“Stai ammonendo solo noi. Solo noi.” Il lungagnone albiceleste col 10 sulle spalle lo ripete stentoreo, con tono polemico, ma tanto serve a poco: Rudolf Kreitlein – apprezzato sarto bavarese che però è pure un’ancor più apprezzato arbitro – non capisce una parola di spagnolo. Sa solo che quel tono ha un che di arrogante: il lungagnone lo fissa dall’alto in basso, con quei suoi occhi piccoli e torvi e quel nasone saccente. Così, Kreitlein gli dice di andarsene fuori. Sono passati 35 minuti dall’inizio della partita, e Argentina e Inghilterra stanno ancora sullo 0-0.
Prima di proseguire il racconto, occorre rendersi conto che, come tutte le storie che si rispettino, anche questa ha un trascorso. L’Argentina, innanzitutto: è un paese strano, in cui si parla spagnolo ma in cui una fetta enorme della popolazione è di origine italiana, e nonostante questo quasi tutti i club di calcio hanno nomi in lingua inglese. Come gli inglesi, gli argentini hanno un rapporto particolare con il calcio, che potremmo definire intimo: hanno vinto dodici Campeonatos Sudamericanos, ma nessun Mondiale, e la finale persa nel 1930 contro i rivali uruguayani fa ancora male. Gli inglesi, i primi Mondiali li hanno disertati ritenendosi superiori, poi nel 1950 si sono accorti di non esserlo affatto, e il torneo iridato del 1966, organizzato in casa, è la loro occasione per dimostrare al mondo di essere ancora i Maestri.
L’Argentina è stata la seconda squadra ad affrontare gli inglesi a Wembley, nel 1951, dopo la Scozia: finì con una sconfitta, ma con la promessa di una rivincita, così due anni dopo l’Albiceleste stendeva l’Inghilterra 3-1 a Buenos Aires. Fu lì che iniziarono i dissapori: gli inglesi non riconobbero il risultato, dicendo di non aver schierato la formazione migliore, e pretesero una partita ufficiale, che si disputò tre giorni dopo ma fu interrotta sul pareggio a causa del maltempo. Per gli argentini, il primo match di Buenos Aires fu ritenuto valido, e motivo di vanto.
Il numero 5 di quell’Argentina era il mediano del Boca Juniors Eliseo Mouriño, che fu mentore del lungagnone col 10 sulle spalle, Antonio Ubaldo Rattín: nel 1956, Rattín esordì tra i professionisti nel derby contro il River Plate, sostituendo l’infortunato Mouriño, e iniziando una carriera che lo avrebbe portato, nel giro di pochi anni, ad affermarsi come un’icona assoluta del Boca e del calcio argentino. In tutto questo, Mouriño moriva in un incidente aereo nel 1961, subito dopo essesi trasferito ai Green Croos di Santiago del Cile. Rattín aveva 25 anni quando l’Inghilterra restituiva ai sudamericani il 3-1, spedendoli fuori dai Mondiali del 1962.
Il gol del raddoppio inglese arrivò appena prima della fine del primo tempo ad opera di Bobby Charlton, coetaneo di Rattín e a sua volta leggenda del calcio britannico e del Manchester United, nonché uno dei sopravvissuti della tragedia di Monaco che aveva cancellato una generazione dei Red Devils. Quattro anni più tardi, era sempre Charlton il principale catalizzatore del gioco e delle speranze dell’Inghilterra, e fu per uno sgambetto su di lui che Rattín ricevette la prima ammonizione di quella partita.

Rudolf Kreitlein, gli argentini non li aveva particolarmente a cuore. Dieci mesi prima aveva diretto la finale d’andata della Coppa Intercontinentale in cui l’Inter aveva sconfitto con un netto 3-0 l’Independiente di Avellaneda. Gli argentini avevano il dente avvelenato per la sconfitta nella finale dell’anno precedente, e Kreitlein fu ben felice di non dover arbitrare il ritorno in Sudamerica: da prima che la partita iniziasse, i giocatori dell’Inter erano stati colpiti da una sassaiola che ne aveva lasciati alcuni contusi, e che era stata completamente ignorata dalle autorità locali. Stava diventando ormai opinione comune, in Europa, che gli argentini fossero giocatori rudi e scorretti, e che il loro pubblico era anche peggiore.
Così, l’arbitro tedesco decide di lasciar correre sui falli di Nobby Stiles e punire invece quelli degli argentini. Quando infine riprende Luis Artime per un’infrazione in barriera, il solitamente composto Rattín gli viene incontro accusandolo di essersi venduto ai padroni di casa. O almeno così pensa Kreitlein, un istante prima di indicare l’uscita dal campo al mediano del Boca.
