Chissà in futuro come verranno raccontati i due giorni che avrebbero dovuto cambiare il mondo (del calcio) e invece no. Chissà se verranno ricordati, soprattutto. Anche perché il fallimento della Superlega, tanto quanto la sua eventuale nascita, non ha causato alcun significativo mutamento allo stato del calcio europeo. Anzi, mai rivoluzione o controrivoluzione sono state così avare di conseguenze concrete.
L’opinione pubblica si è spaccata in un vuoto bisticcio tra due posizioni assurde, manovrata da uomini di potere che, da una parte e dall’altra, hanno cercato di monopolizzare parole vuote come “valori” e “tifosi”. Questi ultimi in particolare sono stati strumentalizzati per portare acqua al mulino dell’una o dell’altra parte, e alla fine hanno prevalso quelli ancora legati alla protesta di piazza – per quanto qualcuno, in altro contesto, la bollerebbe come “novecentesca” – invece che a quella sui social, testimoniando che i cori fanno ancora più effetto degli hashtag.
Si è detto molto del ruolo dei tifosi nel corso preso dal fiume degli eventi. Sì, un ruolo l’anno avuto, sicuramente molto visibile e in un certo qual modo determinante, ma diciamoci la verità: i tifosi (inglesi, perché nell’Europa continentale la reazione è stata ben più mite) sono stati costretti a prendere posizione contro il male peggiore, finendo loro malgrado dalla parte della barricata in cui stavano soggetti che di certo non si sono mai più di tanto interessati a loro. Bello che il presidente UEFA Čeferin dica di voler difendere i diritti dei fan e il loro modo di intendere il calcio, o di stare dalla parte di giocatori e allenatori; se ne ricordasse anche quando si protesta contro i Mondiali in Qatar o contro l’eccesso di partite che mette a rischio la salute dei calciatori.
La narrazione romantica sulla forza dei tifosi, purtroppo, ha un qualche senso solo se limitata all’ambito inglese: se consideriamo la reazione complessiva a livello europeo, anche solo limitandola alle tre nazioni direttamente coinvolte dalla Superlega, il fronte dei tifosi si è dimostrato ampiamente disunito. Ed è proprio su questa frammentazione che la UEFA e la FIFA campano da anni, alimentando questa progressiva trasformazione del tifoso in utente, sempre più passivo e distante. L’ultimo anno di stadi forzatamente chiusi ha influito negativamente sul ruolo dei supporters più che sui bilanci dei club.

Già, perché anche qui è necessaria un’opera di realismo: i debiti e la crisi si sono abbattuti sulle big europee da ben prima della pandemia. Florentino Pérez che si lamenta dei costi divenuti insostenibili, dovrebbe guardarsi alle spalle: è lui che ha speso 115 milioni per Hazard e gliene dà 15 all’anno per non giocare praticamente mai; 7 all’anno a Isco e 5 a Militão per fare le comparse nel Real Madrid. È sempre lui che, al suo ritorno alla carica presidenziale nel 2009, gettò sul mercato 230 milioni per acquistare Cristiano Ronaldo, Kaká, Karim Benzema e Xabi Alonso.
Se oggi Galacticos è sinonimo di Real Madrid, è perché durante la sua prima gestione ha iniziato a spendere cifre folli per portare in squadra i migliori giocatori del mondo (Figo, Zidane, Ronaldo, Beckham). A un certo punto, preso da delirio di onnipotenza, decise che poteva spendere vagonate di milioni in attaccanti e andare al risparmio sui difensori, e che questo sarebbe bastato a vincere. La chiamava la tattica degli Zidanes y Pavónes: nel giro di un paio di stagioni, il Real si ritrovò con un monte ingaggi fuori controllo e una squadra senza capo né coda, triturando un allenatore dopo l’altro.
Se c’è proprio una persona che farebbe meglio a tacere sul tema dei costi esagerati del calcio odierno è innanzitutto Florentino Pérez, che ne è stato uno dei principali responsabili. E non è da meno Manṣūr bin Zāyed Āl Nahyān, il proprietario del Manchester City, altra corazzata economica aggregatasi alla Superlega dopo essere approdata nel calcio trasformando a suon di milioni un club di medio livello in uno dei più forti al mondo, pagando cife che nessun altro poteva permettersi e alzando l’asticella di quanto sia lecito spendere per un giocatore. Non dovrebbe parlare l’Atlético Madrid, che ogni stagione versa 22 milioni sul conto di un allenatore che non ha mai vinto una Champions League. Non dovrebbe parlare l’Inter, che invece ne dà 13,5 ad Antonio Conte, che in Champions non è mai andato oltre i quarti e per ben tre volte è uscito ai gironi. E non dovrebbe parlare neppure il Milan, che un paio di giorni dopo il tramonto della Superlega ha annunciato il rinnovo a 7 milioni l’anno di Ibrahimović (40 anni ad ottobre), nella speranza di convincere Mino Raiola a concedere uno sconto sul rinnovo di Donnarumma.
