La storia del calcio negli Stati Uniti è uno degli argomenti meno trattati e conosciuti dell’intera storia del football, ed è opinione comune che negli USA il pallone all’inglese sia un fenomeno assolutamente recente, che ha visto la sua alba negli anni Settanta con l’arrivo di Pelé e di altre stelle nell’allora NASL. Chiaramente le cose non stanno così, e potete scoprirlo leggendo un vecchio articolo su Billy Gonsalves – il primo grande fuoriclasse del soccer – oppure ascoltando l’episodio del podcast dedicato alle origini del calcio negli Stati Uniti. Ma anche sollevando un po’ della polvere della Storia da quest’epoca pionieristica, una vicenda rischia di restare comunque ancora poco nota: quando i comunisti americani decisero di riappropriarsi del calcio, come strumento di lotta anticapitalista.
Per inquadrare bene questa storia, occorre avere ben presente il contesto degli Stati Uniti della seconda metà degli anni Venti. Dopo alcuni tentativi infruttuosi di lanciare il calcio come sport professionistico alla fine dell’Ottocento, nel primo dopoguerra la strada aveva finalmente iniziato a farsi propizia per un’affermazione del soccer in Nord America: i soldati di ritorno dal fronte – dove avevano imparato a giocare nelle retrovie assieme a francesi, belgi e britannici – avevano dato nuova spinta al calcio, e nel 1921 era nata la American Soccer League, un campionato professionistico con salari che poche squadre al mondo potevano eguagliare. Questo aveva fatto sì che l’ASL iniziasse fin da subito ad attirare giocatori europei anche di buon livello, come Harold Brittain del Chelsea, Wattie Jackson del Kilmarnock, i nazionali svedesi Caleb Schylander ed Herbert Carlsson, l’ex-bandiera del Newcastle William Hibbert, gli ungheresi Béla Guttmann e József Eisenhoffer, o gli austriaci Moritz Häusler e Viktor Hierländer.
Nel giro di pochi anni, il soccer si era trasformato da sport amatoriale e praticato essenzialmente dagli operai scozzesi, a sport di massa (secondo solo al baseball per bacino di pubblico) con stelle internazionali e attorno al quale giravano tanti soldi. Non deve sorprendere, allora, il CPUSA – uno dei primi partiti comunisti fondati al mondo, prima che in Italia, Francia e Regno Unito – vedesse l’ASL come un simbolo del capitalismo sfrenato che voleva contaminare la cultura popolare, trasformandola in uno strumento di profitto. Una delle voci più attente sul fronte della politicizzazione dello sport era Emil Austin, leader comunista di New York, che nel 1928 teneva un discorso di fuoco contro la Federcalcio USFA e la lega ASL, rivendicando l’importanza di un campionato di calcio amatoriale e proletario. Come quello che il CPUSA aveva fondato proprio un anno prima, la Metropolitan Worker’s Soccer League: di fatto, il primo campionato al mondo di quello che oggi chiameremmo “calcio popolare”, pensato proprio come risposta al calcio capitalista dei grandi club.
Il momento non poteva essere più propizio per un discorso simile: dopo appena un anno di attività, la MWSL era già in grado di organizzare tre diverse categorie con 32 squadre partecipanti, mentre per contro la situazione del calcio professionistico era più che mai delicata. L’ASL aveva deciso che i suoi club avrebbero disertato la National Challenge Cup, la coppa nazionale organizzata dalla USFA, causando una rottura tra le due organizzazioni, in una sorta di versione ante litteram del caso Superlega: la Federcalcio si era appellata alla FIFA perché squalificasse l’ASL, e aveva così dato vita a un campionato a parte. La frattura aveva causato molte polemiche tra i tifosi, divisi tra una fazione e l’altra e in generale delusi dallo stato del calcio professionistico americano. Austin era stato uno dei più critici analisti della Soccer Wars di fine anni Venti, che per lui incarnava le contraddizioni del calcio capitalista, la cui dedizione al profitto economico non poteva che condurlo in una spirale autodistruttiva. Aveva pubblicato anche un articolo a riguardo, che qualche anno dopo venne inserito in un ampio report della commissione del Congresso incaricata di indagare sulla propaganda comunista negli USA.
