JuventURSS

L’agosto di Torino non era decisamente come quello di Minsk, ma valeva bene una visita, soprattutto se per motivi di lavoro: la pensava così Sergej Alejnikov, centrocampista di 27 anni che stava concludendo un clamoroso trasferimento dall’Unione Sovietica al calcio europeo, firmando con la Juventus. Il suo primo contratto professionistico in carriera, visto che oltre la cortina di ferro gli atleti erano tutti formalmente dilettanti. Si respirava un’aria frizzante e ironica: la Juventus, la squadra simbolo del capitalismo italiano targata Agnelli, stava finendo nelle mani dei proletari socialisti? L’anno prima, i bianconeri si erano assicurati per 7 miliardi di lire il fuoriclasse della Dinamo Kiev Aleksandr Zavarov, ma l’ambientazione del campione era stata difficile, così Boniperti aveva deciso di affiancargli un connazionale: avevano trattato Oleg Protasov, che lo aveva sostituito a Kiev, e Aleksej Michajličenko, ma alla fine avevano ripiegato sul meno noto (e costoso) Alejnikov.

Cinque anni prima, il segretario generale del PCUS Michail Gorbačëv aveva pronunciato una parola destinata a cambiare per sempre la storia del mondo: perestrajvat’sja, “ricostruirsi”. La ricostruzione dell’Unione Sovietica passava da una sua fisiologica apertura all’Occidente, e quindi anche dalla possibilità dei calciatori locali di trasferirsi nei principali club dell’Europa capitalista. Per i sovietici, era anche una forma di propaganda: esportare calciatori di talento in determinati Paesi, dove c’era un forte movimento comunista, come arma di persuasione politica e di soft power. Lo Stato controllava le carriere di ogni calciatore e ne amministrava i trasferimenti all’estero: Alejnikov, ex-operaio e ora dipendente del Ministero dell’Interno – in quanto giocatore della Dinamo Minsk – era stato promesso al Genoa di Franco Scoglio, ma all’ultimo s’era intromessa la Juventus, e la possibilità di piazzare un altro giocatore nel club della FIAT era troppo allettante per farsela scappare.

Zavarov era stato mandato lì un anno prima, portabandiera perfetto per il calcio socialista. 27 anni, centravanti atipico per tecnica e visione di gioco, era la gemma della Dinamo Kiev di Lobanovskyi, ma era anche uno sportivo fuori dagli schemi europei: famiglia operaia e piglio da intellettuale, passava tanto tempo appresso ai libri quanto quello ad allenarsi, e alla sua prima intervista in Italia disse che il suo sogno nel cassetto non erano i titoli ma la pace. Così si gioca a calcio nell’URSS: tecnica e cervello; sembrava dire con la sua sola presenza. Ma la sua era una Juventus complicata, reduce da una stagione deludente e orfana di Platini, affidata a un Dino Zoff che giungeva da appena due anni alla guida della Nazionale olimpica. Zavarov esordì bene, poi verso l’autunno iniziò a spegnersi, lasciando a dirigenti e tifosi tanti dubbi.

A rivederla oggi, la scelta di mandarlo a Torino fu un boomerang per il calcio sovietico: il flop del loro campione ridimensionava un intero movimento che, protetto oltre il Muro di Berlino, sembrava ora sovrastimare l’effettivo valore dei suoi talenti. La verità è che le condizioni alla Juventus erano tutto fuorché ideali: un club in fase di transizione, lo shock culturale del professionismo occidentale, una difficile eredità complicata ulteriormente dal fatto che il club aveva preso anche Rui Barros dal Porto (che invece disputò un’ottima annata), il fatto di essere abituato a giocare durante l’anno solare. E poi c’era il carattere dell’ucraino: intelletuale, sì, ma schivo, timido, non abituato ai riflettori e alle pressione dei giornalisti. Totalmente inadatto ad affrontare da solo la Serie A degli anni Ottanta. Le difficoltà nell’imparare l’italiano furono un’ulteriore aggiunta alla sua già problematica avventura torinese.

L’anno di Sergej e Sasha? No.

Alejnikov era arrivato proprio per questo motivo: salvare il soldato Zavarov, e un po’ anche la faccia del calcio sovietico. Il bielorusso era tutto l’opposto dell’ucraino: più estroverso e gioviale fuori dal campo, quanto meno celebrato al suo interno. Se Sasha era un calciatore fatto su misura per il calcio di Lobanovskyi, Sergej era stato plasmato da Malofeev, la nemesi sportiva del Colonnello. Era un tuttocampista ante litteram, nato come trequartista ma alla fine adattato a giocare da mediano e talvolta pure da difensore: un giocatore poco appariscente, ma dall’innato senso tattico, in anticipo sui tempi. Veniva da un’altra Dinamo, ma con Zavarov aveva giocato insieme in Nazionale, e soprattutto era una scommessa meno ingombrante di Protasov e Michajličenko.

E tutto questo, va detto, Alejnikov lo aveva avvertito fin da subito: il fatto di essere alla Juventus anche se nessuno lo voleva davvero, lì solo a fare da balia al suo connazionale, che non poteva permettersi di fallire. Inizialmente i due calciatori e le rispettive famiglie – entrambi avevano moglie e figli – si frequentarono, ma la cosa durò poco: gli Alejnikov e gli Zavarov non avevano nulla in comune se non la lingua, e una volta che i bielorussi si fecero altre amicizie in Italia, i rapporti si raffreddarono. Il centrocampista della Dinamo Minsk, arrivato quasi per caso, colpiva positivamente Zoff e i tifosi; quello della Dinamo Kiev, invece, continuava a galleggiare intorno alla soglia della decenza. A novembre, i tedeschi tiravano giù il Muro di Berlino, e rapidamente la Perestrojka incominciava a sfuggire dalle mani di Gorbačëv. Il loro mondo si stava sfaldando, e con esso anche i motivi che li avevano condotti lì.

