Il conflitto israelo-palestinese e il calcio – Parte 2

Continua dalla prima parte

Il debutto, nel 1963, di Hassan Bastuni era un evento destinato a fare storia: non perché come calciatore fosse particolarmente promettente, ma perché era un arabo che vestiva la maglia di una nota squadra di prima divisione, il Maccabi Haifa. I primi decenni di vita dello Stato di Israele sono stati segnati, nonostante i conflitti con il mondo arabo, da vari tentativi di integrazione sostenuti dalla sinistra, al governo interrottamente dal 1948 grazie al partito Mapai, che dal 1968 si trasformerà nel Partito Laburista. E tra i primi deputati della Knesset eletti con Mapai negli anni Cinquanta c’era anche Rostam Bastuni, primo politico arabo-israeliano e zio di Hassan Bastuni.

La guerra del 1948 aveva lasciato la Palestina in ginocchio: gli arabi avevano perso parte del loro territorio, numerosi profughi avevano lasciato il paese o erano rimasti a vivere all’interno dei confini israeliani, ma soprattutto le strutture politiche e sportive erano di fatto scomparse. La Palestina sparì quasi del tutto dal mondo del calcio, mentre Israele partecipava alla fondazione della AFC, la confederazione asiatica, e prendeva parte alle qualificazioni ai Mondiali fin dal 1950. La Liga ha’Al era dominata, in questa prima fase, dalla corazzata Maccabi Tel Aviv, il club che di fatto incarnava lo spirito sionista che aveva portato alla nascita dello Stato, e che si sentiva un po’ il simbolo di Israele (anche perché nelle sue fila c’erano i due migliori calciatori del paese, Yehoshua Glazer, autore di una doppietta nelle qualificazioni ai Mondiali del 1950 contro la Jugoslavia, e Yosef Merimovich).

Ma dal 1955 i rapporti di forze nel campionato si ribaltarono, vedendo emergere gli Hapoel, in particolare l’Hapoel Petah Tiqwa, che ruppe il dominio del Maccabi e nel decennio successivo vinse sei titoli nazionali, di cui cinque consecutivi, trascinato dai gol di Nahum Stelmach. L’ascesa dei club dell’Histadrut va di pari passo con il consolidarsi del Mapai al governo, ma anche con il progressivo sviluppo del calcio tra gli arabi-israeliani: i cambiamenti sociali degli anni Cinquanta portarono a una rapida proletarizzazione dei cittadini arabi, che per tanto si avvicinarono sempre più al sindacato e alle sue attività sportive; l’Histadrut si aprì agli arabi e iniziò a sostenere la diffusione del calcio tra di essi. Il che non evitava, però, che le tensioni entiche affiorassero nuovamente: nel 1964, i giocatori dell’Hapoel Bnei Nazareth (il più forte club arabo del periodo, che proprio quell’anno venne promosso in seconda divisione) venivano aggrediti dai tifosi dell’Hapoel Migdal ha-Emek (la squadra ebraica di un villaggio vicino).

In questi anni, Israele raggiungeva il suo apice come Nazionale: dopo le due finali perse contro la Corea del Sud nel 1956 e nel 1960, vinceva finalmente la Coppa d’Asia nel 1964, trascinata dalle reti della 19enne promessa del Maccabi Netanya Mordechai Spiegler, un ebreo russo nato alla fine della guerra. Se Spiegler si affermò presto come il primo idolo dei tifosi ebrei-israeliani, i fan arabi parteggiavano soprattutto per Ali Othman, che nel 1967, a soli 15 anni, esordiva nell’Hapoel Jerusalem e diventava ben presto un simbolo nazionale per i palestinesi.

Mordechai Spiegler, in azione nel 1974 con la maglia del Paris Saint-Germain, con cui segnò 10 reti in 13 partite. Oggi è ricordato come il più grande calciatore israeliano della storia.

Non tutti i palestinesi, però, vedevano di buon occhio questo processo: i nazionalisti ritenevano che Israele stesse cercando di assimilarli, diluendo l’identità palestinese in quella israeliana, proposta come modello nazionale neutro ma in realtà aderente in tutto e per tutto all’identità ebraica. Nel tentativo di rompere il monopolio dell’Histadrut sullo sport arabo nella regione, il movimento politico Al-‘Ard iniziò a creare società sportive indipendenti all’interno del villaggi e delle comunità arabe, così da sfuggire al controllo del governo ebraico. Fino a che, nel 1964, quest’ultimo non lo sciolse e ne arrestò o esiliò i componenti.

