“Una cortina di ferro è calata sul fronte russo. Non sappiamo cosa stia succedendo dietro di essa.” – Winston Churchill
L’Est europeo ha spanso sui suoi vicini occidentali un fascino senza eguali, nel corso del Novecento: oltre la cortina di ferro si estendeva un mondo misterioso fatto di spie ma anche di sogni, di severi controlli orwelliani ma anche di personaggi e luoghi mitici. Prima che il calcio divenisse un fenomeno televisivo internazionale, poche informazioni potevano arrivare sull’andamento dei campionati di calcio dell’area del Patto di Varsavia, e le poche occasioni di vedere in azione gli astri oscuri del calcio comunista erano i match delle nazionali e le coppe continentali.
I successi dell’Est

I risultati del calcio dell’Europa dell’Est nei tornei internazionali diffusero a Occidente l’eco di giocatori oscuri e sensazionali fin dai tempi della Grande Ungheria finalista dei Mondiali del 1954; sei anni più tardi, il Patto di Varsavia occupava l’intero podio della prima edizione degli Europei, vinti dall’Unione Sovietica di Yashin, Ponedelnik, Netto e Metreveli, davanti alla Jugoslavia di Galic e alla Cecoslovacchia di Masopust, che nel 1962 divenne il primo calciatore est-europeo a vincere il Pallone d’Oro.
Nel 1966, il Partizan Belgrado di Galic diveniva il primo club del blocco comunista a raggiungere la finale di Coppa dei Campioni, perdendo contro il Real Madrid. Nel 1969, lo Slovan Bratislava superava il Barcellona e vinceva la Coppa delle Coppe, anticipando i successi continentali della Dinamo Kiev del Colonnello Lobanovski (nel 1975, trascinata da Blochin, e nel 1986, con Blochin e Belanov), della Dinamo Tblisi (1981) e della Steaua Bucarest, prima squadra dell’Est a vincere una Coppa dei Campioni, nel 1986.
L’Europa occidentale si ritrovava così stretta tra due fuochi: la fantasia del calcio sudamericano e l’eleganza di quello orientale divenivano due modelli dall’attrattiva esotica, rispetto al rigido pragmatismo di Italia, Germania, Francia e Spagna. Tuttavia, la cortina di ferro che si estendeva ben oltre i confini del Muro di Berlino – eretto, per la verità, solo nel 1961 – come un limite invalicabile tra due mondi. Per ragioni politiche, prima ancora che economiche o tecniche, i club e soprattutto i governi dell’Europa dell’Est erano ben poco interessati a sottomettersi alle regole del calciomercato.
I primi transfughi

Nel 1949, Laszlo Kubala passava clandestinamente il confine tra Ungheria e Austria e, da lì, entrava in Italia, raggiungendo i connazionali Istvan Turbeky e Yeno Vinyei alla Pro Patria: si tratta del primo asso del calcio dell’Est a essere passato all’Ovest, seguendo la via della diserzione che, dopo pochi anni, sarebbe stata percorsa da tre campioni della Grande Ungheria come Sandor Kocsis, Zoltan Czibor e Ferenc Puskas.
Nonostante ciò, i trasferimenti dall’Est all’Ovest furono molto meno turbolenti di questi. Si trattava principalmente di giocatori che avevano superato i trent’anni e si avventuravano nella fase conclusiva della carriera andando a fare esperienza nel calcio dei principali campionati europei: nel 1960 il grande portiere jusgolavo Vladimir Beara lasciava lo Hajduk Spalato per l’Alemannia Aachen, e veniva seguito da suoi connazionali come Vujadin Boskov (dal Vojvodina alla Sampdoria nel 1961) e Milan Galic (dal Partizan allo Standard Liegi nel 1966). Nel 1968, anche l’ormai trentasettenne Josef Masopust lasciava il Dukla Praga per i belgi del Molenbeek.
A rompere la regola fu Zbigniew Boniek, che aveva solo ventisei anni quando lasciò, nel 1982, il Widzew Lodz per la Juventus. Se, negli anni Sessanta, la Jugoslavia aveva lasciato andare alcune delle sue glorie nella vicina Europa dell’Ovest, la Polonia degli anni Ottanta era una nazione in cui i dettami del regime comunista stavano incominciando a essere messi in discussione, con un processo che avrebbe portato al crollo del Muro di Berlino entro la fine del decennio. Prima di Boniek, anche leggende come Kazimierz Deyna e Grzegorz Lato erano espatriate, rispettivamente al Manchester City nel 1978 e al Lokeren nel 1980, stesso anno in cui Lech Walesa fondava Solidarność a Danzica.
La Madre Russia

