Il razzismo che il calcio continua a tollerare

Kalidou Koulibaly ha sbagliato ad applaudire l’arbitro Mazzoleni. Ma quell’applauso ha un contesto ben chiaro, che non si limita ai cori razzisti che lo hanno accompagnato fin dal primo minuto, e che non sono bastati – in barba alle regole e alle promesse di Lega e Federcalcio – a provocare la sospensione di Inter-Napoli. Il contesto è quello di un paese in cui il razzismo è sempre stato tollerato, e oggi è addirittura al governo.

I calciatori di colore sono un evento relativamente recente, nel calcio italiano, e ancor di più in nazionale: il primo azzurro è stato Joseph Dayo Oshadogan, convocato nell’Under-21 nel 1996; il primo in nazionale maggiore è stato Fabio Liverani nel 2001; il primo in Serie A è stato l’ivoriano François Zahoui, arrivato all’Ascoli nel 1981. Il razzismo, invece, è radicato nel nostro Paese almeno dall’epoca fascista e, seppure all’epoca non fosse evidente nel mondo del calcio, lo è divenuto nel 1989, quando l’attaccante israeliano Ronny Rosenthal arrivò a Udine per le visite mediche che precludevano alla firma di un contratto col club friulano: al suo arrivo, gli ultras dell’Udinese lo accolsero con tre scritte dipinte sul muro della sede della società, “Rosenthal go home”, “Via gli ebrei dal Friuli” e “Rosenthal vai nel forno”.

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Quali conseguenze per l’antisemitismo contro Rosenthal? Nessuna. Dieci anni dopo, in un derby romano, la curva della Lazio espose lo striscione “Auschwitz la vostra patria, i forni le vostre case”.

Con gli africani, la questione è emersa qualche anno più tardi: nel 1996, il 20enne afro-olandese Maickel Ferrier stava per diventare il primo nero della storia dell’Hellas Verona, e i tifosi scaligeri reagirono esponendo allo stadio un manichino nero con la maglia veronese e impiccato, affiancato da due individui con i costumi del Ku Klux Klan; nel 2001, il 17enne Akeem Omolade del Treviso venne coperto da fischi e insulti da parte dei suoi stessi tifosi; seguirono i casi di André Zoro in Inter-Messina, nel 2005, di Samuel Eto’o in Cagliari-Inter, nel 2010, di Kevin Prince Boateng in Pro Patria-Milan, nel 2013, dello stesso Koulibaly, di Sulley Muntari, di Mario Balotelli, e di molti altri. Quasi sempre da parte dei tifosi, qualche volta da parte di altri calciatori – nel 2016, dopo un derby perso contro la Roma, il laziale Senad Lulic disse che Antonio Rudiger “due anni fa a Stoccarda vendeva calzini e cinture”, e successivamente si rifiutò di scusarsi – e a volte ci si mettono di mezzo anche allenatori e dirigenti.

Nel 2014, Carlo Tavecchio, presidente della Lega Dilettanti, disse che in Italia venivano regolarmente ingaggiati giocatori africani che fino a poco tempo prima “mangiavano le banane”. Un mese dopo, Tavecchio veniva eletto a capo della Figc, il più importante organo dirigenziale del calcio italiano. Casi come questo sono spesso stati derubricati a semplici uscite a vuoto – “gaffe”, le chiamano spesso i giornali, cioè parole o frasi goffe, errori, causati dalla stupidità e non, piuttosto, da una precisa impostazione culturale – mentre di fatto sono serviti a legittimare la crescita del razzismo nel tifo. Nel 2005, commentando il caso di Zoro, l’allenatore del Lecce Silvio Baldini, pur dichiarandosi solidale con il calciatore ivoriano, aggiunse che il razzismo c’è “anche in Africa da parte dei neri verso i bianchi”. Relativismo storico.

Un razzismo che ha radici storiche, perché quando ancora non c’erano i neri in Serie A, il bersaglio erano più in generale gli stranieri: dopo la clamorosa eliminazione degli Azzurri ai Mondiali del 1966 a opera della modesta Corea del Nord, l’intero sistema calcio, la stampa e i tifosi si schierarono compatti contro gli oriundi, ovvero quei calciatori sudamericani di origine italiana che avevano optato per la maglia azzurra e, in quanto stranieri, erano accusati di non impegnarsi per vincere con la nostra nazionale. Fu deciso, inoltre, un bando degli oriundi nell’Italia, interrotto solo nel 2002 con la convocazione di Mauro Camoranesi, e la chiusura delle frontiere, impedendo l’acquisto di qualsiasi calciatore straniero nei campionati italiani, mantenuta fino al 1980.

