Il pomeriggio del 16 luglio 1950 è una data che resterà impressa per sempre nella storia del Brasile, uno di quei momenti che smentiscono tutti quelli che credono che lo sport non sia nulla più che un simpatico passatempo. Sarebbe dovuto essere il giorno di Ademir; finì con l’essere quello di Obdulio Varela, trascinatore della rimonta dell’Uruguay al Maracanã, nell’ultima decisiva sfida per il titolo mondiale. Rio de Janeiro era pronta a celebrare il primo trionfo iridato della Seleção, e invece la festa si mutò in tragedia, le masse festanti in disperati suicidi. Questo, almeno, quello che racconta la leggenda.
Che il Brasile avesse puntato moltissimo su quel Mondiale casalingo, è risaputo. Una vittoria avrebbe dato ulteriore slancio al Presidente Eurico Gaspar Dutra – a capo del primo governo democratico dopo 9 anni di dittatura – in vista delle elezioni di ottobre: Dutra era andato al potere con un piano liberista, ma nel 1947 aveva invertito la rotta, approvando politiche di forte intervento statale, che avevano iniziato finalmente a migliorare l’economia. L’ottimismo nel Paese era talmente forte che le celebrazioni per il titolo erano già state organizzate nel dettaglio; la stampa quella mattina celebrava il Brasile campione del mondo, e la stessa cosa aveva fatto imprudentemente il prefetto Ângelo Mendes de Morais nel suo discorso appena prima del fischio d’inizio. Il clima che si era creato era l’antipasto perfetto per una tragedia, e questo contribuì non poco a quanto avvenne in seguito.
Le fonti riguardo alle morti del post-partita si sprecano, ma ognuna racconta una storia diversa. Tgcom24 riporta con impressionante precisione “34 suicidi e 56 arresti cardiaci”, paragonandolo a un “bollettino di guerra”: questa fonte è addirittura riportata sulla versione italiana di Wikipedia. Hypercritic si spinge addirittura a parlare di “200.000 suicidi”, ma ci tiene a precisare che si tratta di una leggenda. Sulla stampa specializzata, però, non si va tanto distanti: TuttoMercatoWeb parla genericamente di “decine di persone fra infarti e suicidi”, Infobae di “100 tifosi” che si tolgono la vita, mentre per La Voz de Galicia sono ‘appena’ 70. Addirittura il sito della Treccani, la più importante enciclopedia italiana, parla di “scene di isteria e suicidi”. Marca, il principale quotidiano sportivo di Spagna, si limita a dire che dei suicidi si verificarono, ma si guarda bene dal dare numeri. E man mano che si fruga tra le testate più autorevoli, le cose iniziano a complicarsi: il Secolo XIX dice che solamente due persone si tolsero la vita, anche se lo fecero in mondo tragicamente spettacolare, gettandosi dagli spalti dello stadio.
Ma, anche se fosse vero, si potrebbe davvero assicurare la volontarietà di quei gesti? Per la Gazzetta dello Sport, nessun tifoso si uccise, ma ci furono 10 morti d’infarto e vari incidenti sugli spalti: comprensibile, data la cocente delusione, gli animi tesi e uno stadio strapieno (si parla di quasi 200.000 persone presenti, ben oltre la capienza del Maracanã). E, in un clima del genere, come essere certi che qualcuno non sia stato spinto dalla calca e sia precipitato da una balaustra? E chi morì d’infarto, lo fece per il dispiacere della sconfitta, o per la ressa in cui era rimasto imprigionato, in un caldo pomeriggio di piena estate? Secondo Matthew Schorr, si verificò un unico suicidio riconducibile alla partita, e le morti per infarto furono solamente tre. La storia dei suicidi del Maracanazo, più si cerca sotto la crosta dello storytelling e più sembra essere inconsistente. Ecco perché, per esempio, Il Manifesto si trincera dietro un tiepido “pare fossero solo voci, con poco o nulla di comprovato”, mentre la Gazeta do Povo smentisce in maniera più netta: “Ci sono state anche storie di suicidi, ma niente di ciò è stato confermato”.

“Credo che i presunti suicidi siano una leggenda urbana” sostiene il giornalista brasiliano Geneton Moraes Neto, autore di un libro sui Mondiali del 1950. Nessuna fonte credibile o comprovata conferma che qualcuno, dopo Uruguay-Brasile, si sia effettivamente ucciso per la delusione, eppure dopo 72 anni la leggenda circola ancora e trova spazio sulle enciclopedie online e sulle maggiori testate globali: una bugia ripetuta abbastanza a lungo finisce per diventare realtà. Tra tutti i falsi miti del calcio, questo sembra aver attecchito con particolare successo nel racconto globale, anche per la difficoltà di andare a verificare cosa realmente avvenne.
