Per arrivare al campo da gioco, bisognava farsi trovare a Medellín. Lì arrivava un’auto blindata a recuperarti, di quelle coi finestrini scuri e robusti figuri armati alla guida. L’automobile attraversava la città diretta a sud, tagliando a metà il barrio di Envigado e iniziando a salire su per sentieri di montagna, fino a raggiungere una cima sovrastata da una villa bassa, affiancata da un campo da calcio recintato. Tutta la struttura era stracolma di guardie: arrivando lì, Diego Armando Maradona si domandò se non fosse stato arrestato da qualche corpo di polizia segreta colombiano. Gli spiegarono che il posto era davvero una prigione, costruita per una persona sola, la stessa che lo pagava per venire lì a giocare. Tutti chiamavano quell’eremo La Catedral.
Non c’è alcuna vera motivazione mistica, dietro questa denominazione: la gente del posto chiamava così il sentiero che da anni conduceva su fino a quello che un tempo era stato un centro di recupero per tossicodipendenti. Ironico che adesso fosse diventato la casa-prigione del più grande narcotrafficante al mondo, un uomo corpulento di poco più di 40 anni chiamato Pablo Emilio Escobar Gaviria. Aveva fatto fortuna nel corso degli anni Settanta, arrivando addirittura a candidarsi in politica, ma negli ultimi tempi era divenuto il nemico pubblico numero 1 del governo, e reponsabile di omicidi su scala nazionale. Braccato senza pietà, qualche mese prima si era consegnato alle autorità, ma aveva chiesto di non essere estradato negli Stati Uniti e di poter invece scontare la pena in un luogo di sua scelta. Per assicurarsi che le sue richieste venissero ascoltate, Escobar aveva fatto sequestrare per tempo dai suoi uomini diversi noti giornalisti, la cui vita fu usata come strumento di contrattazione.
Era il 1991: in quel periodo Maradona stava scontando una squalifica di un anno e mezzo per doping, e la sua permanenza al Napoli era già compromessa: il club aveva problemi economici e gli doveva dei soldi, ma prevedendo che le cose sarebbero andate per le lunghe l’argentino era stato ben felice di ricevere un pagamento così generoso per giocare un’amichevole. Solo una volta alla Catedral aveva capito con chi aveva a che fare: la “prigione” assomigliava a un hotel di lusso, e il carcerato poteva fare ciò che voleva, compreso organizzare partite di calcio. Escobar soffriva d’insonnia, per cui assistere a match in notturna era un buon modo per impiegare il suo tempo; scoccato il 90°, i giocatori potevano farsi una doccia e raggiungerlo nella grande sala per celebrare lo sport e l’amicizia con alcol, droga e belle donne, tutto offerto a sue spese.
Il potente impianto d’illuminazione trasformava in giorno le notti alla Catedral, emettendo una luce tale che poteva essere vista facilmente fin da Medellín. Di lì passavano frequentemente Leonel Álvarez, René Higuita, Victor Aristizábal, Tino Asprilla e molti altri: praticamente tutta la Nazionale colombiana, che in quel periodo stava vivendo un momento magico. Francisco Maturana era stato il profeta di una rivoluzione calcistica, che aveva guidato i Cafeteros al terzo posto nella Copa América del 1987 (il miglior risultato della storia fino a quel momento) e al ritorno ai Mondiali dopo 28 anni d’assenza. L’esplosione del calcio colombiano, però, era tutta passata dalle mani di Pablo Escobar.

Prima di diventare l’uomo più temuto della Colombia, Escobar era stato un ragazzino che sognava di diventare un calciatore giocando per le strade sconnesse di Medellín e tifando l’Atlético Nacional, che nel 1954 – quando Escobar aveva 5 anni appena – conquistava il suo primo scudetto, guidato da Carlos Gambina e con Fernando Paternoster allenatore. Fece in tempo ad assaggiare solo le ultime gocce dell’El Dorado, l’epoca d’oro del calcio colombiano, ma crebbe lo stesso con il mito del calcio e, mentre si faceva strada nel mondo della criminalità organizzata, l’Atlético Nacional tornava a vincere sotto la guida di Osvaldo Zubeldía. Così, negli anni Ottanta, quando aveva ormai raggiunto il suo apice, Pablo Escobar iniziò a finanziare segretamente la sua squadra preferita. Il caso volle che proprio in quel periodo, per motivi del tutto indipendenti dalla sua volontà, la Colombia avesse iniziato veramente a esprimere giocatori di grande valore: alcuni, come il bomber John Jairo Tréllez, erano emersi nel settore giovanile dell’Atlético Nacional, ma la maggior parte provenivano da altri club. A partire dal 1986, la società di Medellín inizò a gettare sul mercato una quantità di soldi spropositata, raccattando il meglio che il campionato locale aveva da offrire.
Per primi arrivarono il mediano Alexis García dall’Once Caldas e il promettente portiere dei Millionarios René Higuita; un anno dopo toccò al terzino sinistro dell’América de Cali Luis Herrera e al robusto mediano Leonel Álvarez, strappato ai rivali cittadini dell’Independiente. Sempre nel 1987, la panchina fu affidata a un tecnico giovane e dalle idee innovative come Francisco Maturana, che seppe condurre la squadra al secondo posto del campionato del 1988 e, dodici mesi dopo, alla clamorosa conquista della Copa Libertadores: era la prima volta che il titolo continentale veniva vinto da un club che non arrivava dall’Argentina, dal Brasile o dall’Uruguay. Ma la cosa più sorprendente avvenne subito dopo: nonostante le ricche offerte dai club stranieri, nessuna stella dell’Atlético Nacional cambiò casacca. I soldi dei narcotrafficanti avevano alterato gli equilibri del calcio sudamericano.