In questo contesto, la decisione dei Maccabi di creare a loro volta club di calcio nei villaggi arabi per iniziare a rivaleggiare con gli Hapoel, diede il tocco finale all’ascesa della prima generazione di calciatori arabi-israeliani, che iniziarono a giocare in Liga ha’Al all’inizio degli anni Settanta: Rifaat Turk esordì nel 1972 nell’Hapoel Tel Aviv, e in breve divenne uno dei centrocampisti più apprezzati del paese, arrivando a esordire in Nazionale nel giro di quattro anni (dopo il ritiro sarà poi eletto, nel 2003, sindaco di Tel Aviv per il partito di sinistra Meretz); nello stesso periodo debuttarono anche la punta Zahi Armeli, bomber del Maccabi Haifa negli anni Ottanta e pure lui giocatore della Nazionale, e Azmi Nassar, attaccante del Maccabi Ahi Nazareth. Ma era in generale tutto il calcio israeliano a vivere un periodo particolarmente florido, con la storica qualificazione ai Mondiali del 1970 (dove Israele strapperà due pareggi a Svezia e Italia) e le prime stelle internazionali: nel 1972, il mediano Shmuel Rosenthal si trasferì al Borussia Mönchengladbach, dove vincerà una Coppa di Germania, mentre Mordechai Spiegler andò al Paris FC e un anno dopo approdò al Paris Saint-Germain; nel 1973, Giora Spiegel iniziò un’ottima carriera in Francia che lo vedrà vestire le maglie di Strasburgo e Lione.

È proprio in mezzo a questo clima di euforia sportiva che arrivò la strage di Monaco di Baviera del 1972. Le relazioni tra Israele e la principale forza politica palestinese Al-Fatah, accusata di appoggiare il gruppo terroristico Settembre Nero, precipitarono, e l’ennesima guerra (quella dello Yom Kippur) non fece che peggiorare le cose. La società israeliana diventò sempre più ostile e diffidente verso gli arabi, e si spostò gradualmente a destra: nel 1969 i laburisti di Golda Meir superavano il 46%, con più del doppio dei voti della destra; quattro anni dopo, scendevano al 39%, mentre il Likud di Menachem Begin (erede dell’Etzel) raggiungeva il suo massimo storico al 30%. Alle elezioni del 1977, per la prima volta la destra nazionalista diveniva il primo partito. Le continue tensioni politiche con i paesi arabi per la questione palestinese avevano inoltre portato, tre anni prima, alla clamorosa esclusione di Israele dalla AFC.

Che il clima fosse cambiato sembrava essere chiaro anche dall’equilibrio delle forze in campionato, dove all’improvviso era risorto proprio il Beitar Jerusalem, che nel 1972 raggiungeva un sorprendente secondo posto dietro il Maccabi Tel Aviv, iniziando il proprio periodo d’oro, che culminerà nel primo titolo nazionale vinto nel 1987. Gli anni Ottanta sono stati il decennio della trasformazione del calcio in un business moderno: i club vennero privatizzati e nomi come Maccabi o Hapoel persero la loro connotazione politica; furono solamente i tifosi a mantenerla in vita, e se quelli dell’Hapoel Tel Aviv preservarono una forte identità di sinistra, i fan del Beitar Jerusalem difesero quella di estrema destra della loro squadra.

Rifaat Turk con la maglia dell’Hapoel Tel Aviv, con cui ha giocato dal 1972 al 1984, vincendo un campionato, due Coppe d’Israele e una Supercoppa. In totale, ha giocato 34 partite in Nazionale.