Non è semplice risalire all’origine di questa leggenda. Sicuramente, la fama del Brasile come nazione fanaticamente protesa verso il calcio ha contribuito alla costruzione del mito, ma il fatto che nel 1950 i verdeoro non avessero mai vinto un titolo iridato rende difficile credere che, almeno in Europa, lo stereotipo del Brasile “patria del football” fosse tanto diffuso nel dopoguerra. Si tratta di un’identificazione che è andata diffondendosi soprattutto a partire dagli anni successivi, con il sempre più frequente arrivo in Europa di campioni brasiliani e con l’ascesa di Pelé, che tra il 1958 e il 1970 ha portato la Seleção a tre titoli mondiali. Il Pallone d’Oro, l’enciclopedia storica del calcio curata nel 1967 dall’editore milanese Perna, a cui collaborarono i più eminenti giornalisti sportivi italiani dell’epoca, raccontando il Maracanazo non parla né di infarti né di suicidi, pur descrivendo enfaticamente il “silenzio di morte” calato su Rio de Janeiro al gol del 2-1 di Ghiggia.
Probabilmente tutto è nato da descrizioni liriche di questo tipo, da cui qualcuno ha preso spunto trasformando la metafora della morte e la tremenda delusione del Brasile dopo il fischio finale in un fatto concreto. Sempre su Il Pallone d’Oro, la testimonianza del presidente della FIFA Jules Rimet sembra perfetta per descrivere l’apocalittica imminenza della tragedia: “Di colpo non vi fu più né guardia d’onore, né inni nazionali, né discorsi davanti ai microfoni, né consegna solene del trofeo… Mi trovai solo tra la folla, sballottato da tutte le parti, con la Coppa tra le braccia senza sapere cosa fare. Alla fine scorsi il capitano uruguayano e gli consegnai il trofeo stringendogli la mano senza potergli dire neppure una parola…”. Se ci fosse stata conoscenza, nell’Italia di fine anni Sessanta, di storie di suicidi, di certo i redattori dell’enciclopedia ne avrebbero fatto parola, per impreziosire queste straordinarie parole.
Un ruolo in questa leggenda lo ha probabilmente avuto anche Osvaldo Soriano, con l’intervista fatta nel 1972 a Obdulio Varela, rivelatasi poi la base per uno dei brani contenuti in Fútbol. L’ex-campione dell’Uruguay gli raccontò il post-partita e il romantico incontro in un bar con un tifoso brasiliano: “Loro avevano preparato il carnevale più grande del mondo per quella sera e se l’erano rovinato. A sentire quel tizio, gliel’avevo rovinato io. Mi sono accorto che ero amareggiato quanto lui. Sarebbe stato bello vedere quel carnevale, vedere come la gente se la spassava con una cosa così semplice. Noi avevamo rovinato tutto e non avevamo ottenuto niente. Avevamo un titolo, ma cosa importava in confronto a tutta quella tristezza?”. Ma nemmeno Soriano parla di suicidi, per cui il mito sembra essere ancora più recente.

Eduardo Galeano citava il titolo di un giornale di Rio del giorno seguente alla partita, che scriveva “La nostra Hiroshima”, e commentava dicendo che “I brasiliani sono sempre stati un po’ esagerati…”. Nel 2014, il programma televisivo uruguayano Fútbol Pasión ha ricordato il Maracanazo con Ghiggia e lo stesso Galeano parlando anche delle lacrime e della sofferenza del pubblico brasiliano, ma senza mai fare riferimento a suicidi o morti di alcun tipo. La leggenda delle tragiche vittime del Mondiali del 1950 sembra circolare con maggiore facilità sulla stampa europea, ed essere trattata con maggiore scetticismo, se non addirittura ignorata, da quella sudamericana. Un particolare che fa pensare a una sorta di bias culturale, che vede nei brasiliani un popolo poco razionale, preda di passioni sfrenate e potenzialmente autodistruttive, che quando c’è di mezzo il calcio rivela la distanza tra sé e la “civilizzazione” illuminista europea. Questa leggenda, allora, è forse la storia di un nostro pregiudizio.
A proposito di pregiudizi, sappiamo invece chi furono le vittime vere e proprie del Maracanazo: i calciatori afro-brasiliani. Il terzino Bigode e ancor di più il portiere Barbosa – fino a quel momento il migliore del torneo – divennero i capri espiatori della sconfitta, alimentando lo stereotipo razziale che vedeva i neri come giocatori fantasiosi ma incostanti e inaffidabili. Ci vollero, otto anni dopo, Pelé e Garrincha per far cambiare idea al Paese, ma per rivedere un portiere nero in Nazionale bisognò attendere fino al 1995. Ecco cosa si nasconde sotto la leggenda della tragedia del 1950.