Una platea di soldati, un gallese in piedi a parlare. Non era un ufficiale, ma spiegava comunque piani d’attacco, pur se più adatti a tempi di pace che di guerra: Jimmy Murphy aveva dovuto smettere col pallone allo scoppio del conflitto, quando si era da poco trasferito dal West Bromwich Albion allo Swindon Town e di anni ne aveva appena ventotto. Durante quella lezione di football tenuta ai soldati britannici, aveva deciso che insegnare gli piaceva, e che a guerra finita avrebbe potuto farne un lavoro. Ad assistere alla lezione, per caso, c’era anche un collega calciatore, uno scozzese che, come Murphy, era stato costretto dalla guerra al ritiro anticipato, quando vestiva la maglia del Liverpool, e adesso stava studiando per diventare allenatore: il suo nome era Matt Busby.
Jump-cut. Un cammino impressionante: il Manchester United, prima squadra britannica a concorrere in Coppa dei Campioni, ha messo fuori combattimento, nell’ordine, l’Anderlecht, il Borussia Dortmund e l’Athletic Bilbao prima di arrendersi, di misura, al Real Madrid campione in carica. È il 1957, e per la prima volta dopo tante umilianti sconfitte – quella ai Mondiali del 1950 contro gli Stati Uniti, e quella storica patita a Wembley contro l’Ungheria nel 1953 – il calcio inglese sente di essere tornato a contare qualcosa a livello internazionale. Li chiamano i Busby Babes, i “ragazzi di Busby”, perché l’allenatore dello United ha messo insieme una squadra con un’età media inferiore ai venticinque anni, fatta di ragazzi cresciuti nel settore giovanile del club e approdati presto in prima squadra: alcuni sono poco più che ventenni, come Duncan Edwards o Eddie Colman; uno solo, il regista Johnny Berry, ne ha più di trenta. Tutto merito dell’organizzazione manageriale di Busby, e del fiuto e dell’abilità d’allenatore delle giovanili del suo socio Jimmy Murphy.

Alla fine della guerra, Busby avrebbe potuto tornare al Liverpool a chiudere la carriera, come gli aveva suggerito George Kay, che lo aveva portato nel Merseyside nel 1936 e lo aveva fatto capitano dei Reds. Ma recuperare la forma fisica dopo sei anni di stop, alla sua età, non era cosa da poco, e lo United gli aveva già offerto un posto in panchina, a lui che era stato una bandiera dei rivali cittadini del City negli anni Trenta: la sponda rossa di Manchester sognava da tempo di tornare ai fasti di Ernest Mangnall e Billy Meredith – i due artefici, il primo allenatore e il secondo centrattacco, dei titoli nazionali del 1908 e del 1911 – e Busby aveva le idee chiare su come riportare il club, nel giro di qualche anno, in cima al calcio inglese. A Murphy fu affidata la cura del settore giovanile e la rete di scouting, che aveva il compito di portare a Manchester i migliori giovani delle isole britanniche. La società non era particolarmente ricca, per cui bisognava lavorare sulle fondamenta.
“Ricostruzione”: rimettere in piedi la squadra quasi da zero, così come, simbolicamente, doveva essere rimesso in piedi Old Trafford, lo stadio caduto sotto l’artiglieria della Luftwaffe, che aveva obbligato lo United a spostarsi a giocare a Maine Road, la casa del City. Ricostruire come Matt Busby e sua madre avevano dovuto fare con le loro vite, dopo che il padre era tornato dalla Grande Guerra avvolto in un feretro. A cominciare dai veterani della squadra, arrivati ai Red Devils prima della guerra – Allenby Chilton, Johnny Carey, Stan Pearson, Jack Rowley – a cui affiancare nomi nuovi, ragazzi di ventiquattro o venticinque anni che non avevano ancora esordito in nessuno club perché, quando avevano l’età per farlo, i campionati erano sospesi – Jack Crompton, John Aston, Henry Cockburn, Charlie Mitten, e soprattutto l’esperta ala destra del Celtic James Delaney, unico vero acquisto di Busby e primo dei leggendari numeri 7 che faranno la storia dello United. Nel 1948, inaspettatamente, questi giocatori si piazzavano secondi in campionato, alle spalle dell’Arsenal, e sollevavano il loro primo trofeo, la FA Cup; quattro anni dopo, il Manchester United diventava campione d’Inghilterra.