Quando, nel 1996, l’Hapoel Tayibe conquistò la promozione nella Liga ha’Al, si trattò della prima squadra di una città araba (che per di più sorge sul confine con la Cisgiordania) a riuscire nell’impresa. Nello stesso anno, nel Nord del paese veniva fondato il Bnei Sakhnin, nato dalla fusione tra il Maccabi e l’Hapoel locali: Sakhnin è una cittadina a maggioranza araba, e il suo club ha scelto fin da subito una politica di apertura a entrambe le etnie che lo ha reso abbastanza noto in Israele. Nel 2004, il Bnei Sakhnin ha conquistato la coppa nazionale con un netto 4-1 sull’Hapoel Haifa divenendo la prima squadra araba a conquistare un trofeo in Israele e, in virtù di essa, anche la prima a prendere parte a una competizione europea.

Solo un anno dopo, quasi fosse una risposta all’emergere degli arabi nel calcio israeliano, all’interno della curva del Beitar Jerusalem si formò La Familia, un gruppo ultras di estrema destra capace di diventare in poco tempo famigerato sia dentro che fuori dai confini nazionali. Nel dicembre 2007, Beitar e Bnei Sakhnin s’incrociarono in una semifinale di coppa, e La Familia corredò la partita con cori anti-arabi; la IFA, la Federcalcio israeliana, punì il Beitar facendogli giocare il ritorno senza pubblico, e gli ultras diedero fuoco agli uffici federali a Ramat Gan, minacciando di morte il presidente. Da allora, la loro fama di tifoseria violenta e razzista non ha fatto che crescere, accompagnata dai cori che augurano la morte agli arabi. L’episodio più celebre che li riguarda è senza dubbio la protesta contro gli acquisti, nel 2013, di Dzhabrail Kadiyev e Zaur Sadayev, due calciatori ceceni di religione musulmana: all’annuncio, La Familia appiccò un incendio agli uffici del Beitar, costringendo il club a rescindere dopo poche partite il contratto dei giocatori.

Così come la questione israelo-palestinese è ben lontana dal dirsi risolta a livello politico, la stessa cosa vale a livello calcistico: la differenza è che qui si è più bravi a tener nascoste le fratture. Ma quando nel 1998 Walid Badir, difensore arabo dell’Hapoel Petah Tiqwa, venne convocato in Nazionale, esse affiorarono in maniera innegabile: il nonno di Badir era stato assassinato dagli israeliani nel 1956 nel massacro di Kafr Qasim, e quando fu chiesto di lui al nipote calciatore questi rispose che era una storia del passato di cui in famiglia “non si parla mai”. All’interno della comunità palestinese, Badir venne visto come il simbolo di quegli arabi completamente israelizzati, che avevano completamente rinunciato alla propria identità nazionale. Praticamente l’opposto di Munas Dabbur, centravanti dell’Hoffenheim (primo arabo-israeliano a giocare in un grande campionato europeo), che durante gli scontri del 2021 ha postato sui social un messaggio molto critico verso il governo, suscitando forti polemiche in quanto si tratta di un noto giocatore della Nazionale.

Dal 1994, la Federcalcio israeliana è ufficialmente affiliata alla UEFA, e i suoi club gareggiano regolarmente nelle coppe assieme a quelli europei; contemporaneamente, la Lega Araba aveva sospeso l’embargo verso Israele e portato alla firma di uno storico accordo di pace tra lo Stato ebraico e la Giordania. Quattro anni più tardi, la Federcalcio palestinese veniva finalmente riconosciuta dalla FIFA, affiliandosi però alla confederazione asiatica e iniziando a competere nelle qualificazioni ai Mondiali e alla Coppa d’Asia (alla cui fase finale ha preso parte per la prima volta nel 2015). Ma poche cose raccontano la situazione tra Israele e Palestina come quello che avvenne nel 2000, quando in una manciata di mesi si passò dalla possibilità di firmare una accordo di pace alla Seconda Intifada. E da allora, la storia prosegue.

Uno striscione della Familia raffigurante il presidente americano Donald Trump, che nel 2017 aveva annunciato di voler spostare l’ambasciata USA a Gerusalemme, rivendicando la città contesa come vera capitale di Israele.

Fonti

COOK Jonathan, Israeli football, racism and politics: The ugly side of the beautiful game, The National News

SOREK Tamir, Palestinian Nationalism Has Left the Field: A Shortened History of Arab Soccer in Israel, International Journal fo Middle East Studies

The Politics of Israeli Soccer: A Guide for the Perplexed, Progressive Israel

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