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Quali conseguenze per il manichino di Ferrier impiccato dal KKK a Verona, nell’indifferenza generale? Una sola: il club cancellò il trasferimento.

Ma se siamo arrivati a questo punto è anche perché c’è chi asserisce che ciò che avviene negli stadi non sia “vero” razzismo, ma solo dei semplici sfottò, o del campanilismo – quando si rivolge contro giocatori e tifoserie italiane, magari con “Vesuvio lavali col fuoco” – e che quindi non sia corretto punirlo. Questa scusa, diffusa anche da alcuni giornalisti, ha finito per diventare molto popolare tra i tifosi razzisti: non molte settimane fa, gli ultras dell’Atalanta, in vista di un match contro il Napoli, definivano le prese di posizione contro i cori razzisti negli stadi “l’ennesimo strumento di repressione”, precisando che i loro sono, appunto, solo sfottò. Intanto, a gennaio, la stessa Curva Nord bergamasca era stata condannata dal giudice sportivo per i cori razzisti contro Koulibaly. Sarà un caso, ma la scusa standard dei razzisti è sempre quella dell’ironia, e a chi minaccia sanzioni rispondono gridando alla censura e alla repressione.

Le norme messe in campo dalla Federazione non si sono rivelate particolarmente efficaci, e il motivo è che nessuno aveva veramente intenzione a farle funzionare: quando fu decisa la “tolleranza zero” negli stadi, l’ennesima, seguirono tre mesi di squalifiche e curve chiuse, quindi si decise che così era troppo, e le pene furono alleggerite, così che oggi, prima che incorra la sospensione del match sono necessari diversi requisiti. Carlo Ancelotti, allenatore del Napoli, si è lamentato proprio di questo, dopo il match di San Siro: quanti richiami ci devono essere, prima che si intervenga?

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Bologna-Napoli, febbraio 2017.

In tutto questo, poi, brilla l’assenza delle società, che spesso vengono dipinte come vittime degli ultras, ma che da sempre li coccolano e li proteggono, rendendo praticamente impossibile identificare i responsabili dei cori. C’è chi dice sia impossibile, eppure questo sistema è regolarmente applicato in Germania, e con risultati decisamente migliori dei nostri. In Inghilterra, a inizio dicembre, un tifoso che urlava insulti razzisti contro Raheem Sterling del Manchester City è stato identificato dalle telecamere televisive. Ma evidentemente i legami tra i club e frange più estremiste del tifo organizzato sono troppo saldi e nessuno ha interesse a spezzarli.

Come diceva Valerio Marchi, il sociologo che meglio di tutti si è occupato del problema delle curve, si finisce però per incolpare i tifosi di numerosi mali che sono invece prodotti della società intera, la quale attraverso il fenomeno calcistico si ripulisce dal peccato e lo trasferisce sul “demone ultras”. Non è il calcio italiano a essere malato, ma tutta la nostra società, e non c’è bisogno di elencare in questa sede esempi che possano dimostrarlo. Di più, oggi il razzismo è istituzionalizzato con la presenza predominante della Lega nel governo e, quasi a chiudere un cerchio, abbiamo tutti ancora in mente le foto del Ministro Salvini accanto a un ultras del Milan.

 

Fonti

BARRO Mattia, Chi ha il coraggio di tirare una linea tra sfottò e razzismo, Rolling Stone

-GHERPELLI Lamberto, Che razza di calcio, Gruppo Abele Edizioni

Perché il razzismo nel calcio italiano è così diffuso, Giornalettismo

-PINCI Matteo, Il razzismo impunito: la vergogna italiana che il calcio condona, La Repubblica

PISAPIA Luca, I “razzisti perbene” del calcio italiano, Il Manifesto

RADOGNA Fiorenzo, Razzismo. Da Zoro a Muntari, 30 anni di pessimi episodi nel nostro calcio, Il Corriere della Sera

CENCI Gianmarco, Razzismo e calcio: una storia (anche italiana), L’Indro

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