Il discorso era sempre stato diverso per quanto riguardava l’Unione Sovietica, epicentro del potere comunista nell’Est. Nessun giocatore lasciava la vecchia Russia, se non per giocare con la nazionale o con il proprio club nelle competizioni internazionali. Una sola eccezione era stata quella rappresentata dall’uzbeko Vasili Hatzipanagis, che nel 1975 si era trasferito all’Iraklis Salonicco: figlio di immigrati greci, Hatzipanagis aveva rappresentato, però, un trasferimento fortemente simbolico, immediatamente successivo alla caduta del regime fascista dei colonnelli di Atene. Questa estrema riservatezza faceva parte del misterioso mito della cortina di ferro che aveva alimentato la nomea dei campioni sovietici a partire dal Pallone d’Oro 1963 Lev Yashin, passando per campioni come Igor Netto, Valentin Ivanov, Valerij Voronin, Igor Chislenko, Anatoli Banishevski, Murtaz Khurtsilava e molti altri.
Fu forse più per un’operazione politica, sostenuta in primis dal giornalista austriaco e militante comunista Kurt Chastka, quella che portò, nel 1980, un poco conosciuto attaccante russo di nome Anatolij Zinchenko dallo Zenit Leningrado al Rapid Vienna, la squadra tradizionalmente di sinistra della capitale austriaca. Zinchenko aveva trentuno anni, alle spalle una carriera ma senza particolari acuti, con appena tre presenze in nazionale e nessun titolo conquistato: un perfetto signor nessun del calcio internazionale per sperimentare il trasferimento del primo calciatore sovietico della storia in un campionato dell’Europa occidentale.
Poi venne la Perestrojka. Nel 1987, il centrocampista Sergey Shavlo – bronzo alle Olimpiadi moscovite del 1980 – seguì l’esempio di Zinchenko e lasciò la Torpedo Mosca sempre per il Rapid Vienna. Nei successivi tre anni, alcuni dei principali calciatori sovietici, in gran parte reduci dalla finale degli Europei in Germania Ovest persa contro l’Olanda, andarono a saggiare il calcio dell’Ovest: se una vecchia gloria come Oleh Blochin – vincitore del Pallone d’Oro nel 1975 – si era trovato un posto nel modesto club austriaco del Vorwarts Steyr, altri si erano accasati nei maggiori campionati del continente. Dasaev era andato al Siviglia, Khidiyatullin al Tolosa, Zavarov e Alejnikov alla Juventus, Rats all’Espanyol, Borodjuk allo Schalke 04, Belanov – vincitore del Pallone d’Oro nel 1986 – al Borussia Moenchengladbach, Protasov all’Olympiakos e Mikhailichenko alla Sampdoria.
L’esodo verso Occidente