Ma i Babes sarebbero arrivati solo più tardi. Nel corso degli anni Cinquanta, gli adolescenti scovati e cresciuti da Jimmy Murphy si presero lo United e iniziarono l’ascesa sul tetto del mondo del calcio: nel 1951 aveva esordito il primo prodotto del nuovo vivaio dei Red Devils, il terzino sinistro Roger Byrne, che sarebbe stato una pedina fondamentale nel campionato vinto l’anno successivo e, in capo a poche stagioni, avrebbe ereditato la fascia di capitano. Il primo caps, nel 1953, del mediano Duncan Edwards, all’epoca ritenuto già uno dei più forti calciatori al mondo nonostante la giovane età, fece da apripista a una nuova generazione che vantava talenti come Bill Faulkes, Jackie Blachflower, Eddie Colman, Mark Jones, David Pegg, Dennis Viollet e Billy Whelan. I ragazzi di Busby si assicurarono nuovamente il campionato nel 1956 e nel 1957.

Jump-cut. La sera del 6 febbraio 1958, Jimmy Murphy si trova a Cardiff: da due anni ha accettato di allenare, oltre alle giovanili del Manchester United, la nazionale del Galles, con l’obiettivo di portarla per la prima volta ai Mondiali. Nel girone di qualificazione, il Galles ha ottenuto un ottimo secondo posto dietro alla Cecoslovacchia, che però non è bastato a qualificarsi, se non che la Fifa ha disposto un match di spareggio contro Israele, a seguito del rifiuto di Egitto e Sudan di affrontare la squadra mediorientale (erano passati solo due anni dall’inizio della crisi di Suez). Dopo la netta vittoria per 2-0 dell’andata, il Galles aveva ripetuto il risultato in casa quella sera, e in estate avrebbe finalmente giocato in Coppa del Mondo. Ma a Murphy arriva una telefonata, dalla dirigenza dello United: c’è stato un incidente, a Monaco di Baviera; l’aereo che trasportava Busby e i suoi ragazzi – reduci dalla seconda qualificazione consecutiva alle semifinali di Coppa dei Campioni, avendo eliminato la Stella Rossa di Belgrado – si è schiantato sulla pista. La situazione è molto grave.
Ci furono in tutto ventitre morti, tra giocatori, membri dello staff tecnico, giornalisti, altri componenti dell’equipaggio e passeggeri; uno di loro, Willie Satinoff, era uno storico tifoso dei Red Devils e grande amico di Matt Busby, che lo aveva invitato a viaggiare con la squadra. Busby era vivo, ma gravemente ferito, e con lui molti altri: la punta Johnny Berry e il centrocampista Jackie Blanchflower, riportarono fratture alla testa, alle gambe, al bacino e molti altri gravi danni; Berry riprese conoscenza solo dopo un mese, senza ricordarsi nulla dell’incidente, mentre Blanchflower perse praticamente il braccio destro, e nessuno dei due fu più in grado di giocare a calcio. Otto dei Busby Babes morirono sulla pista di Monaco: i difensori Geoff Bent e Mark Jones, il capitano Roger Byrne, i centrocampisti Eddie Colman, David Pegg e Duncan Edwards, e gli attaccanti Billy Whelan e Tommy Taylor.