Arrivò la primavera, e le assenze di Zavarov dal campo iniziarono a farsi più frequenti: malesseri, piccoli infortuni, indisposizioni, che subito la stampa italiana derubricò a scuse per non giocare. Lo chiamavano “il malato immaginario”. L’emblema della sua storia in bianconero divenne l’ultima di campionato contro il Lecce, quando segnò il 2-0, non esultò e nessun compagno venne ad abbracciarlo. Zavarov aveva già fatto esplicita richiesta alla dirigenza di essere rimandato a Kiev; nella doppia finale di Coppa UEFA di maggio contro la Fiorentina, Zoff schierò sempre Alejnikov ma mai l’ucraino. I Mondiali estivi, conclusi con una deludente eliminazione al primo turno dell’Unione Sovietica da vice-campione d’Europa in carica, furono la giusta transizione verso l’epilogo dell’esperienza italiana dello Zar detronizzato: arrivato come erede di Platini, si ritrovò a trasferisi proprio al Nancy, la squadra che aveva lanciato le Roi Michel.

L’addio di Zavarov segnò la fine di una breve epoca della Juventus. Il nuovo presidente Vittorio Caissotti di Chiusano, che aveva preso il posto di Boniperti, decise di rivoluzionare la squadra che aveva vinto Coppa Italia e Coppa UEFA e chiuso al quarto posto in Serie A: niente più Zoff, dentro il rivoluzionario Maifredi. E poi Roberto Baggio, Corini, Di Canio, Hässler, Júlio César… Pare che a Maifredi i sovietici piacessero poco, e che non aveva avuto nulla in contrario a lasciare partire Zavarov e pure Alejnikov, nonostante la sua buona stagione in bianconero. Più semplicemente, la verità era che senza l’ucraino anche il bielorusso non aveva più alcun motivo per restare a Torino: la sua nuova destinazione, dato che l’Italia gli piaceva tanto, sarebbe stata Lecce. Ovviamente, lo scoprì solo quando ormai le cose erano già fatte.

Zavarov e Alejnikov sommarono assieme 126 presenze e 16 gol con la Juventus.

Una cosa che spesso si dimentica, di quegli anni pre-sentenza Bosman, è che erano i club ad accordarsi sui trasferimenti, e i giocatori – soprattutto quelli non di primo piano – non avevano granché voce in capitolo. Ancora meno ne avevano gli stranieri, e meno ancora i sovietici: culturalmente impreparati al professionismo, erano trattati come oggetti dai padroni del calcio che prendevano decisioni sopra le loro teste. Se ne parla sempre poco, ma Zavarov e Alejnikov erano arrivati in Italia grazie alla Dimod, una società padovana che di fatto era un precursore delle moderne agenzie di calciatori. L’aveva fondata qualche anno prima Franco Dal Cin, l’ex-direttore generale dell’Udinese che aveva portato in Friuli Zico: non appena aveva colto il cambio di vento a Mosca, aveva mosso i suoi fili internazionali e stretto un accordo con il Ministero dell’Interno sovietico, accordandosi per fare da intermediario nei trasferimenti in Italia di tutti gli atleti – non solo i calciatori – sovietici. La società originale, la Simod, aveva così creato la succursale Dimod, il cui cambio di iniziale andava a simboleggiare il legame con la polisportiva Dinamo.

Era la Dimod, cioè Dal Cin con le autorità sovietiche, a prendere tutte le decisioni. Lei aveva deciso che Zavarov avrebbe guadagnato 2 milioni di lire al mese, una cifra abbastanza misera per la Serie A. Sempre lei aveva stabilito all’ultimo che Alejnikov, già promesso al Genoa, sarebbe stato meglio alla Juventus. E poi che Zavarov, invece di ricongiungersi con Lobanovskiy, avrebbe dovuto continuare a inseguire il mito di Platini andando giocare al Nancy. E che Alejnikov potesse restare in Serie A trasferendosi in Puglia, in una squadra di cui a stento conosceva l’esistenza. I due pionieri dell’Est erano pedine di un gioco più grande di loro, che si svolgeva in un mondo in rivoluzione. Fu questa, la Perestrojka del pallone, e quei due ci restarono in mezzo: Zavarov rimase in Francia fino al ritiro, nel 1998, mentre Alejnkov fece in tempo a visitare il Giappone e la Svezia, prima di appendere gli scarpini al chiodo in un piccolo club calabrese, il Corigliano Schiavonea. L’Ovest, non se lo erano certo immaginato così.

Fonti

ANSALDO Marco E., ‘Zavarov ha fallito ma non tutti i sovietici sono disadattati’, La Repubblica

BIANCHI Fulvio, Ecco a voi il ragazzo di Gorki Park, La Repubblica

BRIZZI Enrico, Ma che ci faccio qui? Gli anni di Zavarov alla Juventus, Il Foglio

“Fummo dei pionieri”: Alejnikov racconta Zavarov, Calcio Sovietico

GRANELLO Licia, Parlaci di te, uomo di Kiev, La Repubblica

MOCCIARO Gaetano, Sergej Alejnikov: “Io, la Juve e il sistema sovietico. Vinsi al primo anno ma fui costretto ad andarmene. Il calcio di oggi è malato, bisogna fare qualcosa”, TuttoJuve

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