Paradossalmente, viene quasi da compiacersi perché almeno il Paris Saint-Germain se n’è rimasto subito fuori dal progetto, risparmiandoci un altro carico di ipocrisia. Nasser Al-Khelaïfi è il vero vincitore della guerra della Superlega: contro ogni aspettativa, ha tenuto il club più ricco del mondo fuori dal progetto, di fatto delegittimandolo, e a golpe fallito è stato ricompensato con la nomina a presidente dell’ECA, rilevando il posto del “ribelle” Andrea Agnelli. Tutta questa vicenda ha il retrogusto della grande battaglia per il dominio economico-politico dello sport tra il vecchio capitalismo occidentale e l’emergente capitalismo arabo, con ques’ultimo che sembra aver messo in chiaro chi è che sta cavalcando l’onda e chi invece rischiando di affogare. Non a caso, a innescare l’effetto dominio è stato il ritiro del Manchester City.

Qualche tempo fa, su questo sito si parlava di come il calcio europeo sia ormai divenuto il terreno di risoluzione dei conflitti geopolitici tra i paesi del Golfo Persico. Ebbene, oggi si può dire senza timore di smentita che questo conflitto lo sta vincendo il Qatar. Un anno fa, il PSG è divenuta la prima società di proprietà araba a disputare la finale di Champions League, e quest’anno punta a addirittura a vincerla (sia tra i maschi che tra le femmine, peraltro). Nel 2022 diverrà il primo paese arabo a ospitare i Mondiali, evento che ha imposto una storica mutazione del calendario tradizionale del calcio, che si interromperà tra novembre e dicembre. Nel 2019, il Qatar ha vinto la Coppa d’Asia, mettendosi alle spalle rivali ben più quotate come Arabia Saudita (sconfitta 2-0 nel girone) ed Emirati Arabi Uniti, padroni di casa travolti 4-0 in semifinale.
Ma la vera dimostrazione di forza politica, prima di questa vicenda della Superlega, il Qatar l’ha fornita la scorsa estate facendo saltare l’acquisizione del Newcastle da parte del fondo sovrano dell’Arabia Saudita. Anche allora c’erano state importanti proteste dei tifosi e delle associazioni dei diritti umani, ma la vera spallata decisiva per fallire la trattativa la diede la Premier League: i sauditi sono infatti accusati da BeIN Media Group, il potente network sportivo qatariota, di piratare il suo segnale, trasmettendo illegalmente le partite del campionato inglese, per il quale BeIN ha i diritti esclusivi nel Golfo. Il campionato inglese ha dovuto fare una scelta, e ha scelto Doha contro Riyad.
Il presidente di BeIN è proprio Al-Khelaïfi, che quindi adesso è a capo di una delle società più forti d’Europa, presiede dell’associazione dei club del continente, siede nel board della UEFA, è il deus-ex-machina dietro i Mondiali 2022, ed è anche l’uomo che controlla i ricchissimi diritti tv del calcio europeo nel mondo arabo. Il che chiarisce anche perché si è messo subito contro la Superlega: non solo per i suoi stretti legami con UEFA e FIFA, ma anche perché il suo network non poteva accettare una svalutazione della Champions League e dei campionati nazionali. Ormai, sembra abbastanza chiaro che non si muove foglia, nel calcio europeo, senza che Nasser Al-Khelaïfi non voglia.
Sicuramente i tifosi che esultano per il fallimento della Superlega stanno celebrando una vittoria di Pirro, specialmente dopo che la UEFA ha annunciato la nuova Champions League, riformata in una direzione che piace più ai grandi club e che conferma che il vero problema della sostenibilità del sistema sarà rimandato alla prossima crisi. Ma altrettanto sicuramente quelli che si affannano nel chiedere le dimissioni di Čeferin non hanno capito verso che direzione pendono realmente, adesso, gli equilibri del calcio.
2 pensieri riguardo “Ma ve la ricordate la Superlega?”