epoca magica del calcio colombiano: mentre le stelle del fútbol calcavano i campi ed eccitavano i tifosi, fuori nelle strade la gente di ammazzava senza pietà. È un periodo della storia colombiana noto come La Violencia: il 9 aprile 1948, il leader del Partido Liberal Jorge Eliécer Gaitán – molto amato nelle fasce più povere della popolazione per la sua visione progressista e socialisteggiante – era stato assassinato in strada a Bogotá; il suo assassino era stato preso dalla folla e linciato, e subito dopo era scoppiata una violenta rivolta, repressa nel sangue dal governo. I conservatori del presidente Mariano Ospina Pérez, vedendo la rapida crescita di consensi dei liberali più radicali e i continui scontri politici nel Paese, misero in atto un piano di sistematica repressione del dissenso per mezzo della polizia.
Nel 1949, in mezzo ai trionfi del Ballet Azul, Ospina Pérez aveva esautorato il parlamento e i liberali si erano ritirati dalle elezioni, vinte quindi dal nuovo candidato conservatore Laureano Gómez, che inasprì la violenza di Stato contro l’opposizione. Tra i proiettili, i cadaveri per le strade e la popolazione ridotta alla fame, gli uomini più ricchi del Paese spendevano denaro senza ritegno per pagare calciatori che affluivano qui da tutto il mondo, e dalle loro gabbie dorate nemmeno si rendevano conto di essere armi della propaganda della dittatura. Quest’epoca è tutta un clamoroso paradosso: ciò che la storia e la politica conoscono come La Violencia, nel calcio è noto come El Dorado.
Ma le politiche respressive di Gómez avevano successo solo nelle città; al di fuori di esse, nelle campagne e nella giungla crescevano i numeri dei gruppi guerriglieri antigovernativi, e anche l’esercito riteneva fosse necessario un cambiamento: nel 1953, il generale Gustavo Rojas Pinilla prese il potere con un colpo di stato supportato dai liberali, e propose un’amnistia generale, che portò alla smobilitazione di gran parte delle formazioni di ribelli. Il processo di ricostruzione della stabilità sociale in Colombia investì anche il calcio: già nel 1951, la Dimayor aveva dovuto sottoscrivere, assieme all’Adefútbol, il Patto di Lima con la FIFA, che legalizzava il campionato ma imponeva anche il rispetto degli accordi preesistenti dei giocatori coi loro club. Da lì al 1954, i grandi campioni della lega colombiana fecero progressivamente ritorno alle loro vecchie squadre. Di Stéfano e Rial, invece, vennero contattati dal Real Madrid, e si trasferirono così in Europa, a scrivere un’altra pagina della storia del calcio.

Ma se i guerriglieri liberali avevano abbandonato le armi, nella giungla erano rimasti i marxisti: di lì a poco, Rojas Pinilla mise fuori legge il Partido Comunista, e in breve anche la sua fragile alleanza coi liberali implose, e ricominciarono gli scontri. La fine del Dorado non fu la fine della Violencia. Nel 1958, liberali e conservatori stipularono un accordo per destituire il governo militare e riportare l’ordine, governando assieme nel Frente Popular, ma la nuova politica colombiana si trasformava così in un dominio assoluto delle forze reazionarie, andando ad alimentare la causa dei guerriglieri di sinistra: gli anni Sessanta avrebbero visto l’inizio di un nuovo conflitto, quello tra il governo di Bogotá e gruppi ribelli come l’Ejército de Liberación Nacional e le Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia, cioé le FARC. La Violencia lasciò in eredità al Paese una nuova guerra civile, destinata a durare sostanzialmente fino ai giorni nostri.
Per contro, il lascito del Dorado fu molto più tiepido: cinque anni di stelle internazionali nella Dimayor non avevano cambiato il calcio colombiano di base. Non erano emerse stelle locali, non erano stati formati grandi allenatori e non era rimasto nulla che potesse permettere al movimento locale di crescere. Fu solo per caso, grazie all’allargamento da tre a cinque sudamericane qualificate, che nel 1962 la Colombia poté esordire ai Mondiali, facendo comunque una magra figura. I tifosi, loro sì, erano rimasti: dopo i primi anni Cinquanta, la passione per il calcio era esplosa e sarebbe stata la base su cui costruire il futuro, e nel 1974 la Colombia avrebbe ottenuto l’ok della FIFA per l’organizzazione dei Mondiali di calcio del 1986. Dietro questa vicenda ci sarebbe stato lo stesso personaggio che aveva dato il via al Dorado, Alfonso Senior Quevedo; ma si tratta di un’altra storia.
Fonti
–WATSON Peter J., El Dorado – Origin Story of Colombian Football: Part 2, Footblla Paradise
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