L’iniziativa americana, per quanto avanguardista, non era comunque del tutto fuori dagli schemi: negli anni Venti, i movimenti di sinistra credevano fermamente nell’utilizzo dello sport come strumento rivoluzionario. Nel 1921, in Unione Sovietica era stata fondata l’Internazionale dello Sport Rosso (o Red Sports International), una sorta di alternativa comunista al CIO, che infatti nel 1928 aveva organizzato le prime edizioni delle Spartachiadi, le Olimpiadi comuniste, a Mosca in estate e a Oslo in inverno. Il CPUSA era stato uno dei primi partiti comunisti a cogliere al volo le potenzialità dello sport per la propaganda di classe, e già nel 1924 a Chicago – una delle città in cui il partito era maggiormente radicato – nasceva il primo club di calcio comunista degli Stati Uniti, all’interno della comunità di operai immigrati dalla Germania e dall’Ungheria: il Karl Liebknecht Workers.
Di lì a poco, erano sorte altre squadre in città, permettendo così di organizzare un torneo locale, e la stessa cosa era rapidamente avvenuta a Detroit, Cleveland e New York. L’idea di unire tutti questi club e tornei in un’unica grande lega nazionale era sembrata legittima, e nel 1927 la prima MWSL – organizzata dalla Workers’ Soccer Association, la Federcalcio comunista americana – aveva visto la luce con ben quindici squadre iscritte. Come abbiamo visto, tempo un anno e il numero sarebbe quasi raddoppiato, permettendo ad Austin di celebrare il successo della MWSL e la scelta di tanti promettenti calciatori (l’età media era bassissima, per alcune squadre anche sotto i 20 anni) di rivolgersi alla lega comunista piuttosto che al calcio della USFA.
Non è chiaro, a causa delle fonti risicate, quanti giovani calciatori effettivamente scelsero la MWSC al posto della ASL, ma quelli che lo fecero presero una decisione esplicitamente di classe. Giocare per il campionato proletario significava non venire pagati come sportivi, ma anzi dover pagare per giocare, anche se tariffe irrisorie: ogni club doveva corrispondere alla WSA una tassa d’iscrizione di 5 dollari, suddivisa tra i vari giocatori, ma questi fondi andavano tutti nell’organizzazione del torneo, dall’affitto e gestione delle strutture all’ingaggio degli arbitri (cosa non semplice, visto che la USFA ostacolava i suoi arbitri che intendevano lavorare coi comunisti; cosa che spinse la WSA a organizzare delle piccole scuole di arbitraggio con il supporto dei club). Altri fondi arrivavano ovviamente dai biglietti allo stadio e, soprattutto, dalla vendita degli opuscoli delle partite, che mescolavano informazioni sulle squadre e il campionato con vera e propria propaganda politica.
Sappiamo molto poco anche di chi fossero esattamente i calciatori che scendevano in campo, perché spesso i nomi non erano riportati nemmeno nei resoconti cronachistici pubblicati sul The Young Worker, il giornale del partito che si occupa di seguire lo sport. Quello che sappiamo è che ancor più che nella ASL il calcio comunista statunitense era dominato dagli immigrati di prima o seconda generazione: tedeschi, austriaci, ovviamente tantissimi ungheresi (come Lester Balog, che oltre al calcio si dedicava anche al cinema e alla fotografia), e poi russi, italiani, costaricani, messicani, filippini… Ma la cosa più importante è che nella MWSL giocavano anche gli afroamericani, un evento praticamente impossibile negli Stati Uniti dominati dalle leggi Jim Crow, che imponevano una netta divisione sociale tra bianchi e neri. La lega di calcio comunista rappresentò quindi uno dei primissimi esperimenti antirazzisti dello sport americano.
