Reinaldo, il pugno della Pantera Nera contro i dittatori

C’era una nuova potenza, nel calcio brasiliano. L’Atlético Mineiro di Belo Horizonte era sempre stato una squadra di secondo piano nel panorama nazionale, e dagli anni Sessanta aveva anche perso il predomonio locale nel campionato Mineiro a favore del Cruzeiro. Ma ora le cose stavano cambiando: dopo che nel 1971 Telê Santana aveva condotto il Galo a vincere il suo primo titolo brasiliano, le ambizioni del club erano cresciute e adesso, sei anni dopo, molti erano convinti che i ragazzi ora allenati dall’ex-tecnico delle giovanili Barbatana potessero replicare l’impresa. L’Atlético Mineiro era una squadra molto giovane che praticava un calcio offensivo e spattacolare, che nessuno riusciva a battere, e che era trascinata in attacco da un ventenne implacabile, José Reinaldo de Lima. Simbolo di un’intera generazione di ragazzi brasiliani ribelli, era tanto celebrato per ciò che faceva coi piedi quanto criticato per ciò che faceva con la mano, che a ogni gol si chiudeva in un pugno e si levava al cielo.

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Rivaldo sulle orme di Tamerlano

A metà luglio del 2008, una strana missiva arrivava dalle lontane terre dei khan: Samuel Eto’o aveva firmato con il Kuruvchi di Tashkent, in Uzbekistan. La notizia aveva del clamoroso, dato che Eto’o aveva appena 27 anni ed era una delle stelle del Barcellona. Era vero che il club blaugrana stava attraversando una fase di ricostruzione, con un nuovo allenatore e diversi giocatori importanti ceduti (Ronaldinho, Deco, Zambrotta), ma immaginare che anche il camerunense potesse andarsene era difficile. Specialmente perché l’Uzbekistan era un non-mondo fuori dall’universo del calcio, e quella squadra che rivendicava un contratto semestrale già firmato non l’aveva mai sentita nominare nessuno. I dirigenti del Barça risposero che non ne sapevano niente, ma anche se non potevano confessarlo quegli abitanti delle steppe avevano attirato la loro attenzione.

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La leggenda dei suicidi del Maracanazo

Il pomeriggio del 16 luglio 1950 è una data che resterà impressa per sempre nella storia del Brasile, uno di quei momenti che smentiscono tutti quelli che credono che lo sport non sia nulla più che un simpatico passatempo. Sarebbe dovuto essere il giorno di Ademir; finì con l’essere quello di Obdulio Varela, trascinatore della rimonta dell’Uruguay al Maracanã, nell’ultima decisiva sfida per il titolo mondiale. Rio de Janeiro era pronta a celebrare il primo trionfo iridato della Seleção, e invece la festa si mutò in tragedia, le masse festanti in disperati suicidi. Questo, almeno, quello che racconta la leggenda.

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Se fosse così facile fermare una guerra

Correva l’anno 1969, e il Santos era stato invitato a giocare un’amichevole a Benin City – che, a dispetto del nome, non si trova in Benin ma bensì in Nigeria – nonostante nel paese fosse in corso una guerra civile. Ma la magia del calcio, e la fama di Pelé, fecero sì che il governo e i ribelli decidessero di accordarsi per una tregua, permettendo alla gente di recarsi allo stadio a vedere la partita della squadra brasiliana. È una delle storie preferite di Pelé, che l’ha riportata su Twitter anche nell’ottobre 2020, e ovviamente dei suoi innumerevoli tifosi: la volta in cui O Rei fermò una guerra. Inutile dire che le cose andarono un po’ diversamente.

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Clodoaldo, il sesto numero 10 del Brasile del ’70

Chiunque l’abbia visto, non ha dubbi che il Brasile del 1970 sia stata la nazionale più forte di tutti i tempi. Raccoglie forse meno consensi, oggi, rispetto all’Olanda – bella e perdente, e per questo più romantica – che avrebbe disputato le due successive finali mondiali, magari anche un po’ a causa dell’eurocentrismo intrinseco della storia del calcio. Eppure, non c’era poi tanta differenza tra quelle due squadre: un gioco estremamente offensivo, una ragnatela di passaggi perfetti, giocatori capaci di interpretare ogni ruolo e vedere il gioco con una lucidità unica.

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Pelé: La Serie – Episodio 1

“La povertà era chiedersi che cosa sarebbe successo se non fossimo riusciti a mettere insieme abbastanza denaro per la legna. La povertà era lesinare, e persino odiare ogni pezzetto di legna che veniva ingoiato dalla fornace di quella stufa. La povertà è essere derubati di ogni rispetto e fiducia in se stessi. La povertà è paura. Non paura della morte, paura di vivere.” – Pelé

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