Fratello, dove sei?

Mancavano meno di venti minuti: Ardiles gli diede la palla e si buttò in area, pronto a chiudere l’uno-due. Invece Leopoldo Luque stoppò secco di destro, e la palla fece un saltello; quando alzò la testa, i difensori erano ancora troppo lontani: peggio per loro. Un rimbalzo, e poi premette il grilletto del suo piede. Baratelli volò come se l’avessero sparato da un cannone, e toccò terra stordito dal boato del Monumental: Argentina 2 – Francia 1. Con quella vittoria, l’Albiceleste era certa del passaggio del turno, anche se restava da decidere se sarebbe stata prima o seconda nel girone, nella terza sfida con l’Italia. Festeggiarono, e la mattina dopo Luque ricevette la visita dei famigliari – per sapere se si era fatto male seriamente al braccio durante la partita, pensò. Il padre e lo zio si avvicinarono scuri in volto. “Leo, il Chaco ha avuto un incidente e s’è ammazzato”.

La sua mente corse fino a quasi una ventina d’anni prima. Lo scenario non era più il Monumental, ma le granulose strade di Guadalupe Oeste, il loro barrio a Santa Fe a fine anni Cinquanta. Le corse in bicicletta e il gioco del calcio a unirli, Leopoldo il più grande e Oscar, detto Chaco, di quattro anni più piccolo; due maschi in mezzo a tre sorelle femmine. Niente Italia, tre giorni dopo, per Leopoldo Luque: tornava a Santa Fe a portare il feretro del corpo carbonizzato del fratello lungo quelle stesse strade in cui ancora viveva il Chaco, che era rimasto in città e aveva messo su famiglia, mentre lui, Leo, cinque anni prima era andato a Buenos Aires, firmando con il River Plate. Un viaggio nei ricordi di un’Argentina diversa, prima di Videla. Nei luoghi che li avevano visti crescere assieme, tra i campetti da gioco improvvisati e la bottega di zapatero del padre, prima che Leo trovasse un ingaggio nel Gimnasia y Esgrima, a San Salvador de Jujuy.

Di ragazzi come il Chaco ne morivano a grappoli, a quei tempi: svaniti nelle auto della polizia e mai più riemersi. Anche a Santa Fe succedevano quelle cose, ma pochi ne parlavano, meno ancora ci credevano, pochissimi sapevano. Alla famiglia Luque era andata meglio, pur nella tragedia: sapevano che il Chaco si era schiantato con l’auto contro un camion quella mattina, nei pressi di San Isidro, mentre correva lungo la Panamericana per raggiungere Buenos Aires e assistere alla partita del fratello, che gli aveva fatto lasciare da parte dei biglietti. Almeno, i Luque sapevano che fine aveva fatto loro figlio: il loro lutto aveva una direzione. A Leopoldo non dissero nulla, per non distrarlo dalla partita, e tutti concordarono che fece la miglior prestazione della sua carriera. Mentre lui stava di nuovo a Santa Fe, a Buenos Aires si tenne un minuto di silenzio prima di affrontare l’Italia, e il resto della squadra reggeva uno striscione con su scritto “Leopoldo, ti aspettiamo”. Lui non lo sapeva se ce l’avrebbe fatta a tornare.

Ci pensò suo padre a rimettergli ordine in testa, con la sua pragmaticità da vecchio proletario: “Se Dio ha voluto così, Leo, non c’è altro da fare”. Pensò che se gli pareva dura perdere in quel modo un fratello, come doveva essere perdere un figlio? Il 18 giugno, Leopoldo Luque era di nuovo in campo, nella delicata sfida contro il Brasile nel secondo girone: un onesto 0-0, che faceva comodo a entrambi. Tre giorni dopo c’era il Perù, e finì 6-0 per l’Albiceleste, con una sua doppietta: quattro gol nel Mondiale, solo Cubillas e Rensenbrink avevano fatto meglio. La strada proseguiva dritta e senza intoppi.

Luque in azione durante la finale dei Mondiali del 1978, mentre resiste a un tackle dell’olandese Ernie Brandts.

Quel Mondiale, si sa bene come finì: con l’Argentina in festa, e Luque in mezzo ai festeggiamenti, a pensare a suo fratello e non alla coppa. È passato alla storia per cose ben diverse da quelle che si sono viste in campo, quel Mondiale: i sequestri, le torture, gli omicidi, il silenzio. Si disse che erano stati i militari a far vincere il Mondiale all’Argentina, ma Luque quei quattro gol se li era segnati lui; era lui che si era lussato il gomito con la Francia; lui e i suoi compagni avevano vinto quelle partite, non i colonnelli. Quando era morto il Chaco, ed era dovuto tornare a Santa Fe, 500 chilometri più a Nord, la Federazione e il governo non gli avevano dato alcuna mano: aveva dovuto chiedere al capitano Passarella una parte del fondo cassa della squadra per pagarsi il viaggio. Non sembrava proprio che avessero il sostegno del potere politico, buono solo a intestarsi i successi altrui.