Ai Mondiali di Italia 1990, la Colombia si presentò con una rosa di cui nove erano giocatori dell’Atlético Nacional (più uno, Andrés Escobar, solo omonimo del narcotrafficante, che si era appena trasferito allo Young Boys di Berna), oltre allo stesso ct Maturana, che rivestiva occupava entrambe le panchine. I Cafeteros riuscirono a superare il girone come migliore terza, strappando un pareggio ai futuri campioni della Germania Ovest, e migliorarono così il risultato ottenuto al torneo cileno del 1962. In campo era soprattutto Carlos Alberto Valderrama, già noto centrocampista del Montpellier, a brillare, ma la Colombia fu una delle rivelazioni del torneo, anche se pochissimi tifosi erano al corrente della guerra civile in atto in quel momento tra i cartelli della droga e il governo di Bogotá.
Tra le varie vittime eccellenti c’era stato anche un arbitro, Álvaro Ortega: nell’ottobre del 1989 aveva annullato un gol all’Independiente de Medellín, un’altra squadra usata da Escobar per riciclare il suo denaro, nella sfida contro l’América de Cali, che era invece appoggiato da Miguel Rodríguez Orejuela, detto El Señor, narcotrafficante di un cartello rivale. Un mese dopo, Ortega venne sorteggiato dalla Dimayor, l’associazione che organizzava il campionato, per tornare a dirigere una partita a Medellín, ma chiese di spostarlo altrove perché temeva per la propria incolumità. La lega stabilì che non c’era nulla di cui preoccuparsi, così Ortega raggiunse la città nel dipartimento di Antioquia, e prima di poter mettere mano al fischietto venne assassinato con 9 colpi di pistola fuori dall’hotel in cui alloggiava.

Fu in quel periodo che si gettarono le basi per le partite alla Catedral. Praticamente tutti i giocatori della Nazionale ricevevano periodicamente inviti a casa di Escobar, dove si tenevano feste in loro onore. Maturana, ovviamente, lo sapeva, ma poteva farci poco e anzi difese sempre i suoi giocatori, dicendo: “Se don Vito Corleone vi invitasse a casa sua, avreste il coraggio di rifiutare?”. Óscar Pareja, che era una giovane mezzala dell’Independiente, la pensava più o meno allo stesso modo, quando ricevette la prima “convocazione” alla Catedral: “Rifiutarla sarebbe stato come firmare la propria condanna a morte”. Solo Higuita sembrava essere sinceramente fedele al Patrón: era il più assiduo frequentatore dei match privati nella prigione a cinque stelle fuori Medellín, e c’era anche quella volta che il campo della Catedral fu calcato addirittura da Maradona. Un giorno, tornando a casa dopo una nottata alla Catedral, Higuita fu fermato da dei giornalisti, che gli chiesero se conoscesse Escobar; lui rispose che erano molto amici. La notizia rimbalzò polemicamente su tutti i giornali del paese, e la Federcalcio ne ordinò l’esclusione dalla Nazionale. Questo fatto, alla fine, si rivelò fondamentale per il lancio della carriera di due giovani portieri destinati ad avere grande fortuna anche all’estero, Óscar Córdoba e Faryd Mondragón; ma questa è un’altra storia.
La faccenda delle partite alla Catedral era comunque destinata a finire: nel 1992 si scoprì che oltre al calcio, il rifugio montano del capo del Cartello di Medellín era anche teatro di brutali omicidi, e il governo decise di spostarlo in una vera prigione. Ma prima che potesse avvenire il trasferimento, Escobar era svanito nel nulla. Lo ritrovarono solo un anno e mezzo dopo, in una zona benestante della città: scoppiò una sparatoria, e la storia di Pablo Escobar si concluse lì, sulle strade di Medellín, che poi era dove aveva costruito il suo mito. Nel frattempo, senza più il suo supporto, l’Atlético Nacional si era normalizzato e i suoi migliori giocatori si erano trasferiti all’estero (Álvarez e Higuita al Real Valladolid, la promessa Faustino Asprilla al Parma). Nel 1994, la Colombia di Maturana tornò ai Mondiali con grandi ambizioni, ma uscì al primo turno, condannata da un autogol di Andrés Escobar alla seconda partita contro gli Stati Uniti. Al ritorno in patria, il difensore venne ucciso una notte da tre uomini, cani sciolti dell’ormai dissolto Cartello di Medellín. Qualcuno dirà che, ai tempi di Pablo Escobar, una cosa del genere non sarebbe mai successa. Eppure, c’è una lunga lista di cadaveri pronta a giurare il contrario.
Fonti
–LARA Miguel Á., La otra Catedral, el campo de fútbol de Pablo Escobar en la cárcel, Marca
–VÁZQUEZ Luis Guillermo, El día en que Óscar Pareja jugó fútbol con Pablo Escobar, As