“Possiamo giocare, ma non allenare”

“Ci sono circa 500 giocatori in Premier League, e un terzo di loro sono neri. Eppure non abbiamo qualcuno che ci rappresenti nelle istituzioni, o negli staff tecnici.” Lo ha detto alla BBC Raheem Sterling, attaccante del Manchester City e della nazionale inglese da sempre molto attento alle problematiche razziali nel calcio. Fa un certo effetto, specialmente se implicitamente siamo portati a considerare il calcio come un ambiente meritocratico. Ma il dato è inequivocabile: i massimi campionati europei sono da anni pieni di calciatori neri, eppure pochissimi di questi riescono a trovare lavoro come allenatori ad alti livelli.

Ai Mondiali del 2018, ce n’era uno solo, il senegalese Aliou Cissé. Quattro anni prima, due: Kwesi Appiah del Ghana e Stephen Keshi della Nigeria. Verrebbe da dire: “Forse non sono così bravi”. Il che assomiglia molto a uno stereotipo razzista: quali caratteristiche rendono un nero meno abile come allenatore di un bianco? Argomentazioni simili si ritrovano un po’ ovunque, fuori dal mondo del calcio, quando si tratta di sotto-rappresentanza di un gruppo non bianco maschio ed eterosessuale: ad esempio, la scarsa presenza delle donne in ruoli di potere o nei dibattiti pubblici viene spesso giustificata con le capacità “inferiori” rispetto ai colleghi maschi.

L’anomalia è sotto gli occhi di tutti, basta saper guardare: le carriere dei tecnici neri in Europa sono stranamente insolite. Sappiamo bene come la maggior parte dei grandi giocatori non abbia problemi a trovare un impiego di allenatore in squadre di livello medio-alto, eppure Sol Campbell – uno dei più grandi difensori della sua generazione – ha iniziato la sua carriera manageriale nel novembre 2018 al Macclesfield Town, ultimo nella League Two, la quarta serie del calcio inglese. Per iniziare ad allenare una prima squadra, Patrick Vieira è dovuto andare a New York con la raccomandazione del Manchester City, club dove aveva concluso la carriera da giocatore e poi mosso in primi passi come tecnico. Antoine Kombouaré allenava il primo PSG degli sceicchi ed era primo in classifica, quando nel dicembre 2011 venne improvvisamente licenziato e sostituito con Carlo Ancelotti (che poi perse il campionato). Frank Rijkaard ha guidato uno dei migliori Barcellona della storia, vicendo praticamente tutto nel giro di due anni, ma è bastata una stagione storta per farlo licenziare, e da allora ha allenato unicamente in Turchia e Arabia Saudita.

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Rijkaard, olandese originario del Suriname, in panchina ha vinto due volte la Liga, due Supercoppe spagnole e una Champions League, venendo premiato come allenatore europeo dell’anno nel 2006. Otto anni dopo, appena 52enne, annunciava il suo ritiro, dopo una stagione da disoccupato.

Attorno agli allenatori neri sembra esserci il residuo di un pregiudizio razzista che fino a pochi anni fa colpiva, a dispetto delle evidenze storiche, i loro colleghi calciatori: i neri sono giocatori di fisico e intuito, ma non di tecnica e ragionamento. Questo nonostante Pelé o Eusébio (che, spesso lo si dimentica, era un africano giunto in Europa solo diciottenne). Col tempo, e con l’emergere sempre più frequente di eccezioni – Weah, Okocha, Henry, Yaya Touré, Seydou Keita – la regola è stata riscritta e lo stereotipo in buona parte superato. Ma a quanto sembra è rimasto sui ruoli manageriali, quelli che richiedono principalmente capacità tattiche e intellettive.

Nel 1960, il Rochdale sceglieva come allenatore l’afrobritannico Tony Collins, che due anni dopo avrebbe condotto il piccolo club dell’area di Manchester alla finale di Coppa di Lega. Da allora nessun altro tecnico di colore ha mai raggiunto un simile risultato in Inghilterra, e per vedere un altro nero su una panchina si sarebbe dovuto attendere il 1993, quando il modesto Barnet promosse Ed Stein per portare a termine la stagione. Quella di Stein si può a stento definire una carriera, con una manciata di panchine qua e là negli anni, dove e quando capitava. Collins, invece, nel 1967 aveva lasciato il Rochdale, divenendo prima collaboratore tecnico della nazionale e poi del Bristol City, ma senza più rivestire il ruolo di manager, se non per una breve parentesi nel 1980.

Tre anni fa, l’Independent segnalava alcuni emergenti allenatori afrobritannici accreditati per diventare alcuni dei nomi più appetibili per le panchine della Premier League, ma ad oggi nessuno di loro è riuscito a ritagliarsi uno spazio nel calcio di prima fascia. Jason Euell – il tecnico delle giovanili del Charlton che ha lanciato Joe Gomez e Ademola Lookman – non ha ancora avuto nessun incarico con una squadra maggiore, e dallo scorso settembre siede sulla panchina dell’Under-20 inglese. Gavin Rose è ancora sulla panchina del Dulwich Hamlet, in National League South, la sesta serie inglese.

Quello di Darren Moore è un altro esempio incredibilmente significativo: a lungo considerato un tecnico molto preparato e di talento, nonostante la giovane età, nell’aprile 2018 venne promosso sulla panchina del West Bromwich Albion ultimo in Premier League: ciò fece di lui il primo giamaicano ad allenare nella massima serie inglese. Pur gestendo una squadra non attrezzata per la salvezza, Moore ottenne ottimi risultati e ricevette il premio come Manager of the Month, che gli consentì d’essere riconfermato per la successiva stagione in Championship. La stampa sportiva inglese aveva solamente parole di elogio per lui, e lo considerava come colui che avrebbe potuto cambiare l’attitudine verso gli allenatori di colore. Ma a marzo 2019 veniva esonerato, nonostante il quarto posto in campionato. Pochi mesi dopo, per trovare un altro lavoro, dovette scendere in League One, accettando la proposta del Doncaster Rovers, con cui s’è classificato nono nell’ultimo torneo.