La caduta del Muro di Berlino e lo scioglimento dell’Unione Sovietica sancì un vero e proprio esodo dai paesi del blocco comunista verso il mondo capitalista, che riguardò le persone comuni tanto quanto i calciatori, che per decenni i club e tifosi occidentali avevano sognato e corteggiato senza successo. A partire dal 1989, squadre georgiane, lituane e moldave avevano iniziato ad abbandonare la lega sovietica, anticipando di qualche anno le indipendenze politiche delle proprie nazioni. Inoltre, l’apertura verso l’Occidente consentiva ai calciatori sovietici, che in patria guadagnavano pochissimo per via del loro status di fatto non professionistico, di trovare ricchi contratti in Francia, Italia, Germania e Spagna.
Fu Andrej Kanchelskis, talentuosa ala destra dello Shaktar Donetsk, il primo grande campione a lasciare l’ormai dissolta Urss, accasandosi alla corte di Sir Alex Ferguson al Manchester United nel 1991. Contemporaneamente, prendevano la via della Serie A Igor Shalimov e Igor Kolyvanov – uno dallo Spartak e l’altro dalla Dinamo Mosca, ma entrambi diretti a Foggia – e Igor Dorbovolskij, diretto al Genoa. Nel giro di pochi anni, tutti i più giovani talenti del calcio russo cambiarono squadra: Aleksandr Mostovoj si trasferì al Benfica nel 1992, Valerij Karpin alla Real Sociedad nel 1994, e Viktor Onopko nel 1995 arrivò al Real Oviedo.
In poco tempo, i grandi club sovietici come la Dinamo Kiev, lo Spartak Mosca, il CSKA Mosca e lo Zenit Leningrado furono letteralmente saccheggiati, entrando in una crisi tecnica durata più di un decennio: si può far risalire la resurrezione del calcio post-sovietico al 2005, con la vittoria della Coppa Uefa da parte del CSKA Mosca, a cui hanno fatto seguito quelle di Zenit e Shaktar Donetsk nel 2008 e nel 2009.
Il tramonto del mito

La verità, però, è che i fenomeni del calcio dell’Est inseguiti per quarant’anni erano stati una grande illusione. Già alla fine degli anni Ottanta, Oleksandr Zavarov – che Lobanovski aveva paragonato a Maradona, ai tempi della Dinamo Kiev – era passato dalla Juventus senza entusiasmare nessuno, e destino simile aveva avuto Alejnikov. Oleksij Mikhailichenko, seppur figuri tra i vincitori del clamoroso scudetto della Sampdoria del 1991, faticò sempre a convincere il tecnico Boskov, e dopo una sola stagione fu ceduto ai Glasgow Rangers. Ihor Belanov, arrivato in Germania carico di tante aspettative, deluse totalmente al Borussia, e dopo un solo anno passò al più modesto Eintracht Braunschweig. Anche Mostovoj, l’ultimo Zar del calcio russo, fallì la sua esperienza nel calcio di prima fascia, e si riciclò come un campione di provincia al Celta Vigo. E pure chi si affermò subito, come Igor Shalimov nei perfetti schemi offensivi del Foggia di Zeman, fece fiasco non appena fu testato in una grande squadra come l’Inter.
Solo uno dei figli del calcio sovietico si rivelò all’altezza delle aspettative. Kanchelskis si impose subito come un punto di riferimento fondamentale nell’attacco dello United, trascinando il club alla conquista di due campionati, una Coppa delle Coppe e altri quattro trofei nazionali. Dopo essere passato con successo dall’Everton, approdò ad un’ambiziosa Fiorentina nel 1996; saltò praticamente tutta la prima stagione a causa di un infortunio dovuto a uno scontro con Vincent Candela della Roma, rientrò quella successiva e fu azzoppato nuovamente da Taribo West dell’Inter e, a ventinove anni, la sua carriera si arenò in infermeria.
Da allora, la Russia ha continuato a sfornare promesse mai mantenute, e solo una minima parte di esse è sbarcata effettivamente nell’Europa occidentale. La maggior parte hanno seguito l’esempio di carriera di Egor Titov, il fantastista dello Spartak Mosca a lungo vicino al calcio che conta ma che mai ha compiuto il salto. Aleksandr Golovin, trasferitosi al Monaco dopo l’ottimo Mondiale casalingo, è solo l’ultimo in ordine di tempo di una serie di talenti su cui il calcio russo ha tentato di portare l’attenzione generale, come Marat Izmajlov, Dmitri Sychev, Igor Akinfeev, Andrej Arshavin, Alan Dzagoev o Aleksandr Kokorin.
Fonti
–AA VV, La luce dell’Est, Crampi Sportivi
–BRIGNOLO Massimo, Calciatori russi in Italia, Storie di Calcio
Bellissimo articolo, non capisco però il senso della foto di Bruno Giordano nel paragrafo “La Madre Russia”
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Una (clamorosa) svista! Grazie per la segnalazione: ora è stata corretta con una foto giusta di Zinchenko.
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