“La povertà era chiedersi che cosa sarebbe successo se non fossimo riusciti a mettere insieme abbastanza denaro per la legna. La povertà era lesinare, e persino odiare ogni pezzetto di legna che veniva ingoiato dalla fornace di quella stufa. La povertà è essere derubati di ogni rispetto e fiducia in se stessi. La povertà è paura. Non paura della morte, paura di vivere.” – Pelé
Questa storia non potrebbe iniziare senza Dondinho. Nativo di Campos Gerais, calda città nel sud-ovest del Brasile, con il nome di battesimo di João Ramos do Nascimento, è uno di quei ragazzi che cercano di sfuggire alla povertà attraverso il calcio e diventare leggende come Flávio Costa, mitico centrocampista del Flamengo e allenatore del Brasile ai Mondiali 1950. O come Francisco, il fratello maggiore di Dondinho, promessa del calcio morto a soli 25 anni.
Dondinho non è un giocatore di talento: è una punta classica, alto e robusto, ma non particolarmente brillante, che si destreggia nei club minori del Brasile. Nel 1940 ottiene l’occasione della vita, proprio mentre sta per diventare padre di Edson: firma per l’Atlético Mineiro, a soli 23 anni. Con l’Alvinegro vince un campionato dello stato di Rio, ma resta una riserva, e un brutto infortunio al ginocchio mette fine alle sue possibilità nel calcio che conta. Dondinho prende la famiglia e si sposta così a Bauru, nello stato di São Paulo, dove continuerà a giocare a calcio fino al 1952, nel frattempo lavorando come inserviente all’ospedale.

È una vita povera, quella della famiglia Do Nascimento. Vivono in una casa di legno, e quando piove l’acqua entra dal tetto. Edson, il più grande dei tre figli di Dondinho, inizia fin da giovanissimo a lavorare e giocare al pallone: qualche soldo pulendo scarpe per strada, qualche altro come aiutante in una sala da thé; i soldi per un pallone vero non ci sono, e se ne fa uno di stracci e carta di giornali, arrotolati dentro una calza da uomo. Sua madre, Maria Celeste, lo chiama Dico, ma in campo i ragazzi più grandi iniziano a schernirlo chiamandolo Pelé, per via delle difficoltà di Edson nel pronunciare correttamente il nome di Bilè, il mitico portiere del Vasco da Gama.
Edson è basso di statura, gracilino e introverso, ma ha un talento innato per il calcio che lo porta a giocare con quelli più grandi di lui, come il suo rivale d’infanzia José João Altafini, che di lì a poco tutti inizieranno a chiamare Mazzola, per via della somiglianza con l’asso del Grande Torino Valentino Mazzola. Presto, alle partite dei ragazzini di São Paulo, inizia a partecipare anche Waldemar de Brito, ex-campione degli anni Trenta, che diventa allenatore della squadra giovanile locale. Edson ormai ha accettato, suo malgrado, il nome Pelé; ha 15 anni e Bauru inizia a stargli stretta. Ora, per mantenersi vende polpette di carne alla stazione ferroviaria.

Gli anni sotto la guida di De Brito sono fondamentali, per la crescita di Pelé, sia come calciatore che come uomo. Di lì a poco, alla porta della famiglia Do Nascimento bussa Elba de Pádua Lima, meglio noto come Tim, ex-attaccante della nazionale brasiliana del 1938 e osservatore per il Bangù di Rio de Janeiro: la società è disposta a far firmare al ragazzo un contratto professionistico; si tratta di trasferirsi a vivere da solo, poco più che bambino, in una delle città più grandi del mondo, a oltre 700 km da Bauru verso est, là dove sta l’oceano. Dondinho dice sì, dona Celeste assolutamente no. L’affare salta.
Waldemar De Brito, nel frattempo, ha fiutato l’occasione. Da qualche tempo si è messo anche lui a lavorare come scout, ed è in contatto con una giovane società di Santos, in riva al mare, appena oltre São Paulo: è sempre lontana, ma almeno è nello stesso stato, e Santos è una cittadina piccola, meno problematica di Rio. Dopo un lungo lavoro ai fianchi, alla fine l’allenatore riesce a fare cedere anche dona Celeste: ha dovuto farla parlare al telefono con il presindente del club, che le ha assicurato che terranno il figlio lontano dalle cattive compagnie.

Il Santos aveva il fascino di tutte le squadre con la divisa completamente bianca, incuteva rispetto e ammirazione prima ancora che tu potessi riconoscerne i calciatori: Formiga, Zito, Pepe, Del Vecchio, Vasconcelos. Quando Waldemar De Brito condusse Pelé negli spogliatoi dopo una partita per presentarlo all’allenatore Lula e a tutta la squadra, fu proprio Vasconcelos ad avvicinarsi e dirgli che ci avrebbe pensato lui, al ragazzo. Dondinho poté tornare a Bauru col cuore in pace.
La sera, Pelé restava a dormire nelle camere del centro sportivo di Vila Belmiro. La sua prima mattina a Santos, si svegliò presto e camminò per un miglio fino a che non vide l’acqua infinita dell’Atlantico. Pensò che, se anche avesse fallito – come tanti sembravano credere – e avesse dovuto fare ritorno a casa con la coda tra le gambe, almeno gli era riuscito di vedere l’oceano. E, per un ragazzo povero dell’entroterra brasiliano, quello era già un grande traguardo.
Fonti
–BERSELLI Edmondo, “Mi chiamavano il Tedesco”: la storia di Pelé prima di Pelé, La Repubblica
–FOTI Giuseppe, Da padre in figlio: la leggenda di Dondinho, il padre di Pelé, SportFair
-PELÉ, FISH Robert L., La mia vita è il più bel gioco del mondo, Sperling & Kupfer Editori
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