All’epoca, Leopoldo Luque doveva avere la stessa vaga opinione del regime che avevano tanti altri suoi connazionali: una disinteressata rassegnazione, in un Paese che aveva vissuto più giunte militari che governi democratici. E così fu fino a una sera del 1979, quando tornando a casa da solo in auto dopo una partita non venne fatto accostare da due uomini che esibirono un distintivo da militari e gli puntarono contro una pistola. Lo minacciarono più volte che gli avrebbero sparato in testa, se non faceva come dicevano. Dopo averlo terrorizzato a dovere, gli portarono via denaro e automobile. Era quella la dura realtà dell’Argentina del suo tempo: potevi anche essere un attaccante del River Plate e un campione del mondo, ma questo non ti metteva al riparo dai militari. Loro facevano quello che gli pareva, con chiunque.

Luque andò comunque dalla polizia e denunciò il furto subito. Gli fecero gentilmente capire che, dato che era lui, avrebbero indagato, ma quasi sicuramente chi lo aveva sequestrato e rapinato era gente in divisa. Due mesi dopo lo vennero a prendere durante un allenamento al Monumental e lo portarono in centrale: da dietro un finto specchio, gli mostrarono alcune persone e lui riconobbe uno dei suoi assalitori. Ma non disse nulla: non era nessuno di quelli, mentì. “Non so perché. Mi venne paura: pensai che sarebbe stato peggio se avessi parlato”. Anche lui aveva udito alcune storie. Mesi prima, durante una tournée col River a Barcellona, aveva incrociato Horacio Guarany, cantante e militante comunista nonché suo concittadino: avevano parlato, e quello gli aveva raccontato delle cose, in merito a quanto accadeva davvero in Argentina. Era legittimo aver paura.

Forse fu proprio l’esperienza del sequestro a fargli pensare che era meglio cambiare aria e lasciare Buenos Aires. In realtà, il vento al River era già mutato: nel 1980, chiudendo solo quinto nel campionato nazionale, il ciclo in panchina di Ángel Labruna poteva ormai dirsi concluso, e il nuovo allenatore Alfredo Di Stéfano voleva rinnovare la squadra, strappando all’Huracán René Houseman e riportando a casa dal Valencia Mario Kempes. Con il ritorno in Argentina del Matador e l’incontenibile ascesa della promessa Ramón Díaz, gli spazi in attacco sarebbero stati alquanto stretti. Così a 32 anni Luque tornò a casa, all’Unión de Santa Fe in cui aveva dato i primi calci al pallone; girovagò un po’, toccando anche Messico e Brasile, ma poi sempre tornando in Argentina. Giocò ancora abbastanza a lungo da vederla cadere, la dittatura.

Leopoldo Jacinto Luque ha vestito la maglia del River Plate tra il 1975 e il 1980, durante il miglior periodo della sua carriera. Con la Banda ha vinto due campionati nazionali e tre campionati metropolitani.

Il dato puramente documentaristico ci dice che si ritirò nel 1984, e che due anni dopo prese a fare l’allenatore, guidando varie squadre in patria fino alla fine degli anni Novanta, quando poi si concesse alcune esperienze in Messico, Ecuador e Cile, prima di chiudere anche quella carriera nel 2003. Ebbe il tempo per pensare, per riflettere su quegli anni terribili che aveva attraversato il suo Paese, mentre pian piano venivano fuori tutte quelle storie che fino a poco prima parevano così irreali. Stavano emergendo anche grazie a quelle donne infaticabili che per anni avevano manifestato per chiedere la verità sui loro figli e suoi loro mariti. Luque ascoltò, e le contattò anche, per parlare di cosa era successo in quell’Argentina che, mentre lui vinceva i Mondiali, massacrava i suoi stessi figli.

Nel 2008, a trent’anni dalla conquista del trofeo, lui, René Houseman e Ricardo Villa parteciparono alla grande manifestazione delle Madri di Plaza de Mayo a Buenos Aires, reggendo un cartello con sopra i volti di numerosi desaparecidos ancora senza giustizia. Si era detto a lungo che quell’Albiceleste era stata la squadra del regime, e a Luque quella storia non era mai andata giù, non dopo quello che aveva passato. Partecipò a quella manifestazione anche per ricordare questo: loro, il Mondiale, lo avevano vinto per la gente, non per i militari. “Sapete cosa significa perdere qualcuno e non sapere dove sta? Io ho perso un fratello, durante il Mondiale, però sapevo che era morto, ho potuto seppellirlo. Queste donne non sapevano dove fossero i loro figli. Per questo siamo venuti a rendere loro omaggio”.

Fonti

El drama de Leopoldo Jacinto Luque en pleno Mundial 1978: se mató su hermano, no le contaron y fue héroe, Tyc Sports

Leopoldo Luque: “No cambio la vida de mi hermano por el Mundial”, Marca

MARAÑÓN ALARCIA Maria, Leopoldo Jacinto Luque, el goleador que desafió a la dictadura, As

VERRINA Mariano, Murió Leopoldo Jacinto Luque: el día que reveló que fue secuestrado por la dictadura, Clarín

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