Era il maggio 2002: una splendida volée di Zinedine Zidane portava il Real Madrid a vincere la sua nona Champions League, la terza in cinque anni; il più grande Real dai tempi di Di Stefano e Puskas. Nel frattempo, la stagione precedente, Vincente Del Bosque aveva fatto esordire un ventenne difensore centrale di nome Francisco Pavón, un prodotto della Fabrica, il settore giovanile madrileno, che mirava a sostituire l’ormai trentaquattrenne leggenda Fernando Hierro. Si parlava, all’epoca, di “Zidanes y Pavónes”.
L’espressione era opera del presidente del club, Florentino Perez, un imprenditore che era stato eletto al vertice della società due anni prima, e aveva portato ai Blancos due fenomeni come Luis Figo e lo stesso Zidane. Perez, grande ammiratore del Real degli anni Cinquanta, puntava a replicare quel mito in tutto e per tutto, e la sua nuova filosofia manageriale conciliava l’ingaggio di fuoriclasse assoluti in attacco – gli Zidanes, emuli dei fenomeni d’epoca classica come Di Stefano, Puskas e Kopa – e l’inserimento di giovani prodotti del vivaio per coprire i ruoli difensivi – i Pavónes, eredi ideali degli onesti ma poco acclamati gregari del Grande Real come Miguel Muñoz e Luis Del Sol. Ovvero, spendere milioni di euro per i giocatori che eccitano i tifosi e fanno vendere abbonamenti e magliette, e completare la squadra a costo zero con giovani promettenti nel settore meno affascinante del gioco, ma che spesso risulta decisivo per vincere le partite. Quell’estate, mentre si svolgevano i Mondiali asiatici, Perez trattava con l’Inter l’acquisto, per 45 milioni, dell’attaccante brasiliano Ronaldo, l’ultimo tassello dei suoi Galacticos.

In realtà, il primo Pavónes non fu Francisco Pavón, ma Iker Casillas, che divenne titolare tra il pali del Real a soli diciotto anni, nel 1999. E fu, ironicamente, l’unico dei Pavónes a rivelarsi un giocatore veramente di alto livello. La filosofia di Florentino Perez, infatti, si rivelò presto fallimentare: già a settembre del 2003, il direttore generale del Real Madrid Jorge Valdano interveniva per difendere la politica societaria, a fronte di una squadra che si rivelava difensivamente piuttosto fragile e con pochi validi ricambi in panchina. Ronaldo trascinò il club al titolo nazionale a suon di reti, spegnendo le polemiche e dando spago a Perez per un nuovo Zidanes da portareal Bernabeu, il centrocampista David Beckham, acquistato per 35 milioni dal Manchester United. Tre anni più tardi, il Real Madrid non aveva ancora vinto la sua decima Champions ed era ormai alla seconda stagione a secco di titoli; proprio Zidane, dopo la fine della presidenza Perez, rivelò alla stampa che la filosofia degli “Zidanes y Pavónes” non aveva fatto altro che spaccare a metà lo spogliatoio.
La raccolta di figurine di Perez era stata più una mossa pubblicitaria che sportiva: il valore di una squadra non è mai la somma aritmetica del valore dei suoi singoli giocatori. Nel corso della sua gestione, Florentino aveva allontanato sistematicamente i migliori elementi del reparto difensivo per sostituirli quasi sempre con giocatori giovani provenienti dalla Fabrica, ma che avevano ancora tutto da dimostrare: ai ritiri per raggiunti limiti di età di Bodo Illgner e Manolo Sanchis, si aggiunsero le cessioni di Aitor Karanka, Ivan Campo, Flávio Conceição, Esteban Cambiasso e, soprattutto, Claude Makélélé, il mediano francese che Perez accusava di non far vendere abbastanza magliette. Makélélé era, in realtà, un eccezionale uomo d’ordine che manteneva da solo gli equilibri di una squadra esageratamente votata all’attacco; la sua cessione al Chelsea per appena 17 milioni di euro, segnò la fine del ciclo del Real Madrid. Zidane e Hierro si schierarono subito in suo favore, ma senza successo, anche perché pure il capitano dei Blancos, quell’estate, avrebbe salutato il club per trasferirsi in Qatar. Vicente Del Bosque aveva lasciato la panchina dopo i dissidi con il presidente e Perez aveva deciso di affidarsi a un tecnico semisconosciuto, che non potesse opporsi alle sue decisioni, il portoghese Carlos Queiroz. Perché anche nel Grande Real degli anni Cinquanta non importava chi allenava: contavano solo i campioni in attacco.
Queiroz era stato il maestro del Portogallo Under-20 che, nel 1989 e nel 1991, aveva vinto il titolo mondiale di categoria, e quindi era l’uomo perfetto per assicurare l’inserimento e la crescita dei vari Pavónes. Tuttavia, era consapevole dei limiti della squadra che gli era stata affidata, e domandò l’acquisto del difensore Gabriel Milito dell’Independiente e di un altro centrocampista, ma la risposta fu negativa. In compenso, il costoso arrivo di Beckham – che Queiroz conosceva bene, essendo stato fino a qualche mese prima il vice di Ferguson allo United – non aveva alcuna utilità tattica, dato che l’ala destra madrilena era già occupata da Figo.