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Nel maggio 2019 fece molto scalpore l’esonero di Chris Hughton dalla panchina del Brighton, nonostante in cinque stagioni avesse riportato il club in Premier League dopo 34 anni di assenza, ottenuto due salvezze consecutive e una semifinale di FA Cup.

Questa tendenza abbraccia ovviamente tutta l’Europa, ma se Germania, Spagna e Italia possono appellarsi alla scusa di avere un’immigrazione nera più recente e numeri relativamente ridotti, in Francia e Regno Unito le cose sono diverse. Nella storia del campionato francese – da sempre il più multiculturale d’Europa: il primo nero con la maglia dei Bleus risale addirittura al 1931 – un solo allenatore di origine africana ha conquistato uno scudetto. Jean Tigana ha portato il Monaco al titolo nel 1997 e alla semifinale di Champions League l’anno seguente, ma dopo aver lasciato il Principato, è restato un anno senza lavoro e, quando ha ripreso, è stato al Fulham, nella seconda serie inglese. Attualmente, siede sulla panchina dello Shanghai Shenhua.

Questo discorso diventa ancora più sorprendente quando guardiamo alle formazioni nazionali che hanno preso parte ai Mondiali: nella maggior parte dei casi, le rappresentative delle nazioni non-bianche sono state guidate da allenatori bianchi europei. Non si può negare che in parte questo dipenda anche dalla maggiore tradizione europea nel calcio, ma allo stesso modo è innegabile che oggi gran parte dei paesi del mondo abbiano scuole calcio e campionati strutturati: la scusa della tradizione europea non vale più. Soprattutto se analizziamo un fatto: le nazionali asiatiche, pur con minore storia calcistica rispetto a quelle africane, hanno impiegato con maggiore frequenza allenatori locali. Su 35 asiatiche nella storia dei Mondiali, 17 avevano allenatori del proprio paese; mentre se guardiamo alle africane, su 42 casi ne emergono appena 14, e di questi otto sono riferiti a paesi e tecnici nordafricani. Fino al 2002, nessun allenatore nero africano aveva mai guidato una squadra di Coppa del Mondo, e l’unica eccezione è quella di Antoine Tassy, selezionatore di Haiti nell’edizione del 1974.

Se andiamo a guardare la storia della Coppa d’Africa, il problema diventa anche più lampante: su 32 edizioni del torneo finora disputate, esattamente la metà sono state vinte da allenatori bianchi non africani (se non contiamo Clive Barker, il tecnico sudafricano bianco che vinse il titolo nel 1996), e solamente otto da neri. L’andamento è rimasto costante negli anni, tanto che dal 2000 ad oggi il conto è di sei tecnici europei vincenti contro cinque africani (e uno solo nero, il nigeriano Stephen Keshi).

“Possiamo giocare, ma non allenare. Forse l’uomo nero deve solo eseguire” ha detto, senza troppi giri di parole, Florent Ibengé, uno dei pochi allenatori africani ad aver ottenuto un’occasione all’estero, quando nel 2012 si trasferì in Cina. I dirigenti considerano l’allenatore una figura che deve comunicare autorevolezza, e le loro preferenze rispecchiano una visione che vede l’uomo bianco (e possibilmente non troppo giovane, anche se ora le cose stanno lentamente cambiando) come incarnazione di questo concetto.

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Nel 2013, Stephen Keshi ha riportato la Nigeria al titolo continentale dopo 19 anni: al momento è l’ultimo tecnico nero ad avere vinto la coppa, 11 anni dopo l’ivoriano Martial Yeo. Keshi è morto di attacco cardiaco a soli 54 anni, nel 2016.

In Inghilterra, qualche anno fa, si discusse l’introduzione di una sorta di Rooney Rule per il calcio: nel 2003 la NFL (il campionato di football nordamericano) decise, su intuizione del proprietario dei Pittsburgh Steelers Dan Rooney, di introdurre una regola che obbligasse le società a fare colloqui anche a coach afroamericani. Questo portò a un incremento della loro presenza nella lega dal 6% al 22% nel giro di tre anni. Tuttavia questa regola è stata a lungo criticata e tutt’oggi in molti affermano che non abbia realmente cambiato la situazione. Nel 2018, la Football Association l’ha introdotta, e un anno dopo la stessa cosa ha fatto la Football League, l’associazione che organizza i tornei di calcio inglesi dalla seconda divisione in giù, ma al momento i risultati sembrano poco incoraggianti: in Championship, in questa stagione non si è ancora visto un allenatore nero, e ce n’è uno solo di colore, il franco-tunisino Sabri Lamouchi, che allena il Nottingham Forest. Pochi giorni fa, il Guardian ha anticipato che la Rooney Rule non verrà implementata dalla Premier League, dove attualmente si registra un solo allenatore di colore, il portoghese Nuno Espírito Santo del Wolverhampton, che è originario di São Tomé.

“Credo che il calcio sia uno sport universale, e il colore della pelle conti davvero poco” dice Aliou Cissé, selezionatore del Senegal. Però la realtà dei fatti ci dice che un allenatore dalla pelle scura ha più difficoltà rispetto a un bianco a trovare un buon lavoro e, poi, a mantenerlo. Succede nel calcio, e succede fuori dal calcio.

 

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