Potrebbe finire così, se Rattín non decidesse d’impuntarsi a sua volta. “Perché? Mi devi spiegare perché: ne ho il diritto.” dice, mostrando la fascia che porta al braccio. In Sudamerica è abbastanza comune che un capitano interlocuisca con l’arbitro, ma in Europa questa cosa è decisamente meno frequente. E soprattutto, Kreitlein non capisce nulla di ciò che gli dice Rattín, e insiste nell’indicargli l’uscita.
Ma el Rata non ci sta, pretende un interprete, più semplicemente pretende di essere ascoltato. La sua, ormai, è un’ostinata battaglia di potere tra un umile capitano di una squadra ospite e l’arbitro che parteggia per i padroni di casa; o almeno così la vede lui. Kreitlein è una pedina in un gioco studiato per far vincere la squadra ospitante, la parola d’ordine della FIFA è “fermate le sudamericane!”: hanno lasciato massacrare Pelé dai bulgari, facendo eliminare il Brasile; hanno fatto fuori l’Uruguay espellendo due giocatori nel quarto di finale contro la Germania Ovest; e adesso vogliono liberarsi anche dell’Argentina.
Deve intervenire addirittura Ken Aston, il decano dei direttori di gara inglesi, per convincere il capitano argentino a lasciare il campo e far riprendere la partita. Rattín, alla fine, acconsente a uscire, dopo dieci minuti di furiose proteste davanti a un pubblico attonito. Ma Rattín non se ne va per davvero: si ferma a bordo campo e si siede sul tappeto rosso steso per il passaggio della regina Elisabetta. Il pubblico inizia a fischiarlo e insultarlo, così tocca alla polizia convincerlo a prendere la via degli spogliatoi, lungo la quale el Rata si permette l’ennesimo oltraggio agli inglesi, stropicciando platealmente la bandierina del calcio d’angolo, che recava i colori dello Union Jack. E a quel punto sono oggetti, e non più parole, a piovergli addosso.

La partita prosegue e finisce. A dodici minuti dal triplice fischio, Geoffrey Hurst si ritrova solo in area e spedisce di testa alle spalle di Antonio Roma, fissando il risultato sul vantaggio inglese. Scoppiano nuove proteste: il gol è in fuorigioco, dicono i sudamericani. Kreitlein non ascolta, e a fine partita un cordone di poliziotti lo scorterà negli spogliatoi e poi in albergo, proteggendolo da un tentativo di aggressione da parte del difensore Roberto Ferreiro. Il suo compagno di squadra Ermindo Onega, mezzala del River Plate, puntò invece Harry Cavan, vice-presidente della FIFA, mollandogli un ceffone, prima che li separassero. Quando vide il suo terzino George Cohen scambiarsi la maglia con un argentino, l’allenatore inglese Alf Ramsey irruppe sul campo di gioco e lo portò via; più tardi, in conferenza stampa, disse che era impossibile giocare a calcio con quegli “animali”.
In Argentina, quel quarto di finale diviene noto come “il Furto del Secolo”. Le ambasciate britanniche a Buenos Aires e Montevideo si ritrovano circondate da contestatori. Al loro ritorno a casa, i giocatori argentini sono accolti da una folla festante, che gli innalza a eroi nazionali, chiamandoli “campioni del mondo”. Una partita di calcio si è appena trasformata in un incidente internazionale destinato a diventare sempre più grosso.
Non solo la stampa sudamericana accusa gli inglesi, ci si è messa pure quella italiana: articoli apparsi sul Messaggero e sull’Avanti denunciano espressamente una direzione unilaterale degli arbitraggi, pro-inglese e anti-latinoamericana. Al coro si unisce il presidente della Federcalcio brasiliana João Havelange, dando così il via, in un certo senso, alla campagna politica contro il presidente della FIFA Stanley Rous, che lo porterà ai vertici del calcio mondiale nel 1974.
Il gol fantasma segnato ancora da Hurst nella finale di Wembley contro la Germania Ovest sposterà le polemiche dal Sudamerica all’Europa. L’ingiustizia che gli argentini sentono di aver subito viene marginalizzata e dimenticata dal mondo, ma coverà nel silenzio di un paese che, un decennio dopo, vivrà sotto l’ossessiva propaganda nazionalista della dittatura militare. Nel 1986, l’Argentina avrà la sua vendetta; ma questa è un’altra storia.
Fonti
–BRUSCHI Paolo, Antonio Rattín, alle origini della “mano di Dio”, GoNews
–BURNTON Simon, Why not everyones remembers the 1966 World Cup as fondly as England, The Guardian
–CACHARL Alejandro, El día que Rattín se sentó en la alfombra roja de la reina Isabel II, La Capital