La soluzione a tutti i problemi del tecnico portoghese sarebbero dovuti essere i Pavónes, e in quella stagione Queiroz ne promosse addirittura cinque in prima squadra: Alvaro Mejía e Juanfran in difesa, Jordi Lopez, Borja Fernandez e Antonio Nuñez a centrocampo. Ad essi si aggiungevano i ragazzi che avevano fatto capolino nei tre anni precedenti: il portiere Carlos Sanchez Garcia e i difensori Rubén, Raul Bravo, Oscar Miñambres e, ovviamente, Francisco Pavón. L’unico di loro di cui non si sono sostanzialmente perse le tracce nel calcio che conta è Juanfran, che nel 2006 fu svenduto all’Osasuna e, pochi anni più tardi, sarebbe diventato una colonna dell’Atletico Madrid di Diego Simeone. Al termine della stagione, conclusa al quarto posto nella Liga e ai quarti di finale di Champions League, Queiroz tornò a Manchester; nei suoi restanti due anni di gestione, Perez cambiò cinque allenatori senza più vincere un titolo.
Ma la politica degli “Zidanes y Pavónes” aveva nuociuto anche ad altri livelli. Lo squilibrio della rosa costrinse gli allenatori del Real Madrid a fare di necessità virtù, impiegando fuori ruolo alcuni giocatori: Zidane fu spesso provato come interno di centrocampo, Guti e Beckham come mediani, con il risultato che l’inglese – sottoposto a un lavoro sporco e faticoso a cui non era abituato – rese sempre sotto i suoi standard e patì anche numerosi infortuni. Tutti i giocatori d’attacco che avevano garantito al Real le sue ultime tre Champions League ma non erano dei noti fuoriclasse del calcio mondiale divennero pedine marginali: Guti dovette progressivamente trasformarsi in un centrocampista, per trovare spazio; l’esterno sinistro Santiago Solari fu lasciato andare all’Inter per appena 2 milioni di euro; il centravanti Fernando Morientes, che aveva segnato quasi 100 reti in cinque stagioni con il Real Madrid, divenne la riserva di Ronaldo e, infine, fu messo fuori squadra e prestato al Monaco. E poi c’erano gli altri Pavónes, quelli che avevano avuto la sventura di nascere attaccanti e che quindi, nel Real Madrid di Florentino Perez, non avevano alcuna ragion d’essere, come Tote e Javier Portillo, le cui carriere non spiccarono mai il volo.

Nell’estate del 2004, il progetto degli “Zidanes y Pavónes” era archiviato. Tentando il tutto per tutto pur di salvare la baracca, Perez acquistava in un colpo solo il mediano danese Thomas Gravesen e i centrali difensivi Jonathan Woodgate e Walter Samuel; ma Gravesen era solamente un buon giocatore, lontano anni luce dall’efficacia tattica di Makélélé, mentre Woodgate, pagato 20 milioni, passò più tempo in infermeria che in campo. Inserito in un contesto confusionario e instabile, anche il Muro della Roma Samuel fu sommerso dai pessimi risultati, e appena possibile fece ritorno in Italia.
Forse accortosi, troppo tardi, di aver sbagliato, nel suo ultimo anno di presidenza Florentino Perez arrivò a spendere 25 milioni per il diciannovenne terzino destro del Siviglia Sergio Ramos. Negli anni successivi, quelli della gestione di Ramon Calderon, quell’acquisto gli fu spesso rinfacciato come il suo ultimo errore. Nel 2009, Perez rivinse le elezioni per la guida societaria del Real Madrid: Sergio Ramos era nel frattempo diventato il leader della difesa e, sotto la direzione tecnica di Carlo Ancelotti, nel 2014 vinse la Decima, a dieci anni esatti dal fallimento degli “Zidanes y Pavónes”. Due anni dopo, Zinedine Zidane avrebbe ereditato la carica di allenatore e portato il Real a vincere tre Champions League consecutive. Nel frattempo, nel 2011, Francisco Pavón si era ritirato a soli 31 anni, dopo un’orribile stagione in Francia all’Arles-Avignon, dove si era ritrovato come compagno Alvaro Mejía. Pochi anni fa, dichiarò che lo slogan coniato da Perez, per lui, è un motivo d’orgoglio: “Rappresentavo la cantera e vedevo il mio nome accanto a quello di Zidane.”
Fonti
–BRIDGES Dan, ‘Zidanes y Pavones’ at last under the man himself…, Football365
–NOLLA Santi, Ni Zidanes ni Pavones, Mundo Deportivo
–RICCI Filippo, Zidanes y Pavones, La Gazzetta della Sport
–RODRIGUEZ Juan Manuel, Zidanes y Pavones; un modelo cuestionado, Libertad Digital
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