La squadra fu affidata a Murphy per portare a termine la stagione, divenuta ormai una pura formalità. La fascia di capitano fu affidata al terzino destro Bill Foulkes, uno dei sopravvissuti: quando l’allenatore gliela offrì, Foulkes la rifiutò; Murphy dovette fissarlo dritto negli occhi e dirgli che aveva il diritto e il dovere di portarla lui, che era il più anziano, sebbene avesse appena ventisei anni. Sul campo d’allenamento, Murphy diede sempre l’impressione di essere calmo, determinato, freddo, quasi distaccato; anche a casa, non parlava mai di come si sentisse dopo Monaco. Un giorno, però, qualcuno lo intravide in un corridoio secondario dell’ospedale – dove andava periodicamente a trovare Matt Busby, per confidarsi sul futuro della squadra: perché Busby non ci stava, ad arrendersi al destino – a piangere da solo: quelli erano anche i suoi ragazzi, forse soprattutto i suoi ragazzi; li aveva conosciuti che erano poco più che bambini, li aveva cresciuti come un secondo padre, gli era stato accanto in ogni momento della loro carriera, li aveva metaforicamente messi su quell’aereo. Non era neppure riuscito ad andare a ogni funerale, perché otto tutti insieme in angoli diversi del paese erano un problema, specialmente per chi doveva anche lavorare e mandare avanti il club, nel rispetto sia dei vivi che dei morti.

Al suo ritorno, Matt Busby chiamò a sé ciò che restava della sua squadra – Faulkes, il portiere Harry Gregg, che a Monaco aveva salvato la vita a una passeggera incinta e alla figlia, il centrocampista Bobby Charlton, che a ventanni doveva superare la morte di tanti amici e colleghi – e strinsero un patto: tornare a vincere per chiudere quel conto col destino e rendere onore a chi non c’era più. Negli anni successivi, nuovi ragazzi dalle giovanili esordirono in prima squadra: l’irlandese Shay Brennan, l’inglese Nobby Stiles, il nordirlandese George Best. Nel giro di un decennio – grazie anche all’aggiunta di pedine preziose come Pat Dunne tra i pali e di punta Denis Law, che Busby aveva fatto esordire giovanissimo nella Scozia, quando allenava la nazionale in aggiunta al proprio club – il Manchester United tornò ai vertici del calcio. Nel 1963 il primo titolo del nuovo corso, una FA Cup, proprio come quella che nel 1948 aveva aperto il primo ciclo dei Busby Babes; nel 1965, la conquista della Premier Division. Nel 1968, i Red Devils trascinati da Best e Charlton – che due anni prima aveva guidato l’Inghilterra al suo primo titolo mondiale – superavano il Benfica di Eusebio e diventavano la prima squadra inglese a vincere la Coppa dei Campioni. Busby, commosso, dopo la partita disse dei suoi ragazzi: “Ci hanno resi orgogliosi. Sono tornati con i loro cuori per dimostrare di cosa è fatto il Manchester United. Questa è la cosa più bella che sia mai successa in vita mia, stasera sono l’uomo più orgoglioso d’Inghilterra.” Poi, rivolse uno sguardo a Jimmy Murphy – che se ne stava sempre volutamente in secondo piano, perché era “un grande insegnante, ma non aveva ambizioni di comando”, come disse Bobby Charlton – e gli sorrise. Ce l’avevano fatta.
Ad entrambi furono offerte altre panchine, nel corso della carriera – a Murphy quella di Arsenal e Juventus, a Busby quella del Real Madrid – ma le rifiutarono sempre perché, come disse lo stesso Busby a Santiago Bernabeu, quando gli descrisse il Real come il “paradiso degli allenatori”, il loro paradiso si trovava a Manchester. Nel 1971, a oltre sessant’anni – di cui ventisei trascorsi assieme allo United, vincendo cinque campionati, altrettanti Charity Shield, due FA Cup e una Coppa dei Campioni – di comune accordo decisero di andare a godersi la pensione.

Fonti
–Busby Matt: il mago del pallone che vinse il destino, Storie di Calcio
–HERBERT Ian, Jimmy Murphy: ‘He was a brilliant teacher but didn’t want to command’, The Indipendent
–MCDONNELL David, Munich Air Disaster: Forgotten man Jimmy Murphy picked up reins, Daily Mirror
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