Politica fuori e dentro il campo, si diceva. Se da un lato la WSA aveva provato più volte a invitare la Nazionale sovietica per un’amichevole negli Stati Uniti (scontrandosi sempre con l’opposizione della autorità americane), dall’altro venivano organizzate partite con scopi benefici e politici: raccolte fondi per gli scioperi dei minatori o per sostenere le persone sotto sfratto, match di supporto a grandi manifestazioni contro la disoccupazione, o come nel 1933, quando alcuni club si affrontarono in un mini-torneo a sei a New York per sostenere la campagna elettorale per la carica di sindaco del giornalista Robert Minor, il candidato del CPUSA.
Il ruolo della WSA divenne particolarmente importante, per la storia del soccer, dopo il 1929, quando il crollo di Wall Street diede il via alla Grande Depressione, mandando in crisi i grandi club di calcio: incapaci di mantenere il livello di spesa del decennio precedente e privati degli sponsor, molti dichiararono fallimento. Avendo una struttura economica più equilibrata e offrendo biglietti molto più economici, la lega proletaria riuscì ad attutire l’impatto della crisi, e anzi rafforzare la sua posizione nel calcio nazionale. Riuscì a farlo pur diminuendo il costo d’iscrizione al campionato, che da 5 dollari per squadra scese a 2, così da andare incontro ai club e ai loro calciatori. Al punto che, nel 1932, la Labor Sport Union – l’organizzazione degli sport proletari statunitense – si sentiva così forte da organizzare una contro-Olimpiade a Chicago, in opposizione a quella che si teneva ufficialmente a Los Angeles.

Un’Olimpiade alternativa e politica, nella quale invitare l’Unione Sovietica, fino a quel momento esclusa dai tornei ufficiali; in cui dare spazio agli atleti afroamericani e protestare contro l’incarcerazione di Thomas Mooney, attivista socialista ingiustamente condannato al carcere nel 1916 per un attentato a San Francisco. E ovviamente, un’occasione per difendere il calcio come sport olimpico, visto che ai Giochi di Los Angeles, a causa dei contrasti tra FIFA e CIO, il soccer era rimasto escluso dalle discipline partecipanti. La WSA voleva così porsi come autentica incarnazione del calcio negli Stati Uniti, inteso come passione sportiva pura, al di là delle ipocrisie dello sport capitalista.
Nel 1935, l’esperienza pionieristica della MWSL si avviò alla sua conclusione: a Mosca, l’aria stava cambiando, e la romantica idea di una rivoluzione internazionale, da ottenere attraverso lo sport o altri mezzi, stava scemando per lasciare spazio alla paranoia delle Grandi Purghe. La LSU, sotto cui stava il calcio comunista americano, si fuse con altre organizzazioni sportive sindacali, formando la Workers’ Sport League of America: un’associazione in cui il calcio aveva molto meno spazio, e in cui le questioni sindacali erano predominanti rispetto alla dimensione puramente ideologica del passato. Per un breve periodo, la MWSL aveva incarnato però un’idea di calcio completamente antitetica rispetto a quella ormai affermatasi in tutto il mondo, e che solo negli ultimi anni sta ricominciando ad affacciarsi, grazie alla crescita delle piccole società di calcio popolare. Mentre il soccer andava sfaldandosi, distrutto dalla crisi del ’29 e dalle proprie contraddizioni, già denunciate nel 1928 da Emil Austin, il campionato comunista aveva contribuito a mantenere il più possibile in vita il calcio tra le fasce più povere della popolazione, quei lavoratori immigrati rimasti ai margini della grande società statunitense. Questo è stato il suo più grande merito: lottare per un’idea di sport aperta a tutti.
Foto di copertina: il Karl Liebknecht Branch di Chicago, in maglia rossa con stella rossa sul petto. Fonte: The Young Worker.
Fonti
-BUNK Brian D., From Football to Soccer: The Early History of the Beautiful Game in the United States, University of Illinois Press
-LOGAN Gabe, C’mon, You Reds. The U.S. Communist Party’s Workers’ Soccer Association, 1927-1935, University of Illinois Press